Prendersi sul serio: la nuova eresia #2
Cos’è oggi la radicalità?
di Enrico De Vivo e Gianluca Virgilio
www.zibaldoni.it
Cos’è oggi la radicalità? Forse è da questa domanda che occorre partire per capire bene come occorra destreggiarsi nel nuovo ordine mondiale; che poi tanto nuovo non è, dal momento che ogni epoca, ogni popolo ha avuto il suo potere, più o meno invasivo, cui ha risposto appunto in questo modo, con radicalità.
Quanta radicalità, ossia quanta tensione contro il potere oppressivo, vi è in Leopardi, in Marx, in Kafka, in Proust, in Pasolini, perfino in Croce? E di che tipo di radicalità stiamo parlando?
Lo spunto ci è dato dallo scritto di Carla Benedetti, nel quale tutti siamo messi in guardia contro le subdole concessioni della modernità, che fagocitano l’altro, riservando ad esso uno spazio, una riserva indiana, entro il quale l’altro mantiene la sua alterità, ma depotenziata, resa inoffensiva, cloroformizzata. L’altro non è veramente tale se il suo principio non agisce oltre i suoi limiti, trasformando tutto ciò che gli è intorno e trasformandosi a sua volta.
Ma proprio questo principio, dice Carla Benedetti, risulta aggredito e distrutto dalla modernità; perché tutto può essere detto e professato, purché nulla abbia più il carattere dell’assolutezza e mantenga, invece, quella relatività che tanto più è ben accetta quanto meno incide realmente nel mondo. L’ironia diventa, dunque, figura della presa di distanza dalla verità, che si afferma senza convinzione, negandone lo statuto di assolutezza, e a farne le spese è la radicalità, ovvero, la vera alterità, perché, come dice Benedetti, “solo chi mantiene da qualche parte la misura dell’assoluto può avere rispetto profondo dell’altro”. Occorre, dunque, smetterla con l’ironia e cominciare ad essere veramente eretici. La conclusione: “Oggi eresia è prendersi e prendere gli altri sul serio”.
Ora, se l’analisi è inoppugnabile ed esaustiva, quel che dà da pensare, e suscita il dibattito, è la risposta alla domanda iniziale, che si ripropone in tutta la sua virulenza: che cos’è la radicalità? Un primo esempio di radicalità è rinvenibile nel modo in cui occorre procedere all’analisi della situazione attuale, senza farsi trascinare nelle menzogne che ad ogni piè sospinto trasudano dai mass media e dalla cultura televisiva in genere; capire bene le strategie del potere e le dinamiche che esso scatena nelle persone comuni come nei moderni letterati più o meno engagés.
Ma una volta effettuato questo passaggio, una volta che l’analisi ha compiuto la sua opera, che cosa fare? Quale condotta di vita questa analisi porta con sé o semplicemente suggerisce, a chi non voglia limitarsi ad uno sterile ‘contemptus mundi’, ma trovare la rotta per non perdersi nei meandri di questa modernità? Perché è certo che “prendersi sul serio e prendere gli altri sul serio” non vuol dire elevare il proprio io a misura di tutte le cose e considerare gli altri come i nostri nemici.
Esiste, secondo noi, un’unica risposta alla domanda iniziale, ed è che ognuno di noi, ciascuno nel proprio campo, agisca con la radicalità di cui è capace: il medico, rispettando le regole di Ippocrate, il politico, perseguendo sempre e comunque il bene della comunità, l’ingegnere, costruendo case abitabili e soprattutto solide. Sembra semplicissimo, ma in realtà tutto questo spesso rimane irrealizzato, o quasi.
Limitiamoci a considerare la letteratura. Dov’è oggi la radicalità nel mondo delle lettere? Come può, un letterato, oggi, scrivere tenendo fede al suo “assoluto”, alla ricerca della “verità” che gli è imposta dal suo campo d’azione, e alla quale, per dirla con Giordano Bruno, non può che “continuamente aspirare”? Ancora una volta, semplice e unica (ma non scontata) è la strada: il letterato utilizzi un linguaggio umano, e dica le cose che ha da dire senza girarci intorno, non inventi frottole, ma smascheri, con lo strumento suo proprio della scrittura, gli inganni nei quali siamo immersi nella società della comunicazione, o meglio, della menzogna globale. Quanti oggi lo fanno? Quanti non preferiscono, invece, rimanere acriticamente immersi nel mondo senza nemmeno provare a smuoverlo?
Noi con “Zibaldoni e altre meraviglie” (www.zibaldoni.it) facciamo esperienza pressoché quotidiana di quest’uso menzognero del linguaggio, cui spesso i letterati cedono per pigrizia, per pusillanimità, per infingardaggine, quando non per evidente malafede. Tanto che tra i progetti di smascheramento dei linguaggi “inumani”, come li definiamo, che la rivista intende realizzare nei prossimi tempi, rientrano i temi della scuola, della medicina, dei bambini, sui quali si sprecano impunemente le menzogne e le false tolleranze, per dirla con Carla Benedetti. Nell’ultimo numero abbiamo cominciato a trattare il tema della guerra “per il nuovo ordine del mondo”, cercando di cogliere delle voci “radicali” sull’argomento, al di là di ogni stereotipo e fasullo reportage dai luoghi dei massacri.
È possibile dire qualcosa di sincero, di puro, di non contaminato dalla logica dei mass media su questo come su altri argomenti? È ancora possibile, per i letterati, la “radicalità”? Noi, come rivista, sappiamo che avremo una funzione soltanto se riusciremo almeno a far intravedere delle risposte a queste domande, quindi se saremo eretici fino a questo punto. Non altro significa oggi per noi “prendersi e prendere gli altri sul serio”.
Immagine tratta dal sito http://www.zibaldoni.it/
_____________________________________________________
Per inserire commenti vai a “Archivi per mese – Luglio 2003”
Comments are closed.
A proposito di radicalità: parlate di “letterato” e di “scrittura”, io parlerei anche di “autore” e di “opera” (a costo di apparire anacronistico ai tardivi cantori della morte del primo e della dissoluzione della seconda nella metastasi globale della “narrazione”), tuttavia il senso è quello: radicalità, per un artista e anche per un intellettuale, significa essere se stesso, la propria indignazione (etica) e la propria tensione (estetica), il più autenticamente possibile, e rimanere fedele ad ogni costo al proprio mutevole paradigma interiore.
Dopodiché io vado in crisi nel discorso sull’ironia, perché: se uno è ironico di suo, senza essere vittima di quella strana specie di coazione all’ironia contro cui si accanisce Carla Benedetti, se insomma il suo disincanto è il prodotto di un percorso personale travagliato e magari anche doloroso, se in altre parole quanto più egli è se stesso tanto più si scopre ironico, gli si deve forse imputare una omologazione allo statu quo postmoderno e quindi cosiderarlo alla stregua di un automa da sempre e per sempre irregimentato e reso innocuo? Mah. A me pare che ci sia una bella differenza tra “fare sul serio” e “prendersi sul serio”, e so che in molti casi NON prendersi sul serio è il solo modo per di fare sul serio.
Quanto infine all’assoluto di cui tratta Carla Benedetti, rimando alla voce omonima tra le “Ventiquattro voci per un dizionario di lettere” di Franco Fortini (Ed. Est) – tanto per ricordare un “letterato” della cui straordinaria razionalità, precisione e lucidità di “scrittura” a tutt’oggi, ahimè, non vedo eredi.