I sonni inquieti dell’Occidente
di Lea Melandri
Le immagini e i racconti che ci arrivano attraverso i giornali e la televisione dai luoghi devastati dal maremoto del 26 dicembre 2004 potrebbero essere definiti da chiunque “sconvolgenti”. Ma è questo il nostro stato d’animo di fronte “al dolore degli altri”, o non piuttosto quello, già descritto da Voltaire a proposito del terremoto di Lisbona, nel 1755, di “spettatori tranquilli”, “spiriti intrepidi” che “dalla bonaccia” vanno investigando le cause delle tempeste in cui hanno fatto naufragio i loro fratelli? Chiedersi, come ha fatto Piero Sansonetti su Liberazione (28 dicembre 2004) “come reagiamo a questa tragedia”, se è vero che ci lascia “tristi e del tutto indifferenti”, dovrebbe essere il presupposto, silenzioso o esplicito, di tutti i ragionamenti che ne indagano le cause, naturali e umane.
Per quanto sia imbarazzante ammetterlo, la più banale sequenza cinematografica, quando va a toccare ricordi remoti, fantasie infantili dimenticate, può indurci alle lacrime più facilmente di quanto non riesca a fare una realtà straziante, ripresa da una fotografia o da un documentario. L’emotività risponde a spinte sotterranee che non sempre collimano, come vorremmo,con il paesaggio che abbiamo davanti agli occhi e alla mente.
Si potrebbe discutere a lungo sull’affermazione di Salgado (Repubblica 2.1.2005) che le fotografie di una tragedia come quella del Sud Est asiatico hanno il potere di portare alla luce, in quanto “linguaggio comune” che “passa per i sensi”, una verità che già sappiamo: l’appartenenza di tutti gli uomini alla stessa “tribù”. Tra il riconoscere in un gesto, in un volto, in un paese distrutto il codice comprensibile a tutti del dolore umano, e il dire “potremmo essere noi”, passano lo stesso divario e la stessa lontananza che separano privilegio e miseria, turisti occidentali in cerca di svago e “nativi” messi a servizio. Le foto riportate dai giornali, le riprese televisive, gli stralci da video amatoriali provenienti dai luoghi della catastrofe, scelti con cura, non senza qualche concessione al senso estetico, dicono di una devastazione inafferrabile, di una sofferenza muta, e dello sforzo impotente con cui la nostra ragione tenta, da luoghi sicuri, di fissarne almeno l’ombra.
La presenza di occidentali tra le vittime, il fatto che si trattasse di luoghi noti come crocevia di vacanze, interessi economici, disponibilità di “merce” umana a basso costo, sono sicuramente il motivo primo di un’attenzione così duratura e di una gara mondiale di solidarietà che non si era mai vista. Le fosse comuni, dove è stata data anonima sepoltura a corpi spogliati della loro storia, dei loro diversi destini e appartenenze, hanno assunto di per se stesse, per i significati profondi e simbolici che possiamo attribuirvi, il peso che vorrebbero avere le immagini e le cronache giornalistiche.
Gli abitanti delle zone devastate, privati di tutto tranne che della vita, ripresi in lunghe processioni per il cibo o per l’acqua, o vaganti come spettri tra le macerie e i cadaveri, messi a confronto con i sopravvissuti dell’Occidente che raccontano compostamente nei salotti televisivi lo scampato pericolo, ci riportano dentro un quadro che già conosciamo e su cui la calamità naturale ha operato soltanto come aggravamento di ferite già aperte da uomini su altri uomini. Come ha scritto con una sintesi molto efficace Sabina Morandi (Liberazione 28.12.2004): “la morte per acqua si infila nei dislivelli sociali e nei conflitti irrisolti moltiplicando la forza del suo potere distruttivo, lambisce le ville e spazza via le baraccopoli, precipita nel caos equilibri naturali resi instabili da anni di sfruttamento”.
Più che l’identificazione con le figure di una povertà che va ben oltre il passaggio violento di uno tsunami, più che l’effetto emotivo di paradisi marini trasformati in scenari da incubo, si può pensare che sia allora un groviglio oscuro di sentimenti a tenere alto l’interesse e la solidarietà per il disastro del Sud Est asiatico. Pur riconosciuto come evento catastrofico di estrema gravità, non si è potuto isolarlo né come effetto esclusivo della potenza della natura né come destino di una zona ininfluente del pianeta. Da subito si è parlato di un’ “emergenza” imparentata con altre non meno gravi calamità -i milioni di morti per fame, malattie, guerre-, dove la responsabilità umana è predominante, anche se molti continuano ancora a considerarle “naturali”. Sono state messe a confronto le risorse economiche, tecnologiche, umane con cui l’Occidente, senza danno per i suoi abitanti, potrebbe risarcire sia pure tardivamente gli effetti di una secolare colonizzazione del resto del mondo. Il divario tra ricchi e poveri, proiettato sull’orizzonte dei grandi poteri mondiali e su quello più domestico dello scambio ineguale tra chi lascia le sue spiagge ai turisti per venire a lavorare da emigrato nelle loro case, è diventato il punto focale di una riflessione che ormai attraversa posizioni politiche, differenze culturali, coscienze ideologicamente restie a lasciarsi cadaveri di famigliari morti, sono immagini ricorrenti nei servizi giornalistici e, proprio per questo, come ha scritto Susan Sontag, capaci di produrre alla lunga l’effetto contrario: inaridire la compassione.
Più imprevedibile e più difficile da dimenticare è invece lo scenario che ha tenuto inconsapevolmente agitati i sonni della parte privilegiata del mondo, e che ora emerge dal fango, che ha ricoperto le spiagge tailandesi e indonesiane, come l’altra faccia delle nostre “libertà”: gli alberghi a cinque stelle dei turisti e, a fianco, le capanne dei pescatori locali, travolti allo stesso modo da una forza naturale che non fa distinzioni, ma che lascia allo scoperto, una volta acquietata, la nudità imbarazzante dei rapporti di dominio, sfruttamento, cattiva coscienza, che li ha tenuti insieme. Le “isole dei famosi” , reali o fittizie, non potranno più essere la meta o lo spettacolo di consumatori “innocenti”, né sarà più lo stesso, ignaro e sognante lo sguardo che poseremo sul volto della ragazza indiana che ci sorride dalle pareti di un’agenzia di viaggio.
L’uscita da un’indifferenza complice dei mali che si vorrebbero attribuire alle leggi immodificabili della natura o della volontà di un dio può cominciare anche così, con la scoperta di un lato inquietante in tutto ciò che ci è famigliare, nelle abitudini, nelle relazioni, nelle scelte della vita quotidiana. Qualcuno ha fatto notare che “catastrofe” vuol dire, etimologicamente, anche “trasformazione”. Si può sperare che un rivolgimento delle coscienze riesca a dare convincere ma non così barricate da sfuggire a un diffuso, inconfessabile “senso di colpa”.
La massa anonima dei senza casa in cerca di cibo, dei bambini abbandonati, delle donne ricurve sui se non un “senso” al disastro, quanto meno un buon motivo per continuare ad agire in vista di un mondo migliore.
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da Liberazione, 9.1.2005