Gli scrittori italiani che hanno più di 50 anni sono puri carrieristi?
di Tiziano Scarpa
Vorrei commentare questa frase di Helena Janeczek pubblicata in Per Pontiggia II:
“Quelli che vengono dopo per anagrafe – Tabucchi, De Luca, Vassalli ecc. – non sembrano includere nei compiti di uno scrittore qualcosa che vada oltre allo scrivere.”
Be’, a me pare che Sebastiano Vassalli abbia fatto eccome le sue battaglie, sui giornali e fuori, per esempio il reportage in Alto Adige, il repertorio dei neologismi degli anni Ottanta e il libro recente sul carattere degli italiani. Erri De Luca andava avanti e indietro in camion, durante le guerre jugoslave, a portare aiuti. E le sue traduzioini dalla Bibbia, che piacciano o meno, sono qualcosa che in un certo senso va “oltre lo scrivere”. Antonio Tabucchi, che da qualche tempo ha preso casa a Parigi, interviene spesso in Francia sulla politica e la cultura italiana.
Ma forse Helena intendeva che tutti costoro fanno ciascuno corsa a sé. È vero. Almeno, questa è l’impressione che danno. Non sembra che gli interessi discutere, fare qualcosa insieme, né con i loro coetanei, né tantomeno con autori di altre generazioni. Questi e altri scrittori, gli scrittori maturi, gli autori blasonati della letteratura italiana, pubblicano i loro libri e stop, e forse di nascosto consultano anche loro le classifiche dei più venduti, per controllare se il loro ultimo libretto ci fa capolino. Collaborano con giornali prestigiosi, da dove praticano “l’uno contro tutti” (la sottolineatura va posta sulla parola uno): con l’understatement, la verve, ma anche la pompa magna e la postura pontificale che ciò comporta.
Per vedere una riunione di scrittori importanti di una certa età, abbiamo dovuto assistere non dico alla parodia, ma alla citazione di un congresso: mi riferisco alle recenti celebrazioni bolognesi del Gruppo 63. Per riunirsi oggi, bisogna ricordare gli usi e i costumi degli scrittori di quarant’anni fa…
Noi di Nazione Indiana lo abbiamo verificato anche quando abbiamo organizzato il convegno Scrivere sul fronte occidentale, nell’autunno del 2001. Non sto parlando affatto dei tre nominati sopra: ma in generale gli scrittori che abbiamo invitato e che si sono dimostrati diffidenti, o quanto meno disinteressati, facevano parte per l’appunto della generazione degli scrittori più che cinquantenni. Che cos’avevano da perdere? Che cosa rischiavano? Io non l’ho ancora capito.
Quanto ai rapporti fra le generazioni, sarebbe ingiusto non nominare Ricercare, la rassegna di Reggio Emilia inventata da Renato Barilli e Nanni Balestrini, che per dieci anni ha riunito critici e scrittori ad ascoltare opere inedite di autori nuovi, e non ha ancora smesso.
Ma sui rapporti personali ho anch’io un episodio da raccontare.
Il mio primo libro di racconti raccolse tre o quattro stroncature molto feroci. Allora non lo sapevo ancora che quando qualcuno si prende la briga di stroncarti ti sta dando un’attestazione di importanza. Perciò ci restai un po’ male. Poi mi arrivarono due brevi lettere. Una proprio di Giuseppe Pontiggia, l’altra di Sebastiano Vassalli. Non li avevo mai incontrati, né ci eravamo sentiti o scritti. Di persona li conobbi in seguito. Ebbene, tutti e due mi incitavano a scrollare le spalle con allegria, a non badare alle brutte recensioni, e a darci dentro nel mio lavoro. Erano affettuosi e adulti. Mi hanno dato forza. Sono stati generosi. Mi hanno comunicato che, al di là dei nostri poveri nomi, delle nostre carrierine singole di autorucoli, loro a questa cosa ci tenevano. Ci tenevano a proteggere e a far crescere nuove piante. Anche da lontano. Anche nei prati di chi non conoscevano. Ci tenevano alla difesa di questa delicatezza smodatamente orgogliosa e potente che chiamiamo letteratura.
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Condivido l’opinione di Helena e non solo perché la conosco e ne conosco il valore.
Provo a interpretare le parole “incriminate” in un senso che prescinde dai supposti “controesempi” proposti da Tiziano Scarpa: possiamo dire che gli scrittori nati all’incirca intorno agli anni ’30/’40 mostrano, non nelle loro scelte sociali, politiche o personali ma proprio nella loro scrittura, una tensione morale, diciamo così, blanda? i segni di una crisi? Al massimo si può trovare del moralismo ma la tensione morale è altro e prescinde da ogni -ismo, suffisso tipico di qualunque “mediocrazia”. Per uno scrittore ciò che conta non è ciò che fa ma “come” lo scrive e, se è animato da una forte tensione etica, questa appare, se ci sono talento e pensiero, anche nell’uso delle virgole e delle virgolette. A Pontiggia non interessava piacere o compiacere, non si rivolgeva ai gruppi, alle classi, agli agglomerati, alle categorie, alle camarille o alle nazioni, indiane o meno. Senza alzare la voce la sua scrittura entrava in ciascuno, nella sua coscienza, nel punto dove tocca il rapporto io/mondo. Ma qui si apre una questione troppo “vexata”: la scrittura “morale”, che strappa se stessa all’angoscia di vivere nella storia, è “democratica” o no?
commenti sopra commenti. d’accordo con quanto dice tiziano scarpa nel commentare l’affermazione fatta helena janeczek, commentando la morte di pontiggia, che qui ripeto: “Quelli che vengono dopo per anagrafe – Tabucchi, De Luca, Vassalli ecc. – non sembrano includere nei compiti di uno scrittore qualcosa che vada oltre allo scrivere.” probabilmente ispirata da una partecipata emozione per la scomparsa dello scrittore, rimane una frase parziale quindi ingiusta. per rivelarne cautamente la parzialità (l’ingiustizia), scarpa utilizza la via dell’esempio personale. io non conosco personalmente scarpa né janeczek, ma mi sono entrambi molto simpatici; dico: persone con cui sarebbe bello dividere le olive e il campari, credo. per questa simpatia proverò con uguale cautela a svelare, sotto la parzialità dell’affermazione della janeczek, anche la parzialità del discorso di scarpa, cercando se possibile un panorama comune di errore. ho una via personale anch’io per farlo, per provarci. quattro anni fa ho fatto un lavoro, una cosa che sta un po’ a metà tra poesia e arte concettuale, provo a raccontarla in due parole. l’idea era questa: le avanguardie di questo secolo hanno sperimentato molto, nell’arte figurativa, il ruolo del contesto nella definizione del senso, ma pochissimo in campo letterario. la sperimentazione letteraria si è perlopiù concentrata sul linguaggio, sulla forma del linguaggio in relazione al senso, dando per acuqisito che la letteratura sia quella cosa che si consuma nel privatissimo rapporto con un testo; un libro, generalmente (magari il libro lo puoi rubare, lo puoi bruciare, lo puoi tirare in testa a chi ti sta antipatico, ma al libro si è rimasti – perlopiù). per inciso: io pure credo che la letteratura e la poesia siano qualcosa di intrinsecamente legate a quel tipo di intimità, di brusio interno e di fatica, anche, che si stabilisco tra un sitema di segni grafici stampati e una mente che li decifra – e in questo senso credo poco al rapporto tra letteratura e web, ma questa è un’altra storia che ci allontanerebbe dal punto. che rimane: se la letteratura è ‘perlopiù’ quella cosa lì, che si legge sui libri, cosa è la letteratura, ‘perlomeno’. ad esempio, se io leggo una bella poesia di helena janeczek su un libro o su una rivista, oppure, quella stessa poesia, la leggo sul corpo di tiziano scarpa, davvero avrò la ‘stessa’ poesia? detto altrimenti, se la formazione del senso, per le discipline semiotiche in genere, è qualcosa che si può assimilare ad una circolarità, un ‘circolo ermeneutico’, dove i due poli di scambio sono il lettore e il testo (a cui andrebbe magari aggiuinto il paratesto), cosa succede se inserisco un elemento terzo e perturbante, sotto forma di veicolo di lettura non più neutro come il libro ma vivo e carico di segni come un corpo? la mia idea è stata dunque quella di scrivere sugli scrittori, di scrivere un libro i cui testi erano miei, ma le pagine i corpi vivi degli scrittori italiani; e proprio per sperimentare questo passaggio dalla circolarità alla triangolarità del senso. naturalmente quattro anni fa un po’ ci credevo a questi giochetti, adesso molto meno. e comunque ,concretamente, ho realizzato alcune magliette che ho poi spedito, senza preavviso, a molti scrittori italiani, di ogni età. il progetto iniziale era di arrivare a 200 (le pagine di un libro medio), anche perché avevo ottenuto una sovvenzione. poi la sovvenzione si è dimezzata e io ho interrotto il lavoro a poco meno di 100 autori antologizzati. già, perché doveva essere una antologia “sulla” letteratura italiana; dove la preposizione articolata non è indicativa del contenuto, ma del supporto. il motivo che adesso mi pare interessante rispetto a ciò che sto provando a dire, non è però quello che è venuto prima – le intenzioni teoriche -, ma dopo – gli effetti. scrivere su un corpo, sia pure per la via indiretta di una maglietta di cotone, è infatti una cosa molto intima, privata; a me, per dire, se qualcuno mi scrivesse addosso senza preavviso e permesso, mi farebbe girare un po’ le balle. credo che il meccanismo psicologico sia assimilabile a quello del salumiere che alla mattina, sulla saracinesca della bottega, ci trovi scritto con lo spray: “dio c’è”. io con le mie magliette è un po’ come se avessi scritto: “io ci sono”, sul corpo di scarpa e della janeczek. già, perché anche scarpa e la janeczek facevano parte delle botteghe su cui il mio spray si era posato furtivamente; e molti altri ancora delle loro generazione, allora tra i trenta e i quaranta. la cosa curiosa di cui volevo parlare è appunto questa: pur facendo una cosa abbastanza antipatica e intrusiva, io l’avevo messo in conto che magari qualcuno se lo sarebbe anche chiesto: questo scemo cosa accidenti sta facendo, sopra la saracinesca della mia bottega? e magari che poi sarebbero usciti con la scopa a cacciarmi via, anche questo mi sembrava possibile e ragionevole. in particolare me l’aspettavo proprio da quegli autori che, secondo scarpa, sono portatori di una rinnovata “inclusione nei compiti di uno scrittore di qualcosa che vada oltre allo scrivere” – attraverso dibattiti, conferenze, siti come questo. in realtà è successo esattamente il contrario. nessuno degli scrittori sotto i quarant’anni (ad eccezione di marco drago, per la cronaca) è sembrato interessarsi di una cosa che stava succedendo a margine della propria bottega, mentre tutti, dico tutti (ad eccezione di baricco, sempre per la cronaca)gli scrittori quarantenni, in modi diversi e a volte perfino poetici (lodoli e maggiani e de luca) mi hanno contattato per capire che stava succedendo, da dove sbucava quella vernice. lo ripeterò fino alla noia: non sto cercando assolutamente di fare una partizione tra i buoni (quelli che si fanno vivi) e i cattivi (i silenziosi); anche perché ripensando adesso a quel lavoro, mi sembra niente più che un’ingenua increspatura su quella pozzanghera triste che è la sperimentazione letteraria. l’errore di scarpa sopra l’errore della janeczek, mi sembra da ricercare altrove. quando lui menziona la natura schiva e diffidente di molti scrittori che non amano fare gruppo, discutere, riflettere collettivamente come lui sa fare e molto bene, dimentica che c’è un altro modo per “includere nei compiti di uno scrittore qualcosa che vada oltre allo scrivere”. ed è semplicemente quello di aprire la propria saracinesca, di guardare fuori dalla bottega non verso il vasto mondo – ed anche questo è importante -, ma verso il piccolo mondo dei ladri di polli. io ho rubato un cappone a scarpa e lui non se ne è accorto; un altro l’ho rubato alla janeczek e non se ne è accorta nemmeno lei. eppure scarpa e la janeczek dovrebbero saperlo bene, che due capponi sotto braccio fanno già letteratura…
buon lavoro
guido bussoli