Oasi (nel deserto)?
di Giovanni Maderna
Aspettavo di vedere Oasis, di Chang-dong Lee, da due settimane. Il film era recensito, inserito da qualcuno (nella fattispecie Mereghetti nella sua rubrica sul Corriere) tra i film migliori in circolazione. Però nelle sale nessuna traccia. In genere questo significa che la pellicola è uscita, almeno in un primo tempo, solo a Roma.
Ora, da un paio di giorni, è visibile anche a Milano.
Il film è coreano. Si narra la storia d’amore tra una sorta di idiota dostoevskiano, appena uscito di prigione, e una ragazza spastica, incapace di camminare e anche di esprimersi verbalmente se non a prezzo di sforzi immensi…
Così domenica pomeriggio, sbarcato dalla metropolitana gialla, cammino attraverso la bolgia di piazza del Duomo e percorro corso Vittorio Emanuele. Ovviamente il cinema Pasquirolo non ricordo quale sia, ed è inutile chiedere agli zombi abbacinati dal sole che fanno le vasche su e giù per il corso: chi fa shopping in questo inferno di domenica sicuramente non è di Milano, e i camerieri dei bar sono troppo occupati…
Ma alla fine lo trovo. Per sicurezza chiedo due volte (alla cassa e alla maschera) che il film proiettato sia quello, e mi siedo nella platea quasi deserta.
Si comincia bene. Dalla prima inquadratura il protagonista è solo per le strade di una città (Seul?) dove tutti sono avvolti in caldi cappotti. Lui è in camicia a maniche corte. Infatti trema, anche se non si sa se sia a causa del freddo o per l’evidente squilibrio mentale che manifesta.
Forse sono io ipersensibile (raggiungendo il cinema, soffocato dalla folla, nell’improvvisa primavera di quella giornata di aprile, con la sciarpa e il cappotto, mi sentivo la febbre), ma subito penso alla gran possibilità (quasi sempre trascurata) che ha il cinema di coinvolgerci fisicamente, sensorialmente, molto prima che attraverso i codici (e i trucchi) narrativi. Mi viene in mente quel capolavoro che è “Il fiume” di Tsai Ming Liang, nel quale il protagonista, dopo un bagno in un fiume inquinato, ha per tutto il tempo un lancinante torcicollo… e anche lo spettatore esce dalla sala con l’impressione di avere visto il film tutto storto, di sbieco… altroché effetti di realtà virtuale!
Il giovane, appena uscito di prigione (ma questo lo scopriamo dopo), va subito a cacciarsi in un guaio: mangia in un ristorante ma non ha i soldi per pagare. Per fortuna salta fuori un fratello, che se lo porta a casa, dove in trenta metri quadri vive con la madre, un altro fratello e la cognata. Ma il nostro eroe ha già una nuova brillante idea. Appena assunto come fattorino di un alimentari porta un cesto di frutta ai parenti dell’uomo che ha investito con l’auto, due anni prima, finendo in carcere. Vorrebbe farsi perdonare, invece viene cacciato in malo modo, ma in questo modo conosce la figlia della sua vittima: una ragazza spastica, dal volto costantemente deformato in orrende smorfie, le mani e i piedi contratti, arroncigliati.
E chissà perché non riesce a togliersela dalla testa.
Così comincia la storia d’amore.
Purtroppo nella seconda parte la tensione si allenta un po’. Lo sviluppo della vicenda è piuttosto prevedibile, e l’insistenza sulla “poetica follia” dei due protagonisti, alla lunga, da un po’ ai nervi. Soprattutto perché fa passare del tutto il secondo piano quell’urgenza fatta di solitudine e indigenza che il giovane ex carcerato comunicava inizialmente. Ora egli si barcamena con lavoretti che sembrano dargli da campare, e in più vive una meravigliosa storia d’amore. Se mai lo si invidia, ma comunque si perde interesse nei suoi confronti. I personaggi di contorno non hanno la forza di imporsi. Tutto si piega, in maniera un po’ programmatica, alla vicenda centrale, nel racconto della quale, qua e là, il regista si concede un po’ di retorica.
Nelle prime sequenze invece mi avevano colpito (e anzi è stata la scena che più mi ha commosso nel film) i fratelli e la cognata che accolgono il “pazzo”, la commozione della madre che riceve il suo povero regalo (un maglione comprato ad una bancarella)… La cognata che subito si inchina a pulire il pavimento che lui ha sporcato, eppure è lieta del suo arrivo. E’ il ritorno del figliol prodigo. Ma forse mi ero sbagliato, e poche scene dopo la cognata gli dice chiaro e tondo, a nome di tutti, che per loro il suo arrivo è un peso. E da questo momento il comportamento dei famigliari diventerà sempre più rigido, fin troppo funzionale al ruolo di “incompreso” del ragazzo. Peccato perché lì si apriva per me un capitolo interessante. Mi sono infatti sempre chiesto. Come si comporterà il figliol prodigo una volta tornato?
Cerco di ricordare alcune cose che avevo letto sul film. Era evidente l’impressione dominante (si trattava per lo più di grandi elogi): nessuno di noi “normali” riesce ad amarsi con l’intensità di quei due giovani. Forse anche: nessuno di noi è “abbastanza” disperato. Come vorremmo essere anche noi così pazzi, spudorati e spensierati…
E in effetti bisogna dire che la totale irresponsabilità, anarchia e impulsività dei due amanti è seducente. E’ un po’ facile, ma funziona. Certo è vero che si tratta di uno dei film di quell’area geografica più semplici (meno complessi) che abbia visto. Tutto è basato sulla descrizione (che si esaurisce nei primi dieci o venti efficacissimi minuti) della purezza e quindi libertà assoluta del protagonista. Il suo essere al di là, al di sopra (al di sotto) di ogni legge morale.
Qualsiasi azione compia l’eroe del film, la sola cosa che viene messa in risalto è la sua innocenza. E anzi nella prima parte si tratta di azioni che costituiscono quasi sempre infrazioni al codice morale (o almeno al codice penale). Ma se mangia a sbafo, è perché ha fame, se viola un domicilio, è per desiderio di farsi perdonare una colpa, se fa un tentativo di violenza alla ragazza… lo giustificheremo a posteriori quando dimostrerà di essere innamorato di lei.
Certo (e la cosa diventerà più chiara quando, in maniera inaspettata trattandosi di un film coreano, verrà introdotta e sviluppata la figura edificante di un prete cattolico), l’autore è convinto che il suo protagonista non solo incarni la purezza, ma addirittura sia un “cristo” che si fa carico delle sofferenze e ingiustizie del mondo.
A poco a poco, a coronamento di questo processo di “purificazione” del giovane galeotto, che diventa a questo punto retrospettivamente il capro espiatorio della sua famiglia e della comunità tutta, scopriamo che il famoso incidente automobilistico per il quale è
stato in carcere fu in realtà causato dal fratello. In carcere ci finì lui, il disadattato, per non togliere ai parenti il sostegno economico portato dal fratello che invece ha un lavoro.
Ci rendiamo quindi conto che la famiglia approfitta di lui in ogni modo, e lo ripaga con un assoluto disprezzo. Ma lui non se la prende. Anzi, non se ne rende neanche conto, e sembra sempre contento di vedere i fratelli o la madre, porta loro immutato affetto…
Ecco, a questo punto della visione me lo dico chiaramente. Il film è ben realizzato. Ben recitato (a me da fastidio l’esibizione continua dell’attrice che fa, benissimo, la spastica, ma ormai so che questo discorso sugli attori è una mia idiosincrasia incondivisibile). Mi piace anche come sono utilizzati, in un paio di occasioni, gli effetti speciali digitali, per ricreare una colomba, delle farfalle… Eppure c’è qualcosa che non mi torna.
Alla lunga l’inafferrabilità morale del protagonista mi pare diventare inconsistenza e mi fa disaffezionare. Rimango indifferente alla sua sorte. Come potrei esserlo a quella di un oggetto, o un vegetale (anche se, a dir la verità, nei confronti dei vegetali il mio grado di sensibilità rimane molto elevato, e addirittura, per quanto possa sembrare ridicolo, nella sequenza il cui il protagonista taglia i rami di un albero sotto la finestra dell’amata, mi è capitato di temere più per l’irreparabilità della potatura che per il rischio del giovane di venire arrestato).
Tornato a casa mi ricordo una frase della Simone Weil più mistica. La vado a cercare. “Quando, nell’uomo, la natura, separata da ogni impulso carnale e priva di ogni luce soprannaturale esegue azioni conformi a quel che l’illuminazione soprannaturale imporrebbe se fosse presente, si ha la pienezza della purità. Questo è il punto centrale della Passione.”
Questo è lo stato che il film dovrebbe illustrare?
Oppure, per dirla con Musil, con un pizzico di ironia in più, “quello stato originario dell’anima che dev’essere stato non del tutto irreprensibile, e pur tuttavia gradito agli dei…”
Eppure c’è qualcosa di fondamentale che manca al ritratto di una “Passione”.
Qualcosa la cui assenza spiega al contempo il perché la semplificazione operata dal regista incontri tanto l’entusiasmo dello spettatore (e del critico) contemporaneo.
Quello che manca è la sofferenza.
La sofferenza morale viene meno per l’assenza di peccato. E il nostro eroe sembra essere davvero immacolato. Ma allora ci dovrebbe essere per lo meno sofferenza fisica. Secondo i teologi la sofferenza fisica era presente persino nella creatura che abitava il paradiso terrestre. La sofferenza è la connotazione primaria della natura umana. In assenza di sofferenza non si può più parlare di umanità. Per questo il culmine dell’umanità di Cristo fu la passione.
Ahimé, nella pur travagliata vicenda di Oasis (eccettuati la fame e il freddo di quei primi dieci minuti) non c’è traccia di sofferenza umana. Tutto si svolge anzi in un mondo protetto dal dolore. In un’ oasi appunto. Un luogo che ci viene spontaneo desiderare. Almeno finché non ci accorgiamo che quel luogo non solo non esiste, ma non ha proprio nulla di umano. Non soddisfa le vere esigenze della natura umana.
Certo, l’effetto che il film produce sulle nostre personali sofferenze è quanto mai gradevole. In un primo tempo mi ha dato sollievo e speranza dopo l’allucinante spettacolo di corso Vittorio Emanuele… Ma non per questo è meno mistificante.
Un’altra annotazione della Weil: “la realtà è una cosa dura e rugosa. Vi si trovano gioie, non cose gradevoli. Quel che è gradevole è fantasticheria”.
Le facce di questi attori coreani, virtuosi fino al parossismo nel mimare il disagio fisico, sono umane o sono solo delle maschere, come quelle inespressive che affollano i negozi del centro. Sono davvero sgradevoli come si sforzano di apparire o sono in realtà gradevoli e addirittura rassicuranti. Proiezioni, nell’apparente diversità, di quella normalità in cui vorremmo tutti nasconderci.
Nella realtà purtroppo succede che dalla sofferenza fisica, magari ingiusta, o provocata dalla malvagità dell’uomo, le creature arrivano spesso alla sofferenza morale, si corrompono, iniziano a odiare. Provano risentimento e desiderio di vendetta.
René Girard parla, per la società contemporanea, di inferno del desiderio mimetico. Cioè la vista dell’altro, magari dell’apparente felicità dell’altro, o della sua momentanea fortuna, genera rancore, desiderio, sofferenza appunto.
E per questa strada si giunge in breve alla disperazione. Alla perdita di speranza, all’odio per sé stessi.
Ecco cosa mi manca nell’universo descritto con apparente crudezza e brutalità dal film coreano. La violenza dei rapporti e delle situazioni è solo di facciata. Allusa attraverso lo squallore di alcune ambientazioni, e l’uso “sporco” della macchina da presa. Ma in realtà l’ “idiota” vive in un mondo idilliaco, fantastico. La sua felicità non è umana. E’ fasulla. Per il semplice fatto che non nasce da alcuna sofferenza. Non ha alcun rapporto col dolore. Il dolore anzi è oggetto di una accurata censura. Perfino nei dettagli: nessun incidente, nessuna fatica fisica, negli spostamenti e nelle corse dei due protagonisti. Lui prende la ragazza sulle spalle e, senza sforzo, vola per le strade di una città amica, accogliente. Persino in autostrada le automobili sono ferme in coda e loro possono scendere a ballare.
Ma allora come giustificare questa favola che pretende di essere racconto crudele? Questo desiderio di diversione, di fuga dalla realtà, senza essere accusati di superficialità?
In fin dei conti l’autore è costretto a scoprire le carte proprio nella scelta dei personaggi, proprio nella decisione di trattare l’handicap e lo squilibrio mentale. E si tratta di carte “truccate”.Vi è il tentativo di far scivolare sul piano di una facilmente condivisibile battaglia sociale per i diritti di una minoranza indifesa e incompresa il nocciolo morale della vicenda. I diversi, questa è la crociata del film, questo si vuole dimostrare, sono come noi. Ma per far questo si mostrano dei “diversi” che sono molto meglio di noi. Anzi, sono come noi vorremmo essere. E allora non è fin troppo facile accettarli?
Si arriva tranquillamente persino a condannare sé stessi, pur di difendere “diversi” così perfetti, così puri, così emozionanti…
Da una parte allora questi “ritardati” nobili e puri. Dall’altra la società corrotta che non li capisce e ostacola il loro amore. Naturalmente il buon critico italiano (e europeo e occidentale e orientale) non potrà che dichiararsi toccato da uno sguardo così penetrante sulla natura umana, dalla descrizione di un sentimento così profondo, primordiale, di una purezza per noi ormai inarrivabile.
Ma la facilità con cui di fronte a questo film ci mettiamo dalla parte dei corrotti incapaci di passioni pure, dimostra quanto poco ci turbi la descrizione che la pellicola da del mondo. Non ci crediamo nemmeno per un minuto. I due protagonisti sono talmente disumani nella loro “bontà” che anche i “cattivi” non hanno niente di inquietante.
In fin dei conti la faccenda non ci riguarda. Ci da però l’opportunità di sentirci più buoni e tolleranti spezzando una lancia contro “quelle leggi da rifare, piene di pregiudizi” che limitano la libertà delle persone con problemi psichici. Ci fa indignare contro il tabù che impedisce a queste persone di innamorarsi e amarsi liberamente. Contro la crudeltà della società che li separa.
Ma quale tabù viene davvero infranto?
La questione avrebbe potuto diventare interessante solo qualora il comportamento dei protagonisti iniziasse a essere veramente ambiguo. Se Mister Hyde si fosse distinto da noi altri Dottor Jekyll per qualcosa di più di un paio d’occhi iniettati di sangue e delle mani particolarmente pelose. Se, ad esempio, si fossero consumati episodi di violenza, magari di autolesionismo, o scatti di aggressività verso l’esterno, così come è molto frequente in casi del genere (così come avviene, per riandare al primo modello, in Dostoevskij, non solo nell’ “Idiota”, ma in tanti altri personaggi capaci davvero di efferati delitti, oggettivamente pericolosi per la società e per sé stessi). La cosa sarebbe stata interessante non solo per maggiore verosimiglianza, ma perché quell’ambiguità ci avrebbe riguardato in quanto uomini. Avremmo iniziato a mettere sul campo, al posto di carte truccate, le nostre debolezze e contraddizioni. Sarebbe stato più difficile decidere da che parte stava la ragione, il bene e il male. Avremmo giocato la partita sul campo del dubbio, dell’incertezza, della sofferenza (morale e fisica) che ci riguarda tutti.
Qui, nel nostro deserto.
Non in una rassicurante e consolatoria (e immaginaria) oasi.