Il trauma e le radici ( veniva da Mariupol)

di Valentina Parisi

Natasha Wodin Veniva da Mariupol, L’orma, 2018, pp 384, euro 21, traduzione di Marco Federici Solari e Anna Ruchat

Tra le pagine più rimosse della storia europea che, malgrado l’accelerazione temporale veicolata dai media, non possiamo non considerare recente, almeno in virtù dei legami di consanguineità che ci legano ai protagonisti più o meno involontari di tali vicende, v’è indubbiamente quella degli Zwangarbeiter, ossia dei “lavoratori forzati” deportati durante la guerra in Germania e nei territori annessi dal Terzo Reich e costretti a contribuire allo sforzo bellico come manodopera ridotta in stato di schiavitù. Un fenomeno che riguardò anche il nostro paese, dal momento che circa seicentomila uomini dell’esercito italiano catturati dai tedeschi dopo l’8 settembre 1943 si rifiutarono di continuare a combattere al fianco di Hitler e Mussolini e scelsero di restare nei campi di detenzione nazisti, benché lo status di internati militari (e non di prigionieri) elaborato appositamente dal Führer per designarli li ponesse al di fuori delle garanzie stabilite dalla Convenzione di Ginevra del 1929, consegnandoli a condizioni di vita particolarmente dure.

Se chi tra loro sopravvisse poté comunque far ritorno a casa, in un’Europa devastata dai bombardamenti, seguendo itinerari tortuosi come quelle descritti da Primo Levi nella Tregua, così non fu per i molti Ostarbeiter provenienti dai territori orientali annessi al Reich che non rientrarono mai più in Unione Sovietica – sarebbero stati immediatamente accusati di collaborazionismo. Come tutti gli ex deportati che rimasero segnati per sempre dall’esperienza della riduzione in schiavitù e dell’annientamento della propria dignità individuale, anche loro avrebbero certamente sottoscritto l’affermazione di Mordo Nahum, il “Greco” della Tregua: “Guerra è sempre”. Sempre, e assume di volta in volta le forme della disperazione, dell’obnubilamento psichico, dello spossessamento non solo nei confronti di se stessi, ma anche della propria infelice progenie, messa al mondo in un estremo slancio di attaccamento alla vita.

Ed è proprio la prospettiva di questi ultimi – figli o nipoti – a risultare oggi centrale, stante la scomparsa dei testimoni oculari, in quei testi di carattere memorialistico che continuano a ruotare, ossessivamente, intorno al secondo conflitto mondiale e alle sue conseguenze. Se fotografie, lettere e altri documenti attinti dagli archivi familiari spesso si rivelano reliquie-relitti, frammenti muti interrogati invano, un aiuto inatteso nella riscoperta delle proprie radici arriva talora da quel calderone eterogeneo che è Internet. O, almeno, questo è lo spunto di partenza di Veniva da Mariupol  di Natascha Wodin, autrice tedesca di origini ucraine nata nel 1945 a Monaco di Baviera, di cui Einaudi aveva già pubblicato nel 1995 il romanzo Avrò vissuto un giorno nella resa di Paola Albarella.

Il viaggio nel tempo che ha condotto la Wodin a ricostruire quasi per intero la storia della propria famiglia inizia quasi “per gioco”, quando in una notte d’estate l’io narrante (una traduttrice e scrittrice già in là con gli anni) digita il nome completo di sua madre sulla barra di ricerca dell’equivalente russo di Google. Notevole è il suo stupore nel vedere che il motore di ricerca le restituisce subito i dati anagrafici di lei, rinviandola a un sito dal nome curioso, Azov’s Greeks. Dunque Evgenija apparteneva a quella sparuta minoranza greca che risiede tuttora nella cittadina ucraina di Mariupol’, sulle rive del mar d’Azov? Ma la nonna Matilda non era piuttosto italiana, come le sembrava di ricordare? Assediata da questo e mille altri dubbi, l’io narrante intraprende una lunga ricerca a ritroso, a dispetto delle strategie di rimozione che avevano caratterizzato fino a quel momento la sua esistenza.

Una scelta non sorprendente, stante l’eredità tragica che le era stata involontariamente imposta. L’autrice aveva infatti solo dieci anni, allorché sua madre era uscita di casa in un giorno d’ottobre del 1956 per togliersi la vita non lontano dall’insediamento di baracche in cui abitava con altre displaced persons – così venivano eufemisticamente chiamati nella Germania del dopoguerra gli Ostarbeiter come Evgenija, che a ventitré anni aveva lasciato Mariupol’ insieme al marito per lavorare in una fabbrica del gruppo Flick, vicino a Lipsia. Comprensibile dunque che la Wodin, fin dall’infanzia trascorsa nel ghetto degli ex deportati, avesse tentato di costruirsi un’identità alternativa a quella di partenza, dimenticando anche quel poco che ricordava della madre. Veniva da Mariupol riflette il processo inverso e cioè un’irresistibile, tardiva urgenza che la spingerà quasi parossisticamente a indagare quanto fin lì aveva solo desiderato ignorare.

Un viaggio a ritroso che la costringerà anzitutto a rivedere l’immagine stereotipata che si era fatta del luogo di nascita di Evgenija – una specie di Siberia eternamente ricoperta di neve, ben diversa dall’assolata Mariupol’ della realtà. La protagonista rimarrà piacevolmente sorpresa nello scoprire che da bambina non si era poi tanto allontanata dal vero quando, per impressionare i coetanei tedeschi che la maltrattavano, sosteneva di discendere da nobili russi. I suoi avi materni d’origine italiana erano infatti tra gli abitanti più facoltosi di Mariupol’, avendo messo insieme una piccola fortuna con il commercio di legname.

Tuttavia dalla ricerca emergono particolari sempre più drammatici, come ad esempio l’arresto della zia Lidia negli anni del terrore staliniano e il doppio suicidio della prozia Ol’ga e della cugina Marusja (che negli anni successivi alla Rivoluzione d’Ottobre non aveva potuto iscriversi all’università a causa della sua origine privilegiata). Il senso di vuoto che aveva perseguitato Evgenija non era dunque dovuto esclusivamente alla deportazione, ma era iniziato già in patria, a causa delle tante sciagure familiari e dell’atteggiamento anaffettivo della nonna Matilda. Eppure per l’autrice lo shock maggiore sarà scoprire come Kirill, il nipote di Lidia ritrovato sempre grazie a internet, abbia ucciso sua madre Svetlana senza apparente motivo: “Sapevo che c’erano degli assassini in giro per il mondo, sapevo anche che tra questi alcuni avevano ucciso la propria madre, ma era possibile che proprio io fossi imparentata con uno di loro? Io che per tutta la vita non ero mai stata parente di nessuno?”

Storia di una riappropriazione “in rete” delle proprie radici, Veniva da Mariupol è dominato da un’intonazione tutta particolare. La sua cifra principale è un’emotività trattenuta, smorzata, quasi in sordina, si potrebbe dire con una metafora musicale che pare tanto più giustificata, visto l’amore della Wodin per il canto. Perfino i dettagli più terribili sono riportati con estrema asciuttezza – si pensi a quando l’autrice, nel riferire che Lidia era stata violentata durante l’interrogatorio nella sede dell’Nkvd a Mariupol’, aggiunge laconicamente che questa era la procedura standard adottata nei confronti delle arrestate. Tale sobrietà si accompagna a un’inevitabile malinconia di fondo: man mano che avanza nella sua indagine, la Wodin si rende conto che Lidia è morta solo nel 2001 e quindi avrebbe potuto benissimo conoscerla, così come avrebbe potuto incontrare il fratello di lei, lo zio Sergej, celebre cantante lirico che abitava a Kiev non lontano dal Majdan: “…Continuavo a cliccare sul file con la voce di Sergej e non sapevo cosa fosse più forte in me, se la felicità per ciò che avevo trovato o il dolore per quel che avevo perso”.

Se le pagine dedicate a Lidia sono basate sulle memorie che ella stessa aveva messo su carta a ottant’anni (e risentono di un effetto di relata refero un po’ goffo), molto più coinvolgente è la terza parte, in cui l’autrice è costretta a dare la stura alle proprie supposizioni per ricostruire l’approdo dei genitori a Lipsia. Significativa è la penuria di documenti su questo capitolo della loro vita, a ulteriore riprova del fatto che il tema degli Ostarbeiter è stato finora cancellato dalla coscienza europea, anche, come ammette la Wodin, a causa della stessa generazione dei figli, impegnati a prendere le distanze dal surplus di tragicità che i genitori avevano consegnato loro. Proprio per questo s’immagina quale sforzo sia costato all’autrice settantenne figurarsi Evgenija ridotta nella fabbrica di Flick “a quello stadio di denutrizione al di là della dignità umana, per cui si pensa solo ed esclusivamente al cibo”. Oppure affrontare a viso scoperto il trauma del suicidio di lei, cercando di comprendere quale abisso di dolore l’avesse condotta a quel gesto.  O, più semplicemente, tornare alle discriminazioni patite in prima persona durante l’infanzia, quando ai Russenkinder figli degli odiati “vincitori” sovietici – in realtà ex schiavi della Germania nazista – si faceva pagare quotidianamente il fio di una sconfitta troppo cocente.

 

 

 

5 COMMENTS

  1. Condivido tutto quello che hai scritto, Valentina, su questo splendido libro. A me, però, è piaciuta anche la parte su Lidia. Ho percepito una forte ammirazione – da parte di Wodin – per questa donna, per la sua capacità di resistere e vivere, che invece alla madre mancò.

    • Caro Davide, certo. La mia, come avrai capito, era una riserva sull’effetto finale di quest forma, ma immagino che la scelta stilistica di Wodin sia influenzata per l’appunto dall’ammirazione di cui parli.

  2. Valentina due cose: 600.000 italiani prigionieri di guerra nei vari lagher nazisti? Non sono un pó troppi ma vado cosí a naso….Ë certo che incommensurabile é il numero delle vittime…..Mai e poi mai nella storia…..

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