Eutanasia. La singolarità del dolore. 2
di Federico Ferrari
Qui di seguito si troveranno solo alcune situazioni in cui ci si può imbattere occupandosi della questione dell’eutanasia.
Talvolta gli esempi riguardano l’esperienza diretta di chi scrive, mentre altri provengono da fatti letti o da storie estrapolate da altri testi. Non sempre, come si vedrà, la scelta di colui che soffre porterà all’eutanasia e non sempre la scelta di morire potrà esser considerata eutanasia, almeno seguendo il cammino fin qui percorso. In ogni caso, mi è sembrato importante mostrare la complessità dell’argomento e far comprendere che un tale problema non può essere risolto facilmente, poiché le ragioni sono molteplici e, su questo argomento, aver ragione ha poco senso, a meno che si tratti di un dar ragione delle molteplici ragioni, dell’aporeticità della decisione.
Thomas
In una stanza illuminata con fioche luci, una telecamera riprende Thomas, affetto da una dolorosa malattia, il morbo di Gehring, ormai nel suo stadio terminale. Un altro uomo gli è accanto, Jack Kevorkian, famoso per la sua battaglia a favore dell’eutanasia. Thomas domanda che gli sia iniettata una dose mortale di farmaci. Il suo dolore è troppo grande, i suoi muscoli non reagiscono più. Il corpo è in preda agli spasmi. Kevorkian chiede se è sicuro, Thomas annuisce. Un laccio emostatico si stringe intorno al suo braccio. Un’iniezione penetra nella sua carne. Dopo qualche istante Thomas perde i sensi, sta morendo. Il cuore si ferma, è morto.
Thomas, come molti altri, ha posto fine alla sua sofferenza intollerabile; un medico l’ha aiutato a porvi fine. Quel medico ora rischia una condanna a cinque anni di reclusione, ma anche questa è una cosa ormai comune. Quel che ha stupito e fatto gridare allo sandalo mezzo mondo è che questa morte sia passata in televisione. Si è ritenuto indegno che la morte entrasse nelle case di tutti, che la sofferenza di quell’uomo fosse messa sotto gli occhi di tutti. Schiere di giornalisti si sono scagliate contro i “guardoni della morte”, contro coloro che hanno dato un record di ascolto alla trasmissione della Cbs che ha trasmesso un simile documento. Si è cercato il “colpo”, il massimo della pubblicità, il cinico calcolo; è la commercializzazione della morte, la fine del rispetto del dolore, ecc. Sì, è vero, quella trasmissione è probabilmente stato tutto ciò. Ma cosa erano quelle immagini che ci passavano davanti agli occhi? Di cosa ci parlavano? Che senso hanno avuto e tuttora hanno nel ricordo? È questo che purtroppo, credo, tra i tanti cronisti, nessuno si è domandato.
Quelle immagini non erano segno di nient’altro, parlavano solo di e da sé: né pubblicità, né “colpi”, né calcoli, ma solamente una sofferenza insopportabile. Guardarle, come molti credo abbiano fatto, voleva significare essere toccati da quella vita che domandava di morire, da quella sofferenza che ci parlava di sé e della soppressione del proprio sé. Le parole che ne sono seguite, anche le più stupide, sono state, però, certamente salutari, perché hanno aiutato ad aprire la possibilità di un parlare comune. Ma quelle immagini non rinviano a queste parole, come queste parole non rinviano a quelle immagini. Quelle immagini mostravano solamente, allora come adesso, il dolore di Thomas, e in quanto tali andavano e vanno guardate. “Ma, se io parlo, il mio dolore non si lenisce / e se taccio, non se ne va da me” (Giobbe, 16, 6).
Il signor K.
Ci sono storie che, seppur inventate, mostrano con precisione un contesto, una situazione, la difficoltà di una scelta. Ne trascrivo una, opera di Michelantonio Lo Russo. È la storia del signor K.
“Il signor K. è un uomo anziano, distinto, che dalla vita ha avuto il giusto. Immaginiamocelo una mattina di primavera, pantaloni chiari, camicia azzurra, maglione sulle spalle e scarpe da ginnastica, mano nella mano con la signora K., il suo giusto pendant al femminile.
Diciamo che i signori K. vivono in una tranquilla cittadina svizzera, in una casa vicino a un lago, uno dei tanti. Diciamo anche che il signor K., nonostante tutte le apparenze, ha una grave malattia. E diciamo pure, infine, che vuol morire. […] K. ha deciso di morire. Con tatto, convince la compagna d’una vita della giustezza di questa decisione. La signora K. accetta con una lacrima e un cenno affermativo del capo, con gli occhi bassi. […]
K., ormai risoluto, scrive a Exit, dice di voler morire e di essere malato, accludendo relativi certificati. Passano dei giorni, pochi, di vita tranquilla e imbarazzato silenzio. A casa K. la morte è già entrata e non uscirà più.
L’atmosfera surreale di finta normalità è spezzata dallo squillo improvviso del telefono. È il signor M., mandato da Exit ad accompagnare – letteralmente – K. verso la morte. Il giorno dopo K. appare lucido e deciso nella sua scelta. È un suo diritto scegliere la data del suicidio e lo fa con estrema consapevolezza.
Il passo successivo è della direzione di Exit, che contatta il medico curante di K., pregandolo – dopo averlo informato di tutto – di prescrivere 10 gr. di Natrium–Pentobarbital. […]
[Passano alcuni giorni]. La signora K., rientrando, si imbatte in M., che sta andando da loro con un’anonima valigetta e il suo contenuto letale. M., per un’ultima volta davanti a K., s’accerta che nessun nuovo motivo sia sopraggiunto. K. appare convintissimo e deciso come non mai. Riempie con calma invidiabile il questionario portato da M. in cui lui, K., attesta il proprio suicidio.
Poi l’addio, tenero e triste. K. si stende sul letto mentre M. gli porge il bicchiere mortale. Un sorso solo, la stanza avvolta da un indefinibile velo di complicità. Poi la signora K. che entra, parla, piange, chiede. Lui che non risponde e M. che si alza e chiama la polizia, che arriva puntuale, con discrezione, in borghese e senza auto di servizio.”
Quello qui descritto è un tipico esempio di cosiddetto suicidio razionale, ed è la cronaca romanzata di un fatto che può essere realmente accaduto in Svizzera, sede dell’associazione Exit. Una sola domanda: si tratta ancora di eutanasia?
Luisa
Luisa è un’amica. Ha qualche anno più di me. Quasi quindici anni fa stava morendo. Il suo cuore non funzionava più. Le proposero un trapianto. Accettò. Da allora ha dovuto seguire un severo trattamento medico ma in questi anni ha vissuto normalmente continuando a svolgere il proprio lavoro. È stata una donna felice, che ha saputo dar gioia a quelli che la circondavano. Due anni fa incomincia a non sentirsi bene. I medici non riscontrano alcuna disfunzione. Il malessere persiste. Si fanno varie ipotesi, ma tutte si rivelano infondate. Poi, dopo ulteriori analisi, le annunciano la presenza all’interno del suo organismo di un tumore maligno. È un tumore che può essere curato, ci sono delle possibilità, anche se per le persone che hanno subito un trapianto tutto diventa più difficile. Luisa decide comunque di intraprendere i trattamenti. Una chemioterapia pesantissima. Deve andare in ospedale, in una camera sterilizzata. È in pericolo di vita, sicuramente soffre. Vado a trovarla. È dimagrita, enormemente dimagrita. Mi accoglie con un sorriso. Fa fatica a parlare, ma ascolta. Poi mi parla della sua malattia. Si scherza. Suo marito è teso, stanco, a sua volta sofferente. Chiunque altro, credo, avrebbe già smesso da un pezzo di lottare. Luisa continua, la terapia è ormai entrata nella fase finale. Tutti speriamo che le cose possano finalmente andar meglio. Nuovi esami, però, dicono che il tumore non è regredito. Deve fare un altro ciclo di chemio, dicono i medici. Luisa è a pezzi. Si sottopone comunque ad altre atroci sofferenze. L’organismo è al limite. Finisce l’ultimo ciclo. Luisa è fisicamente irriconoscibile, ma sta meglio. Torna a casa.
Qualche mese fa le parlo del progetto di scrivere un libro sull’eutanasia. Mi dice che è un tema importante, anche se “un po’ alla moda”. E aggiunge che c’è ancora molto da capire e che il problema fondamentale è quello del dolore, del momento in cui il dolore diviene insostenibile. Concordo con lei, ma mi stupisce che sia lei a dirlo, proprio lei che ha sofferto l’inverosimile. Lei che non crede in Dio e non dà nessun valore redentore o tragico alla sofferenza. Lei che non è un’ottimista a tutti i costi e che un giorno, parlandomi della sofferenza, mi fece leggere questa frase di Schopenhauer:
“Se si mettessero sotto gli occhi di ciascuno di noi le sofferenze e le torture atroci a cui ci si trova costantemente esposti, tremeremmo di terrore e di raccapriccio. Prendiamo il più ostinato degli ottimisti, facciamogli fare un pellegrinaggio attraverso gli ospedali, i lazzaretti e gli ambulatori chirurgici: attraverso le prigioni, le camere di tortura e gli ergastoli; sui campi di battaglia, e sui luoghi del supplizio; schiudiamogli i tetri tuguri ove la miseria si nasconde agli sguardi dei curiosi indifferenti: facciamolo entrare nella prigione di Ugolino, nella torre della fame; egli finirà senza dubbio, per comprendere di che razza sia questo meilleur des mondes possibles.”
La guardo stupefatto. C’è ancora molto da capire.
Hermann
Non lo vedo ormai da molto tempo. Le cose della vita ci hanno resi estranei l’una all’altro. È così, e c’è poco da fare. Due anni fa un incidente gli ha frantumato una vertebra. È rimasto completamente paralizzato. Immagino che la sua vita dipenda quasi totalmente dagli altri. Ed è una beffa e una tragedia per lui che degli altri si è voluto liberare, per non venir meno alla sua voglia di libertà e autonomia. Le mani con le quali lavorava, ora sono immobili. A volte, mi domando che vita sia la sua. Mi domando come avrei reagito trovandomi in tale stato. Il dolore qui non è una fitta, un estremo punto finale. Si protrae. È la quotidianità del dolore. Non si è “terminali”, eppure il dolore, immagino, può essere altrettanto grande e insopportabile.
Lui vive però, e credo non troppo male – non più di tanti altri. Vive anche quando il dolore parrebbe essere insopportabile. Come dire allora quando un dolore diviene intollerabile, quando l’eutanasia può essere l’unica soluzione possibile? L’unico modo, forse, è domandarlo a coloro che soffrono: “perché hanno essi stessi sofferto o veduto altri soffrire” (Platone, Repubblica, X, 619 d). Le altre soluzioni, forse, sono solo parole al vento. Certamente sono parole che, come in questo caso le mie, si affidano agli “immagino”, ai “credo”, ai “forse”, cioè ad immagini, credenze ed ipotesi ma che in realtà non sanno, non conoscono quale sia esattamente il punto in cui un dolore diviene intollerabile. Il che, però, non dipende da una mia mancanza personale ma dalla natura stessa del dolore, dalla sua singolarità indemandabile. Il dolore sfugge ad ogni rappresentazione totalizzante, la mette in crisi. L’eutanasia è il parossismo di ogni progetto di legge, pur esigendo un sistema universale dei singoli casi.
Andrea
Sono ormai due mesi che seguo la sua agonia. È ferma, quasi immobilizzata, nel suo letto. Parla poco. A volte mostra di apprezzare una visita. Scambia qualche parola con i vecchi amici. Non c’è gioia nella sua voce, ma solo la sofferenza di una malattia che gli impedisce di vivere. Una voce che ha cambiato tono: è secca, sobria, quasi scarna. Il suo corpo è segnato profondamente. Non riesce più a controllare le proprie funzioni escretorie. Più nessun pudore, solo l’avvilimento del non poter far nulla. E il dolore pungente, che non se ne va – ma aumenta. Solitudine assoluta, poiché il dolore quando diviene intollerabile non si condivide. Morirà, in stato comatoso, cinque settimane dopo.
Sua madre mi affida un piccolo quaderno. Molte pagine sono strappate. Qua e là delle cancellature. Non è un diario. Ci sono solo alcune frasi per lo più disperate, quasi delle cicatrici ancora sanguinanti. Una in particolare mi colpisce. È scritta senza nessuna correzione, con mano ferma.
“Che senso ha questo dolore? La mia sofferenza è senza senso e senza parole. Non c’è niente da dire. Nessuna parola potrà mai redimerla. Io soffro e non ho il coraggio e la forza per porre fine alla mia sofferenza insopportabile. Io non sono più io, e non sono [un] eroe, ed ho paura della morte. Questo è tutto. Il resto è silenzio”.
Silenzio. Sicuramente il silenzio del suo dolore, che sarà sempre solo il suo. Provo vergogna nel provare a dire un dolore che non troverà mai un senso neanche nel più sensato dei nostri discorsi. Eppure, sento di dover testimoniare questo dolore, che sfugge alla parola da tutte le parti, che sfugge non perché ineffabile, ma perché singolare, legato a un nome proprio, al suo, Andrea. Ma quel dolore è anche il dolore di tutti noi, quello che ci spinge a parlare e a reagire all’ingiustizia assoluta di una tale morte e di una tale sofferenza; quello che impone di lottare affinché una tale sofferenza sia risparmiata ad altri, affinché nessuno debba essere un eroe. Beata la società che non ha bisogno di eroi – è scritto sul muro di una casa di Orgosolo.