La soapizzazione dell’anima
di Piero Vereni
Cos’è che fa sì che Maria De Filippi sia così amata dal pubblico generalista e così detestata dai cosiddetti intellettuali? Prima di stracciarci le vesti e balzare popperianamente sul carro dei mosconi detrattori del catodo, forse vale la pena di capire come funziona un meccanismo narrativo che ha implicazioni antropologiche letteralmente sconvolgenti.
Gli sceneggiatori televisivi, gente pratica, divide il mondo della fiction in due grandi categorie: low concept, e high concept. A scanso di malintesi, gli aggettivi stanno ad indicare più l’impegno economico dell’eventuale investimento produttivo che il valore intrinseco delle opere prodotte, per cui low concept fa il paio con low budget. Comunque sia, high concept indica quel tipo di fiction in cui i caratteri dei protagonisti sono nettamente definiti e coincidono con un fare specifico: la caccia al colpevole, la scoperta di nuovi mondi, la ricerca di una via di fuga. Low concept è invece quella fiction che ruota strutturalmente attorno alla definizione stessa dei personaggi, perennemente alla ricerca di una loro collocazione sociale o affettiva. Si intuisce quindi dalle definizioni sommariamente presentate che il tipo principe di fiction high concept è il telefilm poliziesco, mentre la fiction low concept trova la sua massima espressione nel serial (nella variante soap opera quando il finale è dilazionato all’infinito; telenovela se il finale per quanto ritardato, è previsto nella sceneggiatura di base). Low e high sono due idealtipi o caratteri estremi, che delimitano piuttosto i margini di un continuo narrativo entro il quale è possibile collocare le specifiche fiction. Così, per fare un esempio a me caro, la serie Star Trek è una fiction high concept (“alla scoperta di nuovi mondi… lì dove l’uomo non è mai stato prima”), ma il conflitto tra la razionalità vulcaniana del Dr. Spock e l’emotività dell’umanissimo Dr. McCoy è un tipico caso di sviluppo low concept che fa da bordone a tutta la serie. Specularmente, il telefilm Ally McBeal è pensato come un low concept (l’avvocatessa in perenne crisi sentimentale e identitaria) sul quale si innestano di volta in volta plot basati su casi legali più o meno high (ma mai alla Perry Mason).
Detto altrimenti, una narrazione è high quando punta sulle azioni dei protagonisti (“Presto, insegua quell’auto!”) che non hanno bisogno di definizioni dato che quello che sono sta tutto nel loro fare (il tenente Colombo), mentre è low quando si incentra sulla definizione dei personaggi (“Devo dirti qualcosa, Pedro: tua madre in realtà è la figlia di tuo padre, quindi tuo padre è tuo nonno, e tua madre è tua sorella”), attività che di fatto costituisce lo scopo primario della fiction di questo tipo.
Stabilite queste coordinate, è utile ricordare che l’opposizione si può applicare al mondo della letteratura in generale, che costituisce ovviamente il terreno dove l’opposizione si è anzi originariamente sviluppata. Ma è proprio quando viene restituita a questo campo di applicazione che l’opposizione tra high e low dimostra inaspettate implicazioni, dato che è proprio qui che le implicite connotazioni valutative che mi ero premunito di evitare all’inizio di questa discussione sembrano tornare prepotentemente all’assalto, ma invertite di segno. Intendo dire che la letteratura high coincide abbastanza bene con quella che si chiama “di genere” (polizieschi, fantascienza, erotici, ecc.) mentre quella low sembra sovrapporsi con una certa precisione alla Letteratura con la maiuscola, a quella che – beata lei – arriva a toccare le vette dell’arte.
Anche se cioè un plot high concept può strutturare la trama di molta Letteratura con la maiuscola, mi pare indubitabile che ciò che ha fatto di un pezzo di “prosa letteraria” un’opera d’arte è stato, per generazioni di critici, il tono irrimediabilmente low della struttura ideologica soggiacente. Possiamo cioè dire che senza la ridicola crisi dell’Innominato (e gli stravizi conventuali della monaca di Monza, e i trascorsi ribaldi di fra’ Cristoforo) i Promessi Sposi non sarebbero entrati nel canone con il fragore che li ha contraddistinti. Ciò che per due secoli (l’Ottocento e il Novecento) ha costituito il fattore discriminante della Grande Letteratura è stata proprio la capacità degli autori di comunicare gli intimi sommovimenti dell’anima del protagonista, dimostrandone così l’esistenza in un mondo sempre più secolarizzato. La borghesia (classe sociale di cui il romanzo è la più compiuta espressione estetica, com’è noto) ha costruito la propria percezione di sé attraverso la rappresentazione narrativa di un soggetto dotato canonicamente di due fondamentali caratteristiche: è consapevole dei propri stati d’animo, più importanti per la sua vita di qualunque condizione materiale; i suoi stati d’animo mutano nel corso del tempo a seguito di diversi motivi, non ultimo il caso. Non è necessario indicare in questa sede le ragioni strutturali che hanno condotto a una simile concezione del soggetto, mentre è estremamente importante sottolineare l’aspetto distintivo di questa identità borghese, che si oppone (tramite la sua interiorità) all’esteriorità della nobiltà e (tramite la sua profondità) alla superficialità inconsapevole delle classi subalterne e strumentali. Dal Werther di Goethe all’Agostino di Moravia, il protagonista del romanzo moderno è uno stronzetto che non ha nulla da fare se non struggersi per una qualche relazione (affettiva o di potere) che gli crea dei problemi di identità. Ora, imparare ad apprezzare le qualità estetiche di un simile modello narrativo è procedimento estremamente complicato, che necessita di uno specifico e lungo addestramento: i giovani devono essere educati a identificarsi con soggetti in crisi il cui scopo ultimo non è fare delle cose con il proprio corpo (vangare, scopare, mangiare, defecare) ma elaborare una qualche concezione raffinata del proprio sé come espressione desomatizzata e vagamente nevrotica di un qualche malessere di vivere. Per poter giungere a incorporare questo modello erano necessari – finora – rigorosi strumenti educativi e rigide pratiche di esclusione. Pierre Bourdieu, nel suo saggio sulla Distinzione, ha illustrato i passaggi necessari per elaborare una concezione estetica che garantisca un’adeguata appartenenza di classe. Ma quel potente saggio è stato scritto prima di Maria De Filippi, cioè prima della soapizzazione dell’anima. La Maria riprende in maniera industriale, portandolo alla perfezione, il modello del Maurizio, che si può riassumere in uno slogan: democratizzare la crisi borghese del soggetto.
In tutti i programmi di Maria De Filippi (Amici, Saranno famosi – ora ribattezzato Amici di Maria De Filippi per ragioni di copyright –, C’è posta per te) qualunque sia il concept (dichiaratamente low in Amici e C’è posta per te, falsamente high in Saranno famosi, in cui si finge che i protagonisti debbano battersi per una vittoria finale) la spina dorsale dell’audience, il detonatore dello share, è sempre e comunque un soggetto qualunque in crisi affettiva e/o identitaria: la madre snaturata che a settant’anni vuole rivedere le figlie; il panettiere demotivato che cerca la fidanzata della sua adolescenza; l’atletico, apollineo e afasico ballerino adolescente che deve superare la crisi che lo contrappone al padre benzinaio che l’ha ostacolato nella sua carriera (ma che a sua volta è in crisi perché ora, pressato dalle telecamere, riconosce il “talento” del figlio ed è costretto a rivedere la sua equazione ballerino = frocio).
Credo che il successo di Maria De Filippi consista proprio in questa sua capacità di popolarizzare un’immagine a lungo elitaria del soggetto occidentale, rendendola fruibile alle masse che, esposte per troppo breve tempo alla pratica distintiva dell’educazione formale, hanno fatto in tempo a cogliere l’allure del soggetto borghese senza riuscire veramente a farlo proprio. Gli ex liceali distratti, i geometri con il panico da compito d’italiano, i forzati delle 150 ore e i coatti del Cepu hanno con Maria De Filippi l’opportunità irrinunciabile di prendersi una clamorosa rivincita di classe, potendo esprimere con tutto il loro corpo quel che la Cultura ha fatto loro solo assaggiare. Lacrime e sudore, aloni ascellari e scarmigliature, posture goffe e voci roche da scarsa pratica telegenica, assieme al calcolato vizio della conduttrice di non guardare mai verso la telecamera, costituiscono lo stile “realista” della televisione di Maria De Filippi (non per nulla il genere cui appartiene, oggi dominante nelle televisioni di tutto il mondo, è detto reality) che garantisce a chi guarda la certezza della partecipazione e dell’identificazione. Le classi popolari, che non hanno tempo da perdere a leggersi pallosissimi Bildungsroman senza sugo per giungere a quel raffinamento della coscienza necessario a percepirsi come “soggetto fragile”, possono attraverso il tubo catodico fare un corso accelerato di pensiero occidentale, e condensare in un paio d’ore la filosofia del soggetto da Hegel a Heidegger.
Gli stessi motivi che fanno di Maria De Filippi un vero guru delle classi subalterne stanno alla base del disprezzo che verso di lei ostentano i colti, quelli appunto che sono in qualche modo riusciti a incorporare il modello del soggetto fragile per via letteraria o filosofica. Costoro subiscono il gravissimo dispetto di vedersi svelare il trucco sotto il naso, il trucco – si badi bene – fondativo della loro identità. C’è posta per te (ma l’argomentazione si può estendere ai reality show in generale) costituisce infatti l’anello di congiunzione tra L’Ulisse e Un posto al sole, svelandone così la comune matrice low concept. Prima del reality i cultori della cultura alta (che abbiamo visto essere in effetti low concept) potevano ribadire la distanza del loro modello narrativo dal serial insistendo sulla patemizzazione esasperata di quest’ultimo, che invece non sarebbe presente nei romanzi d’Arte. A parte il fatto che l’argomentazione è alquanto speciosa (che cos’è il flusso di coscienza di Molly se non un effettaccio paragonabile allo slow motion in un film di Zeffirelli?), la messa in scena dei corpi proletari invasi da anime fragili dimostra senza possibilità di smentita che quel soggetto raffinato che si supponeva frutto di un incessante lavorio interiore può esistere anche in contesti del tutto incongrui, vanificando quindi il processo di distinzione.
Maria De Filippi quindi è la profetessa della vera laicizzazione della crisi laica del soggetto, la divulgatrice di un modello che era nato per essere elitario. Inevitabile quindi che si attirasse gli strali e gli anatemi di chi di quel modello è vissuto (in senso letterale). Ma ci importa poco delle piccinerie invidiose della borghesia, mentre ci sembra più interessante seguire gli sviluppi antropologici e politici di questo modello identitario. Cosa succede cioè nelle pratiche sociali quando il soggetto non è più raccontabile per il suo fare, ma solo definibile per il suo sentire? Quando il narcisistico modello strutturalista (il soggetto è un fascio di relazioni) diviene pratica quotidiana? Cosa succede veramente quando Luisa non è più quella che fa i vestiti, ma la “madre degenere”; Lucio non è più il barbiere ubriacone, ma il “padre in crisi”; Antonella non è più la finta verginella che fa impazzire i tardoni, ma la “ballerina”? Il passaggio da un concetto high (basato sulla narrazione) a uno low (basato sulla definizione) del soggetto occidentale è avvenuto circa duecento anni fa (era già compiuto con Fichte), ma la divulgazione alle masse di questo modello sta avvenendo ora, sotto i nostri occhi. Il revival etnico, la smania delle radici, il culto del farro e della cucina biologica sono le ricadute ideologiche e mercantili più evidenti di questo mutamento ontologico radicale. Se io non sono più quello che sono per quello che faccio, ma per quello che sento e per come mi rappresento di fronte agli altri, se insomma non ha più alcuna importanza raccontare chi sono, mentre diventa fondamentale definirmi (gay, skater, trans, pacifista, liberal, scrittore, artista, del Cancro), il badge “dello schermo” è comunque troppo esile per darmi sicurezza, spingendomi a barattare la mia storia personale (fatta di azioni che sul mercato delle identità non valgono più nulla) con qualche favoletta collettiva (i Celti, gli antenati, le radici). Vi è quindi un’indubitabile consonanza di fini tra reality Tv e revival etnici e localistici, dato che in entrambi i casi i soggetti sono sottratti al loro fare individuale (alienati in un modo che Marx non aveva previsto), disossati come cosce di tacchino, per essere restituiti alla macchina mediatico-produttiva nella totale convinzione che ciò che conta veramente è il “considerarsi” (mi considero un buon padre, mi considero un artista, mi considero un padano). Questa assunzione apparentemente consapevole della propria soggettività ha un effetto destabilizzante proprio in quanto sottrae al modello delle classi la propria naturalità (critica della borghesia). Ma non è in grado di sottrarre i soggetti all’alienazione da sé, dato che sostituisce le narrazioni individuali con una serie di definizioni (c’ho un trauma infantile) pescate più o meno appropriatamente dal mercato della patologia mentale. Se quindi sul piano ideologico il reality show sbugiarda la borghesia e la sua distinzione fasulla, su quello politico la deriva rischia di essere reazionaria. Appena imparano a sentirsi “nuragici in crisi”, anche i minatori sardi perdono nerbo. In un mondo in cui le domande principali non sono più: “Come arrivo a fine mese?” o “Come faccio a scoparmela/o?” ma “Chi sono io, veramente?” e “Come posso superare il mio complesso edipico?”, non rimane molto spazio per progettare (o imporre con la forza) mutamenti strutturali delle condizioni di produzione. La borghesia è in crisi, quindi. Ma non è che le classi subalterne stiano granché meglio. Vorrà dire che ci faremo sopra un bel talk show.