Epifania

di Gregorio H. Meier

La mia casa di campagna si trova sul limitare del bosco, in una posizione assai isolata, là dove la strada asfaltata s’arresta e ha inizio lo sterrato. Si tratta di un vecchio casolare a forma di elle da cui sono state ricavate due unità abitative. Il braccio corto della elle appartiene ai miei, l’altro invece a una famiglia composta da madre e figlio che vive lì in pianta stabile da molto prima che arrivassimo noi, noi che in fondo siamo soltanto dei forestieri, ché in campagna ci andiamo giusto nei mesi estivi. Quella sera però era uno dei rari fine-settimana d’autunno che a me e a mio padre ci era presa di starcene nel nostro romitaggio, tanto per staccare dalla città.

Si era intorno all’ora di cena. Fuori faceva un gran silenzio, attraversato di quando in quando dal passaggio di un treno giù a valle, oppure dal grido di una civetta, e il buio d’intorno era perfetto. Mio padre era andato a letto da appena cinque minuti – il vino gli aveva messo sonno –, mentre io me ne stavo ancora in cucina, seduto al tavolo a succhiare gli ultimi spaghetti su da un piatto zuppo di sugo al pomodoro, quando all’improvviso udii il rombo del nostro grosso cancello di ferro – in pratica un’unica piastra rettangolare di circa cinque metri-quadrati – che sbatteva con violenza contro il paletto d’arresto, un frastuono che viene fuori ogni volta che il cancello, aperto e lasciato a sé, continua la sua corsa sotto la spinta della gravità.

Drizzai le orecchie come una bestia, un brivido d’adrenalina inchiodò i sensi in direzione del boato. Un istante dopo, nello svanire del riverbero metallico iniziai a distinguere l’approssimarsi di un passo incerto e quasi strascicato, uno scricchiolare di pantofole che calpestavano il ghiaino del vialetto. Non avevo dubbi: questa cosa era già successa l’anno prima. Il mio vicino di casa – un omone alto due metri, alcolizzato e costretto in carrozzina da svariati ictus – era caduto a terra. Sua madre – una signora di quasi novant’anni affetta da demenza senile – stava venendo da noi a chiedere aiuto.

Si capisce: non ce l’avrei mai fatta da solo ad affrontare quella situazione. E non soltanto per una questione di forza fisica (rimettere quel poveruomo del mio vicino sulla carrozzina, non era certo semplice). Il fatto è che quelli là mi facevano a dir poco ribrezzo. La loro è la tipica famiglia che vive dimenticata ai margini del mondo. Il padre morto d’infarto in un giorno qualsiasi mentre governava i conigli e le galline, una madre e un figlio ammalati il cui unico legame consiste in una piccola pensione con cui tirare a campare nella quotidianità disastrosa degli emarginati. Le poche volte che sono entrato in casa loro ho dovuto trattenere il respiro, tanta è la puzza di cibo andato a male e muffa che appesta ogni stanza.

Avevo il cuore in gola. Corsi le scale per andare al primo piano a chiedere manforte a mio padre. Come aprii la porta di camera dei miei, però, subito mi resi conto che il mio vecchio non si sarebbe mai svegliato. Nemmeno ci provai: stava dormendo della grossa. I suoi respiri erano così profondi che era impossibile distinguerli tra loro. L’atmosfera della stanza, poi, aveva un che d’indecifrabile. Per un attimo – roba di pochi secondi – ebbi l’impressione d’essere appena caduto in una sorta di limbo. Il buio in cui avevo appena ficcato il naso era corposo, pregno di fiato, s’appiccicava alla pelle, sapeva forte di vino e di tabacco. Ma ripeto, durò poco. Un battito di ciglia e tornai a udire i passi là fuori che si facevano sempre più vicini.

La paura cresceva. Ero alle strette. Inutile pensarci su. D’istinto decisi che avrei spento tutte le luci, in maniera da far sembrare che in casa mia non vi fosse anima viva. Mi fiondai giù per le scale, ma come feci per premere l’interruttore della cucina mi accorsi che durante il giorno mio padre aveva fatto dei lavori. Il cemento era ancora fresco. Al posto dell’interruttore aveva montato un quadro elettrico pieno zeppo di pulsanti, disposti ognuno a un’altezza diversa. Saranno state in tutto una cinquantina di levette di plastica, nere su fondo grigio, alcune tirate verso l’alto, altre verso il basso, messe lì senza nessuna logica e senza nemmeno un adesivo con su scritta una qualche indicazione.

Sentivo lo scorrere del tempo divorarmi da dentro. Ormai lo scricchiolio dei passi si era fatto assordante. Pochi metri e la vecchia avrebbe svoltato l’angolo in direzione della porta d’ingresso – il campanello. C’era da tentare la fortuna. Tirai un interruttore a caso, ma niente, dalla finestra vidi scatenarsi un enorme fascio di luce bianchissima che dal tetto puntava dritto nel bosco. Spensi subito, provai con un altro interruttore ancora e – dannazione! – nel soggiorno esplose un rosa brillante. Spensi di nuovo, un altro clic e via di seguito una fila di lampioni prese a illuminare il giardino in un tripudio di colori che saltavano a intermittenza l’uno nell’altro, come impazziti.

Che angoscia! Più provavo a nascondermi e più che la mia casa si trasformava in uno spettacolo pirotecnico. Mi sentivo sulla soglia di una catastrofe. L’ansia montava, montava. Adesso i passi sulla ghiaia sembravano i tonfi di un gigante. Poi all’improvviso, lo schiocco della serratura. La vecchia stava entrando in casa da sola (in campagna è abitudine lasciare la chiave infilata nella porta). Un altro istante e mi sarei ritrovato a tu per tu col suo volto di madre sofferente, accartocciato dalle rughe, gli occhi a palla della demenza, i capellacci bianchi e arruffati, le richieste d’aiuto acciottolate nella saliva e addio, la donna mi avrebbe preso per mano e portato dinnanzi al corpo del figlio schiantato a terra, intrappolato in uno spasmo, le sue bestemmie infuriate contro la Vergine.

Il cigolio dei cardini era estenuante. Sembrava scavarmi dentro la gola. Intanto continuavo a frugare in preda al panico tra le levette del quadro elettrico, nella speranza di un’estrema salvezza. Infine la porta si spalancò e, da non credere: nessuna donna, nessuna faccia, nessun tripudio di luci. Solo e soltanto il buio, un filo di vento gelido, il ronzio del lampadario della cucina che mi giganteggiava nei timpani, la mia mano destra che andava a tastoni sul muro, in cerca dell’interruttore. Laggiù, di là dalla valle, il grido remoto di una civetta.

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francesca matteoni
francesca matteonihttp://orso-polare.blogspot.com
Curo laboratori di poesia e fiabe per varie fasce d’età, insegno storia delle religioni e della magia presso alcune università americane di Firenze, conduco laboratori intuitivi sui tarocchi. Ho pubblicato questi libri di poesia: Artico (Crocetti 2005), Higgiugiuk la lappone nel X Quaderno Italiano di Poesia (Marcos y Marcos 2010), Tam Lin e altre poesie (Transeuropa 2010), Appunti dal parco (Vydia, 2012); Nel sonno. Una caduta, un processo, un viaggio per mare (Zona, 2014); Acquabuia (Aragno 2014). Dal sito Fiabe sono nati questi due progetti da me curati: Di là dal bosco (Le voci della luna, 2012) e ‘Sorgenti che sanno’. Acque, specchi, incantesimi (La Biblioteca dei Libri Perduti, 2016), libri ispirati al fiabesco con contributi di vari autori. Sono presente nell’antologia di poesia-terapia: Scacciapensieri (Millegru, 2015) e in Ninniamo ((Millegru 2017). Ho all’attivo pubblicazioni accademiche tra cui il libro Il famiglio della strega. Sangue e stregoneria nell’Inghilterra moderna (Aras 2014). Tutti gli altri (Tunué 2014) è il mio primo romanzo. Insieme ad Azzurra D’Agostino ho curato l’antologia Un ponte gettato sul mare. Un’esperienza di poesia nei centri psichiatrici, nata da un lavoro svolto nell’oristanese fra il dicembre 2015 e il settembre 2016. Abito in un borgo delle colline pistoiesi.