L’esecuzione di mia madre

di Giacomo Sartori

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Qualche mese fa ho ammazzato mia madre. Mai più avrei immaginato che avrei potuto freddare qualcuno a bruciapelo, e tanto meno mia madre, però l’ho fatto. Non ho agito da solo, ma insomma l’ho fatta fuori. Forse dovrei sentirmi a disagio per quello che è successo, e invece sostanzialmente mi sento come mi sentivo prima. Altrettanto insoddisfatto, incongruo.
Una settimana prima era tornata a casa dall’ospedale con la prospettiva di rimettersi e riprendere forze. Vista da adesso la cosa era assolutamente velleitaria, ma mettendo in sordina lo sprezzante pessimismo degli ultimi mesi lei aveva creduto ai medici che l’avevano operata, come ci avevamo creduto noi. Si sforzava di alzarsi per i pasti e di mandar giù qualche minuscolo bocconcino, di fare qualche passo. Compensando la spossatezza con il suo ostinato e quasi eroico volontarismo. Per qualche giorno la sua situazione è rimasta stazionaria. Poi però è cominciata una rapida china discendente: già era sotto i quaranta chili, ora perdeva ogni giorno mezzo chilo o un chilo, avvicinandosi progressivamente ai trentacinque chili. Una rapida scivolata che non poteva condurre, il sostituto del medico condotto ci aveva preparati, che alla morte. Non assimilava quelle briciole da uccellino che ingeriva: si trovavano intatte nella sacca intestinale che le avevano messo.
Quella sera la sua situazione era d’improvviso precipitata. Aveva insistito per andare ancora in bagno sulle proprie gambe, anche se ormai era diventato un calvario. Sostenevo per le ascelle quel sacchetto di ossicini che nemmeno lottando strenuamente riusciva più a reggersi, che franava su se stesso. L’impavida volontà di ex-sportiva non ce la faceva più a supplire, ogni passetto le richiedeva ormai uno sforzo spropositato. Avevo lasciato seduto sul water, stremato e tremante, quel suo bel corpo slanciato e senza forme di bambina. Tornata a letto aveva battuto a lungo i denti, sfinita.
Basta!, se n’è uscita, una volta ritrovate un po’ di forze. Con una voce chiara e perentoria. E lo ha ripetuto a voce sempre più alta: Basta!, Basta!, Basta! Questa volta non era il solito tentativo di convincerci con degli argomenti che cercavano di essere più stringenti possibile. Era una straziante richiesta che travalicava ormai la liturgia dei discorsi sociali. O meglio, era un diktat che dovevamo eseguire. Basta!, Basta!, gridava.
Basta!, Basta!, urlava sempre più forte, a un ritmo sempre più rapido. Risoluta, o per meglio dire furente. Il tono della vittima che chiede giustizia senza timore di ritorsioni, perché non ha più nulla da perdere. Di fronte a quelle urla non c’erano ragionamenti che tenessero, non c’era più alcuna possibilità che accettasse ancora, come un’allieva poco contenta di dover conformarsi, i nostri argomenti. Non si sarebbe più arresa a malincuore, con negli occhi l’ostinata determinazione a darsi da fare per trovare appigli migliori. Non ne poteva più di tutte quelle umiliazioni, lei che non si era mai sottomessa a nessuno, non aveva permesso che altri manipolassero il suo corpo e la sua intimità. Questa volta non c’era niente da fare, aveva deciso di andarsene.
Basta!, Basta!, gridava, intervallando silenzi che erano pause stremate, brevi tregue durante le quali radunava l’energia per lo sfogo seguente. Basta!, urlava con una disperazione sempre più struggente. Nessuno di noi fiatava, nessuno osava ribatterle checchessia. Basta!, Basta!, Basta!, ripeteva lei, dimenandosi nel letto. Dopo un giro di sguardi mia sorella si è avvicinata e le ha detto che andava bene. Parlava a nome di tutti noi. Domani?, ha chiesto mia madre. Domani, ha ripetuto a malincuore mia sorella. Domani mattina? Domani mattina.
Mia madre è stata un attimo in silenzio, come una bambina che incassa una promessa per lei importantissima, e nel timore di perdere il terreno conquistato non lascia trasparire nessuna gioia, nessuna emozione. Ma esultava, aveva finalmente vinto. Per qualche minuto è stata zitta, con gli occhi chiusi. Poi però li ha riaperti e ha chiesto: questa sera? Con una voce chiara e precisa che ormai non era più la sua. Questa sera!, ha ripetuto con un tono perentorio. Questa sera!, ha rincarato, ancora più forte.
Questa sera cosa?, ha domandato mia sorella, che preferiva non capire. Smettere di vivere, ha risposto mia madre, con un pudore che era anche insolenza, sprezzo per la vita che le aveva giocato quel brutto tiro di ridurla in quello stato. Appunto come chi strappato un assenso rilancia la posta, cosciente che la scommessa è ardua ma forse nemmeno impossibile. Mia sorella tentennava: non voleva piegarsi, ma quello scheletrino di trentacinque chili era pur sempre più forte di lei. Lo era sempre stato. Con gli occhi di chi non trova nessun pretesto a cui aggrapparsi ha detto che andava bene, quella sera. Mia madre ha chiuso di nuovo gli occhi. Ora aveva davvero trionfato.
Mia sorella e mio cognato hanno detto che salivano da loro per mangiare un boccone. Lei sembrava scioccata, annientata. S’era battuta per due mesi, mettendo in campo tutta la sua esperienza e tutte le conoscenze legate al suo lavoro in campo medico, riuscendo a superare tutti gli scogli che si erano via via presentati. Aveva lottato fino allo strenuo, correndo dietro alle urgenze, individuando le priorità e le strategie, affrontando le singole emergenze, e adesso doveva prendere atto che la situazione era precipitata. Per lei era prima di tutto una sconfitta personale: aveva cercato di farla vivere e aveva fallito. Per qualcun altro sarebbe pesato forse quel tempo passato con quella donna che l’aveva generata e con la quale aveva sempre avuto un rapporto molto teso: nella sofferenza erano nate un’intimità e un affiatamento che mi avevano stupito, da entrambe le parti. Ma per lei sembrava contare solo la disfatta, e il giudizio su se stessa non poteva che essere molto negativo. Mia madre li ha salutati gentilmente, con tenerezza. Non era uno dei sorrisi di generica benevolenza dietro ai quali aveva nascosto la sua stizza in quei mesi, la nuova corazza che s’era costruita per l’ospedale e la malattia. Assaporava la sua vittoria, e era finalmente appagata, tranquilla. Sembrava anzi contenta che potessero andare a riposarsi un attimo.
Sono rimasto solo con lei. Per un po’ ha sonnecchiato, come aveva fatto la gran parte della giornata, respirando con la bocca aperta. Io pensavo che la sera seguente non ci sarebbe stata più, e nemmeno quelle dopo. E presto non sarebbe più stata cosciente. Faticavo a ricacciare giù le lacrime, dicendomi che non era il momento di pensare a me. Come tante altre volte in quelle settimane avrei voluto che mi dicesse qualcosa di intimo, che mi lasciasse una qualche sorta di messaggio. Che scambiassimo qualche frase di reciproca stima, di incoraggiamento per i nostri rispettivi futuri. Un ringraziamento, un addio, una benedizione. Qualcosa che compensasse la faglia che ci aveva separati anche quando negli ultimi anni ci eravamo un po’ riavvicinati. Me lei sonnecchiava, si lasciava cullare dalla sua malattia, sulla quale aveva finalmente la meglio.
A un certo punto ha aperto gli occhi, che ora sembravano molto grandi, e di un azzurro più scuro. Poi starò meglio, mi ha detto. Sapevo che non lo pensava, perché nel suo materialismo radicale non c’era posto per un poi. Il tono della frase, quello di chi fa una concessione alla quale non crede, lo provava. Ma sapevo anche che lo aveva detto per me: era un argomento a posteriori che avvallava la sua scelta, che doveva rendermela accettabile. E forse anche era una tattica di consolidamento, nel timore che ci rimangiassimo il nostro assenso. , ho detto io.
Avrei voluto aggiungere che forse davvero l’anima non muore, forse davvero si reincarna. Lei stessa aveva avuto l’impressione che una farfalla si ostinasse attorno a lei, e non la lasciasse un secondo, qualche tempo dopo la morte di mio padre. Quelle cose così lontane dalla nostra cultura, così incomprensibili per noi, erano magari vere. Ma avevo il nodo alla gola, sentivo che non sarei riuscito a parlare senza scoppiare in singhiozzi. E sapevo che mi avrebbe dato retta solo per cortesia. Del resto aveva richiuso gli occhi, era assorbita in quell’ultimo episodio del gioco a rimpiattino con il suo corpo. In quei mesi aveva mostrato per le mie cose, quando non soffriva troppo, quella curiosità totalizzante e avida che, con tutti i limiti della nostra relazione, nella mia esistenza non avevo trovato in nessun altro. Ora però era confrontata a una catastrofe, la fine della sua vita, la fine di tutto, e il resto perdeva importanza. Tanto più che nessuno poteva esserle utile. Nessuno l’aveva mai spalleggiata nelle minute difficoltà della vita, figuriamoci per quella cosa lì.
Perché non arrivavano?, mi ha chiesto poi. Io le ho detto che sarebbero scesi molto presto. Lei ha assentito, ma poco dopo ha domandato di nuovo: quando vengono? Ormai non si fidava più, erano due mesi che riuscivamo a rimandare, con le nostre scuse del cavolo. Cominciava a spazientirsi di nuovo. Io le ho risposto che era questione di poco, stavano certamente finendo di mangiare. Lei per qualche altro minuto si è calmata. Poi però ha detto: falli venire. E subito si è messa a urlare: vai a chiamarli, falli venire! Non poteva aspettare, non ne poteva davvero più. Voleva che la uccidessimo subito. L’avevamo promesso, non potevamo adesso tergiversare.
Il sostituto del medico condotto ci aveva preparato la ricetta, e già da qualche giorno avevamo in casa la morfina. Qualche volta capita che le farmacie della cittadina restino senza, soprattutto nei periodi come quelli, ci aveva detto. Apprendevo che la fine delle vacanze natalizie, con il gran freddo dei primi di gennaio, è un periodo in cui molte persone muoiono. Aveva preso atto con una gravità professionalmente neutra, ma anche intrisa di una surrettizia dolcezza, del suo desiderio di andarsene. Nonostante l’età molto giovane padroneggiava la situazione con una pacata sicurezza, e sapeva spiegarsi con parole piene di umanità che miravano solo a essere efficaci, senza rimanere prigioniere dei compassati autocompiacimenti di mio cognato. Non poteva prendersi il rischio di infrangere apertamente la legge, però riusciva a dire quello che pensava senza dirlo. Non si guardava in giro, nemmeno un colpo d’occhio allo sfarzo da grande museo dell’appartamento di mia madre, ci dava le armi per affrontare quel momento nel migliore dei modi. Chiamare la guardia medica sarebbe sfociato in una nuova ospedalizzazione, ci aveva spiegato, con tutti gli accanimenti terapeutici del caso: la cosa migliore era che gestissimo noi i momenti difficili nei giorni festivi che seguivano.
Vai a chiamarli!, urlava mia madre. Era sempre più agitata, e non ascoltava le mie parole. Nel frattempo era arrivato anche mio fratello, e anche lui non sapeva che pesci prendere. Sono salito allora da mia sorella. Loro avevano già sparecchiato, ma mio cognato mi ha proposto un piatto di verdure lesse, e io dopo qualche esitazione ho accettato. Ripensandoci adesso mi sembra incredibile che in un momento del genere mi sia messo a mangiare, e invece ho mangiato di gusto, apprezzando le ottime verdure. Dovevo prendere forze, forze anche mentali, o forse meglio dovevo restare dalla parte della vita. Il vino bianco aperto apposta per me era davvero squisito, e ne ho preso un secondo bicchiere.
Del resto anche mia madre, solo adesso trovo una relazione tra le due cose, quella mattina aveva pregato la donna che l’aiutava di preparare una torta di mele. Mi aveva colpito quella bella torta, molto più piccola del solito, che avevo adocchiato a mezzogiorno, e la cui presenza mi era sembrata assurda, visto il suo stato. Come mai aveva fatto fare quel dolce, che di solito era in relazione con qualche invitato? Ho saputo poi che nel corso del pomeriggio aveva voluto che gliene portassero una fetta, della quale aveva portato alla bocca qualche microscopico frammento. Era per lei, la torta. Nel giorno che sapeva essere il suo ultimo, poche ore prima di morire, aveva voluto prendersi un ultimo sfizio. Non ero l’unico ghiottone in famiglia.
Quando sono sceso nella camera con il soffitto barocco già c’era quel silenzio indaffarato dell’allestimento di un rito. Mia madre era ancora molto irrequieta, e voleva a tutti i costi accorciare i tempi, e allora mio cognato ha detto che avrebbe preparato l’iniezione. Lei allora ci ha ringraziato. Grazie, grazie di tutto, ha detto, con una voce struggente ma già anche disabitata. La voce di chi è già seduto sul mezzo che lo porterà lontano, e che nel suo spirito è già partito. Suppongo che si rivolgesse in particolare a mia sorella e a suo marito, che si erano occupati quasi a tempo pieno di lei quei due mesi, loro che erano sempre stati gelosi della loro intimità e del loro tempo. Quei grazie erano certo per loro. Io però ne ho preso una frazione anche per me, che vivevo lontano. Senza sapere se mi sbagliavo, visto che non ci considerava singolarmente, e tanto meno ci prendeva uno alla volta tra le sue braccia. Non le erano mai piaciuti i saluti che si eternizzano, e aveva sempre rifuggito i contatti fisici. E adesso aveva urgenza di andare seduta stante dove le avevamo promesso che poteva andare. Era smaniosa di morire. Ci restava allora solo quell’accorato ringraziamento collettivo, ambiguo nella sua destinazione: prendere o lasciare.
Dopo la prima iniezione teneva gli occhi aperti, e guardava con uno stupore gioioso un po’ in alto, sembrava vedere qualcosa che noi non vedevamo. Forme che si muovevano e evolvevano, che le provocavano un’estasi divertita. Lei che non aveva mai creduto che ci fosse qualcosa oltre la vita, adesso sembrava incantata dalle figure che si dice danzino attorno ai morenti. O magari era solo sballata, vallo a sapere. In ogni caso era bella. Già all’ospedale mi aveva colpito la sua bellezza, con quei capelli color porcellana, di un candore quasi aggressivo, ora che non se li tingeva più, e quei lineamenti affilati che si erano avvicinati a quelli della madre, fin quasi a sovrapporsi. Si era disfatta della fragilità istrionica di rossa che l’aveva accompagnata fin dall’infanzia, e la cordialità della maschera sociale aveva lasciato il posto a una gravità armoniosa, a un naturale carisma. Ma con quell’espressione appagata e gaia, quasi un po’ ironica, era ancora più bella. Adesso che ci aveva lasciati, era finalmente come avrei sempre avuto bisogno – mi rendevo conto – che fosse.
Un’oretta dopo mio cognato ha chiesto con un tono dolce e pacato, quella nuova voce che sanciva la sua recente virata benevolente nei confronti della suocera, dopo decenni di insofferenza, se eravamo d’accordo per fare un’altra iniezione. Lui non dimenticava, a differenza di noi, che avevamo cominciato a ammazzarla, e che dovevamo proseguire. Sapeva però che era una decisione delicata, e che era importante che fossimo tutti d’accordo. Ascoltati gli altri anch’io ho dato il mio assenso con un mugugno lugubre. Dopo l’iniezione mia madre ha ricominciato a guardare avidamente quella sua proiezione privata, lei che aveva tanto amato il cinema, ma la sua respirazione era adesso più lenta, più pesante.
A quanto pare con quel fragile corpicino pur sempre solidamente aggrappato alla vita le cose andavano per le lunghe, e io m’ero sdraiato nella parte libera del lettone, quella ch’era stata di mio padre. Lì dove tanti anni prima lui era morto, mentre io gli tenevo la mano, seduto al suo fianco, in presenza di quelle stesse persone, e con mia madre che se ne usciva con le sue pazzie, impaziente che lui si sbrigasse a andarsene. Mio fratello, sua moglie e mia sorella si erano stravaccati invece a qualche modo sul letto di appoggio per le veglie notturne che sostituiva la scomodissima dormeuse dorata, portata in un’altra stanza. La giornata era stata lunga, e eravamo tutti molto stanchi.
Mio cognato ha chiesto poi se eravamo d’accordo per un’altra dose, e si è ripetuto il rito dell’assenso. Io ero certo che fosse l’ultima, non era possibile che quel fuscellino di nervi reggesse ancora. Adesso inspirava con energia l’aria e poi tratteneva il respiro molto a lungo, senza muoversi, senza produrre il minimo rumore, con gli occhi aperti. Noi ogni volta trattenevamo il fiato, domandandoci se era l’ultimo. Quelle pause erano sempre più lunghe, sempre più abissali, pareva impossibile che riuscisse poi a riaffiorare. E invece ogni volta l’aria rompeva la barriera, seppure con molta fatica, e come strappando qualcosa: ricominciava a respirare. Ognuna di quelle apnee sembrava essere l’ultima, ma non era l’ultima. E poi ancora e ancora, mentre la notte avanzava. Alla lunga la spossatezza aveva la meglio sulla mia tensione, mi accorgevo. Temevo quindi che morisse mentre sonnecchiavo.
Un po’ alla volta il respiro di mia madre s’è acquietato: nemmeno l’ultima dose l’aveva stroncata. Adesso dormiva, dormiva un sonno profondo. Riposava come non aveva mai riposato da sessant’anni, lei che aveva passato le sue notti a leggere, a ascoltare la radio, a alzarsi per andare a sgranocchiare qualcosa. Dorme, ha detto mia sorella, con quella sua voce dolce e un po’ malinconica che le era spuntata negli ultimi tempi, in un momento che nella camera eravamo rimasti solo noi fratelli. Sì, ronfa della grossa, mi è scappato da dire a me. Allora abbiamo riso. Non ricordo chi abbia cominciato, ma ridevamo sempre di più, sempre più forte. Sghignazzavamo guardandoci e tirando fuori scemenze che ci facevano ancora più scompisciare. Ridevamo perché dopo averci tirati pazzi con la sua furia di morire, che ci riempiva di dolore, aveva retto alla dose da cavallo di morfina che le avevamo dato, e dormiva come un angioletto. Nemmeno morire, poteva farlo come tutti gli altri: riusciva una volta ancora a imporre il suo anticonformismo. Non potevamo smettere, piegati in due e asciugandoci le lacrime, come ci capitava qualche volta da bambini. Erano quasi le due di notte, eravamo provati nello spirito e nel fisico, non ne potevamo più, e non riuscivamo a smettere di ridere.
Siamo poi tornati alle nostre rispettive postazioni, ritrovandoci ben presto ancora più stanchi, più sconfortati. Ormai era chiaro che la sua tempra aveva avuto la meglio, e non sarebbe morta. Io pensavo che era assurdo rimanere lì a non fare niente, ma preferivo che parlasse mio cognato, o uno dei miei fratelli, in modo da non dovermi sentire un killer. Lui però non diceva più niente, sembrava rassegnato. Compariva ogni tanto, e poi andava a sdraiarsi di nuovo sul divano del salone. Non sapeva più cosa fare, lui che era presidente di questo e di quello, e che aveva sempre una soluzione per tutto. Io gliene volevo, come ne volevo ai miei fratelli, entrambi più vecchi di me, per il fatto che non sapessero decidersi. Se la menavano entrambi tanto, ma per certi aspetti erano restati bambini di pochi anni, mi dicevo.
Voi andate, ha detto poi mia sorella. È inutile che ci sfiniamo tutti, andate a dormire, domani vediamo cosa fare, ha detto, con quella sua nuova voce di vecchio velluto. Io mi sono alzato, e parlando piano perché mia madre non sentisse – ero e resto convinto che le persone nelle sue condizioni captino tutto – ho detto che avevamo cominciato a ammazzarla, adesso non potevamo piantare lì. Ce l’aveva chiesto lei, facevamo solo quello che ci aveva implorato di fare. Aspettare il giorno dopo avrebbe solo voluto dire prolungare la sua agonia, ormai non potevamo tirarci indietro. I miei fratelli tergiversavano, ma poi si sono mostrati d’accordo. Mio cognato ha allora preparato la quarta iniezione.

(questo racconto è apparso su Nuovi Argomenti, numero 77, gennaio-marzo 2017)

(l’immagine è un affresco della Stanza di Apollo, nel Palazzo Assesorile di Cles, Trento)

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