Dopo il crollo

di Bruno Morchio

«Della scomparsa del passato ci si consola facilmente,
è dalla sparizione del futuro che non ci si riprende.»
Amin Maalouf

«Che vuoi capire?»
«Che cosa è diventata questa valle.»
«Non ti seguo.»
«Crolla un ponte, muoiono quarantatré persone, sotto ci sono case e strade dove la gente vive, tira la carretta, sogna, s’innamora e magari mette al mondo dei figli.»
«Cosa ha di speciale questa valle, a parte il fatto che si è vista crollare addosso il ponte dell’autostrada?»
«Per esempio il fatto che uno c’è nato, o ci ha trascorso la vita.»
«Questo vale per qualunque altro posto. E poi, tu mica sei nato qui.»
«No, ma per oltre un secolo questa valle è stata un distretto industriale di prim’ordine; le fabbriche si contavano a decine e decine e i suoi operai hanno costituito una spina dorsale dell’identità della città.»
«Il mondo cambia. Oggi la grande industria è quasi del tutto scomparsa, sopravvive una rete di piccole e medie aziende, ma i numeri di un tempo non esistono più. Anche la popolazione si è ridotta, e soprattutto è paurosamente invecchiata.»
«Proprio questo è il punto: qui non c’è stata alcuna gentrificazione, non sono arrivati gli architetti a rimodellare l’archeologia industriale per trasformarla in qualcos’altro: musei, biblioteche, teatri, cinema o spazi pubblici dove incontrarsi, conoscersi e riconoscersi. Solo qualche centro commerciale e alcuni grandi baracconi del consumo di massa. Il paesaggio è segnato da gusci fossili del passato privi di vita, carcasse abbandonate che continuano a occupare lo spazio solo per ricordarci quello che siamo stati, senza dirci niente di quello che potremmo diventare.»
«Non è successo lo stesso in tutte le periferie post-industriali dell’occidente?»
«È successo in quelle di cui nessuno s’è preso cura.»
«Prova a vedere il bicchiere mezzo pieno: salendo lungo la riva sinistra del Polcevera, da Certosa a Pontedecimo, si incontrano file di palazzi di pregio; abbiamo dimore gentilizie di grande valore, dal castello Folzer a villa Serra. Ci sei mai stato?»
«Certo che ci sono stato.»
«E dimmi: non sono una bellezza?»
«Certo che lo sono.»
«E che mi dici delle nostro colline e dei piccoli borghi come Murta e Begato?»
«Dei piccoli gioielli.»
«E anche l’edilizia popolare, non dappertutto è stata atroce come qui al Diamante.»
«Hai ragione, ma non ci si tira fuori da un disastro guardando indietro, mentre qui siamo immersi in un brodo di elegia e tutti hanno qualcosa da rimpiangere. Si accenna al ponte Morandi e comincia a esalare profumo di passato, neanche avessero reciso una rosa; ma ci si guarda bene dal menzionare le spine.»
«Quali spine?»
«Per esempio gli stabilimenti che hanno devastato l’ambiente e lasciato una lunga scia di morti.»
«È vero, negli anni è stata una strage.»
«Ed è anche vero che gli operai hanno fatto pochi figli, e questi ne hanno fatti ancora meno, e se non arrivavano gli stranieri si stava preparando uno sterminato ospizio, a cui sarebbe seguito un desolante, cimiteriale silenzio; tutti rimpiangono i negozi autoctoni, quelli d’una volta, che vendevano tessuti, vestiti e cibi di qualità, soppiantati dai venditori di kebab e paccottiglia made in China, ma senza questi ultimi, cosa sarebbero le strade se non dei deserti percorsi solo da automobili che fanno la spola tra lavoro, centro commerciale e abitazione?»
Giulia mi segue con attenzione, tra divertita e perplessa. «Dove vuoi arrivare? A sostenere che questo è il migliore dei mondi possibili?»
«Certo che no. Ma neanche quello lo era, basta guardare questo quartiere.»
«Eppure io sono affezionata a questo quartiere. Lo amo come si ama un figlio disabile, e faccio il possibile per renderlo migliore, almeno finché rimarrà in vita. Dopotutto abbiamo la farmacia, la casetta ambientale, il bosco e i forti di Begato e del Fratello Minore. E quando lo abbatteranno mi preoccuperò del destino di quelli che ci abitano. Ma cosa c’entra tutto questo con l’uomo che stai cercando?»
«Anche lui ama questa vallata. Ci è nato e cresciuto e ha voluto tornarci a vivere, anche quando aveva i mezzi per andare altrove. Proprio come te.»
«Tanto vale che parli con me, allora.»
«Tu spendi le tue energie per preservare un significato alla tua vita e a quella degli altri.»
«E lui invece?»
«È un distruttore, un saccheggiatore di destini. Eppure tutti ne sentono la mancanza. Deve esserci un nesso tra questa negatività e il suo carisma, qualcosa che lo rende attraente agli occhi delle sue vittime.»
«Non crederai alla favola dell’eterogenesi dei fini?»
«La teoria secondo cui la strada dell’inferno è lastricata di buone intenzioni e dal letame nascono i fior? Ci credo eccome.»
«E a cosa sei interessato? Ai fiori nati dal letame o all’inferno generato dalle buone intenzioni?»
«Non lo so, però sono convinto che il mio uomo custodisce molte verità, incluso il segreto della propria autodistruzione. È imbevuto dei falsi miti del liberismo degli anni Ottanta, quelli instillati nella gente dalla televisione commerciale; proviene da una famiglia operaia e se ne vergogna, ma ha scelto di continuare a vivere qui, ha conservato gli stessi amici polceveraschi dell’adolescenza e perfino le amanti le ha selezionate tra le giovani di Teglia, Bolzaneto e Pontedecimo. Col suo lavoro ha provocato lutti e dolore, arricchendosi senza scrupoli e forse dilapidando la propria ricchezza. Si può impiegare il proprio talento per distruggere quello che si ama?»

 

NdR: questo brano è tratto dal capitolo 15 (“Dopo il crollo”) di “Le sigarette del manager. Bacci Pagano indaga in val Polcevera” (Garzanti, 2019) di Bruno Morchio

 

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