“Pacific Palisades”. Un testo al confine
di Stiliana Milkova
Pacific Palisades, il nuovo libro di Dario Voltolini, è appena uscito da Einaudi. Pacific Palisades racconta una vita attraverso la mappa di una città. Per specificare, il suo è un testo autobiografico che colloca la propria storia sulla pianta topografica di Torino (la città natia dello scrittore) per poi espandere la prospettiva dell’io narrante e dunque anche quella del lettore fino a comprendere territori lontani e definitivamente stranieri e fare un giro dalla California a Tokyo. Quei territori geografici vengono descritti anche come territori limitrofi, posizionati al confine tra realtà cartografica e immaginazione, tra presente e passato – territori che sono innanzitutto dentro di noi, luoghi che generano la nostra identità e per questo anche plasmano le nostre esperienze. In questo modo l’ottica testuale si muove vertiginosamente dal dettaglio personale alla panoramica globale, si sposta da paesaggi urbani a paesaggi psichici. Il tema dominante di Pacific Palisades è il legame inestricabile tra geografia e genealogia, tra memorie (esperienze vissute o perfino inventate, desiderate) e luoghi (reali e immaginari, visibili e invisibili). L’incipit del libro, “Tiglio”, collega esplicitamente genealogia e geografia, nonché il generare del testo e la topografia torinese:
Il 2 giugno del 2015, Festa della Repubblica Italiana e giorno in cui,
nel 1932, nacque mio padre,
piazza Pitagora, a Torino, dopo il tramonto,
era satura del profumo dei tigli.
C’era una luna bella grassa in cielo,
ma gli angoli della piazza, il bar, i muri dei palazzi
erano bui.
Anche ore dopo, in un altro punto della città, corso Brescia
era gonfio del profumo che il tiglio rilascia nell’aria calda,
e così era in tutta la città in ogni ora senza vento
nei suoi viali inondati di fogliame
quando attraversi attento sebbene le strade siano deserte.
Anno dopo anno, la fioritura di questi alberi sembra far ricordare
scene passate,
ma è difficile fissarle e renderle certe, sono alla fine suggestioni
legate ai luoghi, ai viali, alla primavera in cui finiscono
le dannate scuole.
Puttane cinesi lavorano nel retro.
Pacific Palisades cerca di fissare la dinamica di quelle “scene passate”, delle “suggestioni / legate ai luoghi” e di darle forma concreta, di verbalizzare (materializzare) il legame tra luoghi e soggettività. Il racconto di quel legame assume tratti sia autobiografici che cartografici: Voltolini rintraccia la propria storia familiare sulla mappa di Torino (quartieri, ponti, locali) seguendo i passi di genitori e parenti, vivi o morti, riflettendo sulle loro vite e ricostruendo le loro morti in una serie di incontri. Alcuni di quei incontri avvengono in posti precisamente geografici, “in un ristorante di pesce / sul 45° parallelo Nord / del nostro pianeta” ed altri in luoghi universalmente riconoscibili – fabbriche industriali, crocevia urbani, paesini al mare, bar. Una delle protagoniste raccontate da Voltolini, “la donna che va nei bar”, una zia dello scrittore, vaga per una città che può essere Torino o qualsiasi altra metropoli. Il lettore si trova a seguirla per strade e viali, incantato dal suo percorso, incuriosito dal suo spostarsi da bar in bar, dalla sua andatura scandita dai colori dei semafori, dai marciapiedi, dalle facciate dei palazzi, dalla luce che si trasforma man mano che la donna cammina. Spazio urbano e corpo umano si intrecciano nel produrre del testo ma anche nella ricostruzione del passato. All’interno del racconto della donna che va nei bar c’è anche la storia della zia stessa, la sorella del padre di Voltolini, e della tragica morte originaria dei vagabondaggi di lei. Il suo percorso per la città apre la strada a uno sguardo dentro un suo paesaggio interno, psichico.
In effetti il libro di Voltolini crea una sorta di album di famiglia che d’altronde diventa anche una mappa di territori dentro di noi, di luoghi e paesaggi ineffabili, invisibili, ciò che Voltolini definisce “il territorio dove continuamente si nasce”, “non tanto un confine quanto un parapetto, una ringhiera fragile”. E appunto questo concetto di un parapetto dentro di noi, una palizzata che esiste a prescindere, è al centro del libro. Anche il titolo deriva esattamente da lì. “Pacific Palisades” è il nome di un quartiere sudcaliforniano, vicino a Santa Monica, e in questo senso si riferisce a una realtà cartografica, a un topos concreto che viene menzionato nel testo come tale. Nonostante ciò l’io narrante porta l’idea pressoché ossimorica di “pacifiche palizzate” oltre il significato letterale ed esplora le implicazioni e manifestazioni dei nostri meccanismi difensivi costruiti per proteggerci dal dolore, dall’invecchiare, dalla morte. E nel raccontare appunto pareti e parapetti – le scene traumatiche del passato – Voltolini li trasforma in esperienze affettive, generative.
Pacific Palisades è un testo ibrido che scivola tra generi e forme letterari, essendo simultaneamente una narrazione in versi (o una poesia in prosa?), una narrativa di viaggio sentimentale, un’autobiografia, e un saggio filosofico. La concretezza del linguaggio evocativo, la rima che pervade il testo ma a tratti, senza uno schema regolare, la persistenza di assonanze e consonanze, le immagini ricorrenti, assegnano al testo un passo scorrevole. E infatti l’andatura del testo viene animata da un ritmo innato che produce un effetto quasi da camminante. Il lettore cammina assieme all’io narrante, attraversa i territori della sua memoria, passa accanto alle sue pacifiche palizzate e girovaga per gli spazi urbani dell’immaginario voltoliniano.
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Pacific Palisades va in scena al MACRO Testaccio – La pelanda di Roma, diretto e interpretato da Alessandro Baricco e con musiche di Nicola Tescari, dal 12 al 22 ottobre. Maggiori informazioni a questo link.