Interférences # 18 / Noi europei

di Andrea Inglese

[Questo testo d’occasione, mi è stato commissionato dalla rivista “PO&SIE”, che ha dedicato i suoi ultimi tre numeri al tema dell’Europa: Trans Europe Éclairs, n° 160-161, e Trans Europe Éclairs 2, n° 162. Nous les européens è apparsa in francese in quest’ultimo numero. Ne propongo qui la versione italiana. Io non credevo si potesse scrivere una poesia sull’Europa, invece – bene o male – è successo. Il numero 162 include anche testi poetici di Michel Deguy, Michael Battala, Jacques Demarcq, Benoit Gréan, Sophie Loizeau, Valerio Magrelli, Jacques Roubaud e Martin Rueff. Tra i personaggi evocati dai diversi interventi saggistici: Walter Benjamin, Thomas Mann, Paul Valéry, Herman Melville, la poesia modernista, György Kurtág, Beatrice Cenci e Artemisia Gentileschi. A. I.]

NOI EUROPEI
.
Stiamo abbastanza bene,
non siamo disorientati,
abbiamo ancora idee, cose da dire,
siamo zeppi di progetti, assidui nell’invenzione,
spostiamo cose, allarghiamo menti

noi europei, la gente ci detesta

non è che mi sia così familiare questa formula, “noi europei”,
certo, comprendo l’urgenza, la necessità dell’epoca,
bisogna mettersi sotto, “noi europei”, all’inizio
suona bizzarra, ma io insisto, per senso
di responsabilità, “noi europei, non siamo mica
morti, teniamo ancora la posizione, siamo qui
nella buona vecchia Europa”,
lo dico da convinto, ma la gente non ci sopporta,
gli diamo sui nervi,
vogliono schiacciarci con i camion, i furgoni, ci sparano addosso,
c’è un malinteso di civiltà, e ci costa caro
in telecamere di sorveglianza

gli esperti, però, dicono che abbiamo fatto le cose per bene,
possiamo esserne fieri, la vecchia Europa
non è poi così vecchia, si modernizza
di continuo, si perfeziona,
siamo adattabili, disponiamo d’una grande tolleranza,
la quantità di cose che siamo in grado di tollerare!
ma è la gente che non ci tollera più
(io vorrei diventarlo
prima di esser fatto fuori con una bombola di gas
un europeo tollerante)

mi rendo conto che non serve più a molto essere francese o italiano,
bisogna far fronte alla competizione mondiale
con una corazza morale e politica di europeo,
ma bisogna saperne qualcosa di storia e geografia, essere
un buon europeo non è innato

spero in ogni caso che se l’Europa esiste,
abbia un corpo sufficientemente compatto e omogeneo
dentro cui infilarmi, un corpo
senza falle, giudeo-cristiano, ma illuminato
fino al liberalismo

ma non si può essere amati sempre, anche i nostri
ci detestano, i più giovani dei nostri, avevano bisogno
di più corsi in storia e geografia, di rispetto
ortografico e grammaticale,
eppure non possiamo, in fondo, essere così cattivi
con tutte le chiese che abbiamo costruito,
nel corso dei secoli null’altro che magnifiche chiese cattedrali opere
di pietà in pietra e marmo
e il giuramento d’Ippocrate
e l’Enciclopedia,
ci siamo sempre preoccupati dell’umanità, dell’umanità intera, totale,
abbiamo esagerato a volte, è possibile

ma la geografia prima di tutto, le buone lezioni alle elementari, alle medie
con la cartina dell’Europa dispiegata sul muro di fronte,
l’Europa dietro alla cattedra come un paesaggio astratto, monotono,
che si anima formicolante di personaggi misteriosi appena la si avvicina:
i cerchi fragili dei villaggi sperduti, i tratti tremolanti
e fini dei fiumi secondari, le isole anonime, pezzi di terra
galleggianti senza scopo lontani dalla coste, dappresso
questa Europa si sparpagliava ovunque, vi si cercava un limite,
………………………………………………………………………….[un contorno
rassicurante, perché fosse come carne da salsiccia
insaccata per bene, soda di popoli e territori, ma non si capiva mai
il limite, sulla destra, a est, dove finiva la nostra casa comune
in Russia o in Unione Sovietica? il mio sguardo scivolava sempre
al di là degli Urali, sospinto verso il corridoio sconfinato, il grande
serbatoio di spazio: la spaventosa Siberia, si punta dritti a nord,
prossimi al circolo polare artico, partendo da Arkhangelsk, costeggiando
…………………………………………………………………………………………[il mare
o si traccia piuttosto un cammino nel mezzo, fino al villaggio di Tobolsk,
prima d’imbattersi improvvisamente sul margine della cartina, là
la Siberia scompariva e il muro della classe tornava, sporco, idiota,
senza lo sfarzo della toponimia, e per questa ragione
non si sapeva mai dove cominciasse l’Asia dove finisse l’Europa
e che cosa fosse esattamente la grande cosa sovietica, amorfa
e ammaliante, che fluttuava nel mezzo,
da quel lato lì, in ogni caso, il limite non era stagno

la frontiera ovest, invece, ce lo avevano garantito, non presentava misteri:
Spagna e Portogallo, poi l’oceano, tutta una superficie azzurra che separa
ma di nuovo ero attratto lungo una diagonale ascendente,
avevo una voglia folle di andare a Reykjavík, lontano da tutto, in un’isola
dove si parlava una lingua improbabile, piazzata sul margine della carta,
verso questo nord assoluto che non possedeva più punti di riferimento,
questo nord che aveva vinto l’ostinazione meticolosa dei cartografi,
non disegnavano quasi più nulla, dei semplici contorni, non si capiva
se fosse mare, terra, ghiaccio o qualcos’altro, d’una materia differente
e anche là i conti non tornavano, ci avevano privati per amputazione
silenziosa della Groenlandia, un risparmio di spazio ovviamente,
ma confondevano ancora le carte, e con difficoltà concepisco,
dopo tale troncamento del regno di Danimarca, la “finezza di sentimento
morale”, decantato da Renan, specifico di noi indo-europei, noi ariani,
dove sarebbe la nostra proverbiale “morbidezza”, a fronte di questo gesto
da macellaio, che vuol sbrogliare una frontiera occidentale poco evidente,
per averla facile sulla carta – piatta, nitida e pulita – l’Europa?

ma l’Europa non è soltanto un territorio, una faccenda di frontiere
o di bacini idrografici, sono d’accordo, è anche una parola,
una cosa simbolica, un sentimento profondo, tutta una storia
di miliardi di anni di cultura, esagero, di milioni,
di qualche centinaio di anni almeno, bisogna porsi
in postura rammemorante: e già compare Rubens
Pierre Paul, vigore e raffinatezza, nessuno più europeo
di lui, ma immediatamente è l’altro che sorge per associazione,
di sei anni più giovane, la porcheria von Wallenstein Albrecht,
il condottiere, sbucano in coppia, il pittore-diplomatico
e il generale-imprenditore, la somma della pittura barocca
e la macchina di saccheggio e massacro della guerra dei Trent’Anni,
non bisogna incupirsi, ma se evoco Wittgenstein Ludwig,
il più radicale e vagabondo dei filosofi del secolo passato,
trascina con sé l’obbrobrio Hitler Adolf, stesse
scuole medie, frequentate a Linz nel 1904, è stomachevole
la memoria per noi Europei, ad ogni istante questa linea
ariana, greca, romana, cristiana, galileiana, sragiona,
si perde, non arriva veramente ad esistere,
noi europei è rischioso essere noi stessi, voler
a tutti costi fare l’avanguardia dell’umanità,
giurare fedeltà alla nostra memoria, alle frontiere
così incerte, noi europei alla fine
cerchiamo
di non essere troppo somiglianti a noi stessi

 

[Testo apparso su Alfadomenica #5 – aprile 2018 ]

2 COMMENTS

  1. Testo splendido, Andrea.
    L’estate scorsa “Critique” dedicava un numero al tema “Nous”; ne avevo tratto spunto per un articolo poi apparso sull’ultimo numero di Sud, dedicato all’Europa. Ne incollo qui il primo pezzo, come microscopico contributo alla vertiginosa esplorazione del noi.

    [da “Noi e l’arcipelago”]

    Nel numero estivo della rivista «Critique», intitolato ‘Nous’ (giugno-luglio 2017), Marielle Macé si chiede in apertura a quale singolare corrisponda il plurale «noi». L’autrice ricorda come già Émile Benveniste avesse notato che in quasi nessuna lingua il pronome di prima persona plurale è formato a partire dal pronome di prima persona singolare. Seguendo questo punto di vista, «noi» non è il plurale di «io», ma è semmai la «jonction» dell’io con il non-io, che forma, citando il linguista francese, «une totalité nouvelle et d’un type tout particulier», cioè un «noi» imbrigliabile.
    Se è vero che noi/loro resta l’opposizione grammaticale più nociva della storia, oggi, in un momento in cui le ideologie diventano ologramma, e la difesa di questa o quella minoranza è sventolata in maniera trasversale in campi anche avversi fra loro, appare più che mai cruciale interrogarsi sul significato e sui confini, più o meno mobili, di questo confuso contenitore di identità. Cosa e dove è adesso «noi», nell’Europa che si vorrebbe porto d’accoglienza dei migranti?
    Per Benveniste, l’«io» che forma il «noi» è dotato di una spiccata tendenza ad assoggettare il non-io; e Macé dal canto suo ricorda che il «noi» si costituisce spesso intorno a una causa, a una lotta comune, piuttosto che intorno a una generica pluralità. Nel 2014 Jean-Christophe Bailly aveva pubblicato su «Vacarme» un bel testo dal titolo ‘“nous” ne nous entoure pas’, sfruttando anch’egli alcuni spunti offerti dagli studi benvenistiani. Bailly scriveva che il noi è la moltiplicazione incessante di piccole ed effimere formazioni insulari, che lui propone di chiamare ‘nostrations’, concependo dunque l’identità come «une suite de nostrations».
    L’idea del noi come tessuto proteiforme, composto di ‘formations insulaires’, richiama alla mente la ‘pensée archipélique’ di Édouard Glissant: secondo il teorizzatore del ‘Tout-monde’, l’unità passa per la diversità, per l’accordo delle differenze. «Il medesimo non è la molecola dell’identità, perché il medesimo sommato al medesimo non dà che il medesimo, mentre il diverso sommato al diverso produce un’identità in continua evoluzione», diceva l’autore in un’intervista rilasciata a «Il Manifesto». La strada per la costituzione di un noi arcipelagico, quindi, è quella che sa accogliere tutte le differenze senza assorbirle e senza mai cercare punti fermi. È la strada della creolizzazione, o del decentramento senza annessione, per utilizzare la terminologia traduttologica di Henri Meschonnic, il quale sosteneva che il segreto della traduzione è riconoscere e palesare la distanza che separa due testi, e non fingere ch’essa non esista […].

  2. Tradurre….tradire….ma se l’Europa non…..se dell’Europa non sia rimasto che un involucro…….l’Italia….la attraversi da nord a sud e il finestrino del treno ti rimanda un paesaggio vuoto di uomini e di animali…..ma se l’Europa fosse proprio finita proprio…..se il segno della fine non lo abbiano dato le armate hitleriane…..chissá……Che il centro o diversi epicentri del mondo non si siano altrove trasferiti….che i nuovi schiavi nei campi di pomodori o di kiwi o negli aranceti di Calabria o Sicilia…..
    Che nuovamente un piccolo paese del centro America, il Nicaragua riproponga…..Ecco….

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Andrea Inglese (1967) originario di Milano, vive nei pressi di Parigi. È uno scrittore e traduttore. È stato docente di filosofia al liceo e ha insegnato per alcuni anni letteratura e lingua italiana all’Università di Paris III. Ha pubblicato uno studio di teoria del romanzo L’eroe segreto. Il personaggio nella modernità dalla confessione al solipsismo (2003) e la raccolta di saggi La confusione è ancella della menzogna per l’editore digitale Quintadicopertina (2012). Ha scritto saggi di teoria e critica letteraria, due libri di prose per La Camera Verde (Prati / Pelouses, 2007 e Quando Kubrick inventò la fantascienza, 2011) e sette libri di poesia, l’ultimo dei quali, Lettere alla Reinserzione Culturale del Disoccupato, è apparso in edizione italiana (Italic Pequod, 2013), francese (NOUS, 2013) e inglese (Patrician Press, 2017). Nel 2016, ha pubblicato per Ponte alle Grazie il suo primo romanzo, Parigi è un desiderio (Premio Bridge 2017). Nella collana “Autoriale”, curata da Biagio Cepollaro, è uscita Un’autoantologia Poesie e prose 1998-2016 (Dot.Com Press, 2017). Ha curato l’antologia del poeta francese Jean-Jacques Viton, Il commento definitivo. Poesie 1984-2008 (Metauro, 2009). È uno dei membri fondatori del blog letterario Nazione Indiana. È nel comitato di redazione di alfabeta2. È il curatore del progetto Descrizione del mondo (www.descrizionedelmondo.it), per un’installazione collettiva di testi, suoni & immagini.