La verità, vi prego, sul sesso: parlano gli uomini
di Raul Montanari
Lo so, il posto più adatto per parlare di ciò che gli uomini vogliono veramente dalle donne sarebbe un locale pieno di fumo e superalcolici. Invece siamo nel mio appartamento milanese, ordinato come un lager; sono le sette di sera e i cinque maschi presenti si sono divisi fra acqua minerale naturale e gasata. Alberto, il fotografo, fa da sesto. Prima ci mette a nostro agio dicendo: “Fate conto che io sia invisibile” (risultato: qualche minuto di pura paralisi nel gruppo), poi entra nel dibattito e parla più degli altri. Copriamo un arco di età che va dai 24 anni di Nick ai 44 miei. A proposito: abbiamo ben due Nicola. Chiameremo Nick il più giovane, studente universitario, Nicola il 43enne molto in forma che insegna filosofia. Completano la squadra Elvis, informatico 39enne, e Lorenzo, che di anni ne ha 31 e fa l’attuario (nessuno ha capito cosa vuol dire).
“Ho qui un elenco di curiosità femminili sull’eros di noi maschi, raccolte nell’arco di una vita” comincio. “Per esempio, un’ossessione tipica delle donne è che gli uomini pensino ad altro mentre fanno l’amore con loro.”
Tutti: “Ma è vero!”
Io: “Be’, ma a cosa pensiamo? A un’altra donna? O a fare cose diverse con la stessa donna?”
Prima sorpresa: pare di no! Molti citano fantasie di tipo non sessuale. “Penso praticamente a tutto,” esagera Nick, “ma è un pensare diverso dal normale, immagini che si susseguono in modo libero, irrazionale.”
Quindi, queste fantasticherie non sembrano rappresentare un “tradimento” nei confronti della partner; piuttosto una liberazione dalla razionalità eccessiva che spesso attanaglia il pensiero maschile.
“Andiamo sul pratico” incalzo io. “Quali sono le cose che ci piace farci fare a letto?”
Qui l’assemblea si divide fra gli amanti del sesso orale (Elvis e Lorenzo) e quelli del magic touch di una bella mano (io e Nicola), con integrazioni di ogni tipo in cui, alla fine, prevale il desiderio di mollare le redini, lasciarsi andare passivamente, far fare a lei.
“Perché il sesso orale piace?”
“Perché la bocca è bella.”
“Perché è bello tutto il viso.”
“Mah” dico io. “Mi sembra anche che il viso sia una sintesi dell’identità di una persona. Se io penso a me stesso, penso anzitutto alla mia testa, alla mia faccia. Quindi penetrare il viso di una donna è quasi un atto sessuale più intimo che penetrarle i genitali… è come se il vero centro del suo essere fosse il viso.”
“E’ vero” rispondono, con qualche sfumatura, gli altri. “Si crea un rapporto molto profondo, e anche perverso. E’ come sc…rla in faccia.”
“Perché noi diciamo la parola intera e vengono fuori i puntini?”
“Ehm, non fateci caso” dico io. “Dunque… la parte che ci piace di più del loro corpo?”
“Be’, il culo.”
“Decisamente!”
“Il culo è il richiamo sessuale primario” specifica Nicola. “Molto più del seno. Il seno è un oggetto infantile, fa pensare alla madre, ma il culo… Noi discendiamo dalle scimmie, che non a caso hanno le natiche rosse, in evidenza.”
“Ma se una donna chiedesse perché a molti di noi piace farlo lì?”
“E’ per un senso di potere. Lei è girata, non può fare niente… E’ solo un corpo. Viene eliminata proprio quell’identità personale del viso di cui parlavamo ora.”
“Questo però vale per qualsiasi rapporto da dietro” obietta qualcuno. “Anche se si penetra nel modo normale.”
“Diciamoci la verità” specifico io. “Spesso si comincia un rapporto penetrando davanti, e poi si passa dietro per ritrovare quella sensazione di stretto e asciutto che si aveva appena entrati, e che dopo un po’, per forza di cose, si è persa.”
“Sì, anche.”
“Passiamo ad altro. Le cose che loro dovrebbero imparare a fare meglio?”
Un plebiscito per la masturbazione.
“Le donne sono convinte di essere creature delicate,” è la sintesi del pensiero di tutti, “il cui organo genitale va studiato e trattato con cura certosina, mentre spesso hanno l’idea che noi siamo un po’ rozzi, corporei, proprio come sembra semplice e un po’ stupido il pene. Forse questo dipende dal fatto che il pene è un organo esterno, che ha quell’aria giocattolosa.”
“Risultato: sbatacchiamenti terribili!” rabbrividisce Elvis. “Stringono troppo, e vanno a una velocità tipo ‘Oggi le comiche’.”
“Dolore, ammosciamento, raccapriccio!”
“E poi, in genere, basta con l’idea che loro sono complicate e sentimentali mentre il nostro amore è solo bruta fisicità!” puntualizza Nicola.
“Be’, però che siano più sentimentali di noi è vero” dice Nick. “Certe sono proprio ossessionate dall’amore, lo tirano fuori a sproposito, ti chiamano amore a letto e ti chiedono di dire che le ami perfino quando si tratta di un incontro occasionale.”
Qui Alberto, il fotografo, osserva: “Le donne di basso livello culturale pensano ‘solo’ all’amore, perché non vedono altre prospettive di ricavare gioia dalla vita. Ascoltano canzonette d’amore, leggono romanzi rosa. Lo stesso vale per una gran massa di uomini ignoranti e volgari, che pensano solo al sesso, in continuazione, per la stessa povertà di prospettive.”
“Giusto” approva Lorenzo. “Quando una donna o un uomo hanno una visione più articolata della vita, il sesso e l’amore entrano in armonia con altre cose.”
“Quindi non è vero che noi pensiamo al sesso a tutte le ore del giorno?” rilancio io (che ci penso a tutti i minuti, essendo un uomo ignorante e volgare).
“Io sì!”
“Io no!”
“Be’, proprio sempre sempre no, però…”.
“Un’altra inquietante caratteristica femminile,” riprendo, “è questa storia che loro possano simulare l’orgasmo. A proposito, vi è mai successo che una donna simulasse l’orgasmo mentre era a letto con voi?”
“No, no” rispondono tutti in coro.
Quindi lo simulano molto bene, annoto io. “E noi, cosa simuliamo?”
“Magari esageriamo un po’ nel manifestare il piacere” rispondono quasi tutti. “Gemiamo e rantoliamo anche quando potremmo benissimo controllarci. Lo facciamo per dare più soddisfazione.”
“Io simulo una disponibilità sentimentale verso la partner, che in realtà non ho affatto” dice Lorenzo, lasciandoci ammirati per la sua perfidia. “Perché sono convinto che una donna prova e dà più piacere, se sente di avere la prospettiva di un rapporto duraturo con l’uomo che la tiene fra le braccia.”
“Per noi invece non c’è questa differenza?” chiedo. “Andare a letto con una donna che amiamo non influenza il piacere?”
“A me sì” dice Elvis, ma onestamente devo registrare che è l’unico.
“La differenza non sta nel piacere” precisa Nicola. “Piuttosto, nelle cose che ci si scambia dopo, le parole, le tenerezze. Se hai vicino a te una donna che ami, sono più intense e sincere.”
“Ora, un tema di attualità” propongo io. “E’ vero che le cosiddette donne in carriera sono sessualmente meno stimolanti delle altre? Per me lo sono di più. Mi viene voglia di infilargli una mano sotto la gonna e farle diventare meno professionali…”
“Eh, però poi a letto sono un disastro!” ribattono tutti. “Troppo nevrotiche, fanno fatica a uscire dal ruolo. Oppure, al contrario, diventano supersentimentali per compensare la dedizione al lavoro.”
“Io sono d’accordo con Raul” mi conforta Nick. “E’ eccitante vedere il lato segreto di una donna, scoprirla diversa da come si mostra in pubblico.”
“Variazione sul tema: meglio le trasgressioni, anche se la parola ormai dà il voltastomaco, o meglio il rapporto sessuale tradizionale?”
“Ma cosa sono le trasgressioni?” è la perplessità generale. “A letto puoi fare tutto, e non è nemmeno vero che certe cose speciali le puoi chiedere solo alle prostitute o alle ragazze che incontri una volta sola. Le puoi fare benissimo anche con la fidanzata o la moglie.”
“A me però le trasgressioni piacciono molto” dice Nicola. “Vedere due donne che lo fanno fra loro, per esempio…”
L’idea viene apprezzata, ma senza l’entusiasmo che si poteva immaginare.
“Vi piace che in pubblico la vostra ragazza sia vestita in modo eccitante, che attiri gli sguardi degli altri uomini? O siete gelosi?”
“No, no, che sia eccitante!”
“Tacchi a spillo.”
“Praticamente nuda! Che tutti i maschi mi invidino!”
“E soprattutto che altre donne entrino in competizione con lei e mi vedano più desiderabile, perché ho vicino una compagna così attraente!”
“Sentite,” concludo, “abbiamo parlato di quello che ci piace nel sesso. Ma voi siete convinti di sapere cosa piace veramente a loro?”
Qui succede un piccolo miracolo romantico. Mentre tutti dicono: “Ma certo! Il sesso orale non fallisce mai!”, Lorenzo – il farabutto che poco fa ci ha regalato quella perla di cinismo – ci zittisce con questa formula meravigliosa:
“Le parole giuste prima di farlo.”
Inutile aggiungere altro. Scendiamo in cortile e in un soprassalto di orgoglio maschile regressivo rubiamo il pallone a un vicino (che secondo me è a letto con sua moglie) e ci mettiamo a giocare. In capo a cinque minuti le zanzare si avventano su di noi.
Quelle che pungono sono solo le femmine, sapete. Femmine gravide, cioè che hanno appena fatto l’amore con gli zanzari maschi.
Questo vorrà dire qualcosa, immagino. Ci penserò.
Pubblicato in “Glamour”, luglio 2003
È troppo (poco)
Sono davvero allibita. Ma che cos’è questo articolo di Montanari? Come potete pubblicare una cosa del genere? Come potete inserire un pezzo come questo che lascia senza parole per la sua volgarità, pochezza e banalità (e badate che non è certo per pruderie o per sessuofobia che lo dico, anche perché questo testo non fa per niente scandalo – ammesso poi che scandalizzare sia ancora un valore in sé!). Non c’è una sola frase di questo scritto che non sia una vergogna, da un punto di vista intellettuale e letterario. Posso capire – benché lo trovi qualificante della persona – che Montanari faccia le sue “marchette” su Glamour (ci rendiamo contro di che rivista stiamo parlando? Uno dei pilastri di quel mondo di finzione e merda che questi anni portano alla ribalta), ma che voi sentiate l’esigenza di riproporlo, questo no, non riesco a capirlo. E riesco a capirlo ancor meno, dopo aver letto le parole sacrosante di Carla Benedetti sulla serietà del mestiere di scrittore e, quelle appena sotto l’articolo di Montanari, sulla necessità di abbandonare questo buttar tutto sul ridere e sull’utilizzo della scrittura come arma impropria. Ma come, prima ci dite che i vostri principi sono questi e poi ci mostrate come esempio di serietà e sovversione un testo di Montanari per Glamour? Io non riesco proprio a capacitarmi. Mi sembrerebbe giusto che spiegaste ai vostri lettori (non credo di essere l’unica – come mi ha confermato vedere dalle risposte all’altro vergognoso testo/recensione sul film di Giordana) cosa giustifica una scelta del genere e cosa trovate di sovversivo e importante in un testo come questo. Almeno lei, Carla, dica qualcosa! O anche lei è d’accordo?
Pochezza? Banalità?
Ma stiamo scherzando?!
L’unica cosa che trovo scandalosa è che, come al solito, sia una donna a dire che un brano così sul sesso sia volgare.
Trovo bello questo articolo di Montanari.
E trovo splendida anche la cover di Scarpa sulla festa della mamma
(se andate a guardare la ritrovate… e non aspettatevi niente di romantico! Solo la nuda, sincera, bruciante verità sui rapporti umani!)
Gentile Anna Corti, grazie del commento. Non sia massimalista. Se non le è piaciuto il pezzo, benissimo. Ma non tiri dentro tutto nei suoi furori moralistici. L’articolo di Raul è bello. Non compare qui come esempio di “serietà e sovversione”. Questa è una sua deduzione indebita. E’ il punto di vista sul sesso di Raul Montanari e di alcuni suoi amici maschi. Aspettiamo il suo, se ha voglia e coraggio di dircelo. Una precisazione: Nazione Indiana non pubblica in seguito a decisioni collettive, ma su responsabilità individuale. Il pezzo a me è piaciuto e ho chiesto il permesso a Raul Montanari di metterlo in rete; perciò il suo plurale onnicomprensivo (“come potete pubblicare una cosa del genere”) non ha ragion d’essere. Infatti Nazione Indiana, grazie a dio, non ha comitati di redazione né Savonarola che decidono che cosa è degno di essere pubblicato e cosa no. Ci fidiamo reciprocamente e mettiamo in rete ciò che ci pare, ciascuno in totale autonomia. Se lei non gradisce è la benvenuta nel dircelo, ma per favore si risparmi le lezioni di coerenza. Noi, non solo qui dentro, ci impegniamo tanto e doniamo molto, con gioia, e sappiamo apprezzare i doni e le gioie altrui. Fate altrettanto anche voi. Buon agosto a tutti
Sono davvero allibita. Ma, signora Corti, dove starebbe tutto ‘sto scandalo nell’articolo di Montanari? Sinceramente, io sono solo un po’ delusa. La verità sul sesso scritta dagli uomini è tutta qui? Il sesso è l’argomento più difficile su cui scrivere e Montanari ha cercato una sua leggerezza, anche se mi sembra che sia tutto sommato rimasto un po’ in imbarazzo e che l’abbia trovata solo nel finale, con il sesso delle zanzare…Ma mi posso sbagliare. Tutto qui.
Mi stupisce sapere quanto semplici e piuttosto elementari siano i
pensieri di cinque uomini sul mondo femminile. La differenza di età, di
esperienza di vita tra loro, non sembra evidenziare nessuna posizione
differente all’interno del gruppo, sono sostanzialmente tutti d’acordo,
tutti omologati su preferenze e gusti. Se da una parte mi può far
sorridere la fantasia maschile di questo sparuto gruppo, dall’altra mi
annoia la scarsa rilevanza della maggior parte delle loro
considerazioni.
Probabilmente per scrivere non bisogna sempre avere un gran che da dire.
Randy
Cari tutti, leggere le vostre risposte alla mia lettera indignata, mi ha aiutato a capire qual è il punto della questione. Tutti voi avete letto il mio sfogo come il rimprovero di una vecchia signora che si lascia ancora scandalizzare da cazzi, pompini e inculate. Non è proprio questo il caso, però. Quello che cercavo di dire era tutt’altro. Io, se leggete attentamente, parlavo di “volgarità”, ma anche e soprattutto di “pochezza e banalità”, aggiungendo che il pezzo di Montanari “non fa per niente scandalo”. Quindi non ero per nulla scandalizzata per la confessione dei desideri sessuali di Montanari e i suoi amici. Molto più semplicemente e seriamente chiedevo conto della pochezza intellettuale e letteraria di un testo come quello di Montanari. Come dice giustamente “caracaterina”, il sesso è argomento difficile su cui scrivere. Quello che rimproveravo a Montanari e a Scarpa (che mi dovrà concedere che il testo era “posted by redazione”) era appunto la “leggerezza” di questo testo. Un leggerezza che è esattamente quella che poche righe più sotto, con grande senso del tempo, denunciava Carla Benedetti. Perché per parlare di sesso si dovrebbe utilizzare quel linguaggio, quella scrittura, quella ironia sottolineata a ogni pie’ sospinto? Vi pare che Proust, per parlare di sesso, abbia scritto in quel modo (non mi si risponda che i tempi sono cambiati e che non si può scrivere come Proust, perché gli esempi si potrebbero moltiplicare all’infinito e fino ai nostri giorni, Carver potrebbe essere uno)? La risposta di Scarpa – sul finale molto più moralistica della mia (“Noi, non solo qui dentro, ci impegnamo tanto…”: chi si loda si imbroda) – non coglie affatto il senso della mia critica, credendo che il punto di una critica sul modo di scrivere possa risolversi in una questione di coraggio, di essere capaci di mettere in piazza i proprio segreti e desideri. Ma lei, Scarpa, pensa davvero che per dire di aver fatto letteratura sia necessario (e soprattutto, sufficiente) avere il coraggio di dire qual è la propria sessualità, usando nome e cognome? Io credo che lei si sbagli. Le letteratura è grande proprio quando sa astrarre dal piccolo io individuale, quando lo sa trasfigurare in qualcosa di molto più grande e complesso. Sade è grande non perché ci dice quali siano le sue “perversioni” o perché ci parla della sua sessualità, ma perché tramite un eccesso di scrittura apre su un eccesso di esistenza. Le pare che del testo di Montanari si possa dire anche lontanamente che fa una cosa del genere? Io non credo. Credo che il testo di Montanari sia solo un testo perfetto per la rubrica sul sesso di Glamour, con il suo linguaggio e la sua scrittura furbetta, che ammicca al lettore, e i suoi vezzi di leggerezza e cameratismo giovanil-mucciniano. Caro Scarpa, non faccia l’ingenuo e non mi risponda con banalità: è ovvio che ognuno è libero di scrivere ciò che vuole e di pubblicare ciò che ritiene opportuno. Ma è altrettanto ovvio che chi scrive deve essere in grado di assumersi la responsabilità di ciò che scrive e chi pubblica di ciò che pubblica. E deve anche saper non trattare i propri lettori come degli imbecilli, repressi. Io non sono un Savonarola, anche perché non decido nulla (è lei che decide, non inverta le parti). Io sono una donna che dalla letteratura e dalla vita si aspetta molto di più di quello che un testo come quello di Montanari dà. Proust, Auden (a cui fa il verso il titolo) o Carver mi parlano del sesso o, come scrive Valentina, “della nuda, sincera, bruciante verità sui rapporti umani”. I loro testi, come quelli di molti altri, mi mostrano una scrittura che sa spalancare gli eccessi e gli abissi della sessualità, quelli mentali e quelli fisici. Il testo di Montanari mi parla di glamour e di un certo mondo – sottolineo un certo, non tutto – dei nostri tempi. Ognuno sceglie cosa pubblicare e che mondo mostrare. Complimenti per la scelta.
Beh, magari l’articolo di Montanari non è all’altezza di Proust o Sade ma un pochino di livore, Anna, nelle tue parole c’era. E poi sul moralismo di Scarpa, lasciamo stare, lui non ci guadagna una mazza a scrivere sul blog è solo tempo che sottrae alla scrittura (remunerata), quindi minimo bisognerà ringraziarlo. Io mi ricordo Scarpa che alla tv mostrava la copertina dei Canti del Caos, in fondo chi glielo faceva fare, poteva anche usare quei 5 minuti per dire sono bello sono bravo, dai in fondo è un guaglione che ci crede.
Il fatto è che Nazione Indiana, a voler dirla tutta, sguazza in un non piccolo mare di contraddizioni, che emergono non solo nelle scritture inutili di Montanari, ma anche in altri comportamenti, dichiarazioni, teoresi, testi di altri suoi componenti. Per cui:
1. Come giustamente fa notare Anna Corti, la presunta “libertà” sventolata da Scarpa è, come tutte le presunte libertà, una gabbia collettiva ancor più solida e perniciosa delle regolatissime atmosfere editoriali tipiche: riviste, case editrici, etc.
2. Lo stile di Montanari è esattamente quello che il mercato vuole, e coincide con quello che la signora Benedetti si affretta a voler demolire giorno per giorno senza farci capire perché, cioè in cambio di che cosa o per che cosa.
3. L’ironia, alla fine, è appunto questa superficialità diffusa (molto postmoderna), ineludibile e ineluttabile (come mostra il comportamento “involontario” di Scarpa nel pubblicare le cazzate di Monatanari), che rende vendibile la scrittura e il pensiero. Anche, appunto, la scrittura e il pensiero – molto alleggeriti, purgati e “raggruppati” – che circolano in Nazione Indiana.
4. Se è questo tipo di “Autori” e di “Comunità” che auspica la Benedetti, be’, poteva dirlo subito, avremmo cambiato canale già da un pezzo. Anche perché non credo ci sia bisogno di “autori alternativi”, ma semplicemente di autori leggibili e motivati alla letteratura, non all’ironia dell’attualità.
Gustavo P.
Più che altro io qui ci vedo un “Autore Autorizzato” alla “fuffa” e al “cazzeggio” , inteso quest’ultimo non solo come “dolore” da “sbatacchiamento” ma anche e soprattutto come “gioia di vivere” da “magic touch” .
Insomma, la chiave di volta è “Liala” , una ex di scarpa che oltre la “soglia” del blog adora prenderlo in culo e farsi sc….re la faccia. Eccome darle torto.
Ma il problema è un altro. Il problema è che una bocca e un culo ce li hanno tutti o quasi, quindi anche i maschi.
Il che significa, prima di tutto, che sono i desideri di immortalità di bocca e culo a determinare la voce dell’io (scarpa inglese) e quindi la spartizione del capitale simbolico. Poi che il pezzo di raul ratzinger montanari intitolato “la verità vi prego sul sesso, parlano gli uomini” è un pezzo femminista e fortemente discriminatorio nei confronti dei maschi proprio ricettivi. E infine che nazione indiana è un blob omofobico gestito mica tanto segretamente dal Vaticano, “che ride” (benedetti).
IL CIOCCOLATAIO GENEROSO
C’era una volta una nota pasticceria, “Tiziano & Co.”. La sua specialità era il ciccolato. La guida dei pasticceri, dove scriveva un quotatissimo critico, riportava che in quel luogo libero e impegnato si poteva trovare un cioccolato puro e del tutto diverso da quello che c’era sul mercato: niente additivi, niente coloranti né aromatizzanti. Solo roba genuina, prodotti autentici e puri. Per di più solo in quella pasticceria tutto ciò era gratis, generosamente offerto, “donato”, diceva il buon Tiziano, ai clienti che amavano il buon ciccolato. I clienti arrivarono fiduciosi e curiosi. Ma ad attenderli una sgradita sorpresa. Il cioccolato era in verità merda. Ma non era solo merda, era merda di plastica, merda glamour, per gente di tendenza. Un vero scherzo di carnevale, ma di vera arte carnascialesca, creativa e ironica. I clienti, stupiti e sentendosi un po’ presi per il culo (anche dalla guida del famoso critico), si incazzarono, dicendo che del fatto che tutto quel ben di dio fosse gratis non gliene fregava assolutamente un cazzo, e che quando si fa il pasticcere o lo si fa sul serio, sempre, o non lo si fa: non è che ai clienti a cui si serve gratuitamente, si rifila la merda o il cioccolato andato a male, mentre magari agli altri, agli odiati mediatori delle multinazionali alimentari, si rifila qualcosa di un po’ meglio (?). Il buon Tiziano non capisce e si indigna. “Ma come, brutti stronzi, oh scusate, amati clienti, con tutta la fatica che facciamo e con tutti i soldini che perdiamo per darvi questi merlottini di plastica, voi pure vi permettete di dirci che non siamo coerenti? Qui noi siamo liberi, qui ognuno fa ciò che vuole. Se la guida del famoso critico scrive certe cose, non è mica detto che siano vere anche per la nostra pasticceria. Lui scrive in generale contro il cioccolato di plastica, ma poi ognuno può fare ciò che vuole. Fascisti, cosa volete? Il cioccolato, almeno quello gratis, noi lo facciamo così, ironico e leggero.” Un bambino da dietro il banco, deluso più di tutti gli altri, dice: “il ciccolato se lo getti nell’acqua va a fondo. Gli stronzi restano sempre a galla”.
Cara Benedetti,
ho lasciato passare qualche settimana prima di risponderle perché avevo bisogno di lasciar passar dell’acqua sotto i ponti e di non rispondere sotto la spinta del sentimento. La sua lettera infatti è stata per me estremamente offensiva, per diverse ragioni. Io le chiedevo conto di un modo di intendere la critica e del modo in cui il blog era gestito. Lei, rispondendo solo in parte alle mie domande, ha ritenuto di spostare la questione sul personale, arrivando a rispondermi di fare io quel che pensavo andasse fatto. La sua risposta alle mie domande e che io dovrei fare il critico letterario? Ma lei sa che lavoro faccio io? Io faccio tutt’altro (e un altro molto poco gradevole): non ho né la capacità né la competenza per poter fare il critico. La sua risposta, anche dopo averla riletta più volte, mi ha offeso, perché è stato come dirmi: se tu non sei capace di farlo, stai zitto e non permetterti di criticarmi (aggiungo solo che di questi tempi dare del kapò nazista a qualcuno solo perché si permette di criticare il proprio modo di procedere suona davvero male…). Il solo modo che ho io di partecipare alla costruzione della collettività che manca – per seguire la sua suggestione – è dire quel che mi sembra che non vada, cercando di stimolare una discussione; chiedendo conto di quello che fa chi ha le capacità di fare; chiedendo spiegazioni e risposte.
Devo anche dirle che io sono rimasto stupito di come tutta la questione sollevata da me e, meglio di me, da altri sul tema della comunità sia caduta letteralmente nel vuoto, quasi si trattasse di un problema privato di tre lettori psicopatici (ma allora perché avete pubblicato sulla home page il testo di due dei tre, per poi decidere che non valeva più la pena dare una risposta al seguito che articolava la discussione e apriva nuovi possibilità di approfondimento?). Mi stupisce molto, poiché come le avevo già scritto in una lettera precedente per me la responsabilità impone in primo luogo di rispondere sempre a chiunque ci si rivolga (In questo la lettera della Janeczeck su Pontiggia mi ha molto colpito: sa cosa deve aver significato per un uomo impeganto come quello rispondere sempre a tutti? Sa quante volte si sarà detto: questo che scocciatore? Per me, già solo questo, è un gesto che rende l’uomo degno di grande rispetto. Anche Levinas ha sempre risposto ad ogni singola lettera e ingiunzione, dei grandi come dei signor nessuno come me.). Non è una questione di buona educazione, ne va del senso stesso del dialogo tra esseri umani, della responsabilità infinita che ognuno di noi ha verso la parola degli altri. Chi non si assume la responsabilità della risposta – e sottolineo pubblica quando la domanda è pubblica – fallisce la cosa più importante: la capacità di saper instaurare dei dialoghi che vadano al di là dell’eco riconoscente.
Il silenzio dei mebri del blog mi stupisce ancora di più perché, come ho potuto leggere in queste settimane, seppur in forme e con posizioni sfumate e differenziate, le questioni che io ponevo tornano in diverse lettere e commenti ai pezzi che sono apparsi. Direi, anzi, che molti dei commenti richiedono dei chiarimenti sull’insieme del blog, sulle sue scelte, la sua coerenza interna, le alternative che esso prospetta, ecc. Anche in questo caso, le risposte – quando ci sono state – sono state generiche e ad personam. La situazione mi ricorda un po’ quella delle classi dirigenti di alcuni partiti di maggioranza e di opposizione che, davanti alla contestazione evidente della base, si appellano alla maggioranza silenziosa, interpretando ovviamente il silenzio come un consenso al proprio operato.
Io penso, come credo lo pensino tutti i lettori che hanno scritto pubblicamente senza ricevere risposte pubbliche (non mi riferisco, ovviamente, a chi usa l’insulto come modo di interloquire), che si debba maggior rispetto verso chi si rivolge a voi e chiede spiegazioni sul vostro modo di operare. Poi, certo, ognuno è libero di fare ciò che vuole. Per quel che mi riguarda io continuerò a domandare quando non capisco, a criticare quando non condivido e a rispondere pubblicamente anche a chi non è d’accordo con me. Cordialmente
Caro Marco Rizzi,
credo che lei sia vittima di un modo di pensare errato e involontariamente arrogante. Perciò le rispondo di nuovo, sperando di indurla a riflettere.
Prenda un pensatore del passato. Prenda mettiamo un Deleuze: non so se a lei interessa, ma certo si tratta di un pensatore considerato da molti importante. Deleuze ha scritto anche di letteratura, di arte, e ha scritto anche su artisti contemporanei. Per esempio ha scritto un libro su Carmelo Bene.
Se Deleuze oggi fosse vivo e collaborasse a una rivista on-line, lei gli chiederebbe le cose che pretende da me?
Non voglio paragonarmi a Deleuze per la qualità del mio lavoro, e nemmeno per metodo di pensiero. Ma non vedo perché lei non dovrebbe avere per il mio lavoro lo stesso tipo di rispetto. Mi è capitato di attraversare la letteratura ma all’interno di un tragitto più vasto, che forse lei ignora. Ho delle idee sul mondo contemporaneo, alcune le ho già espresse, altre le sto sviluppando. La sua pretesa di dirmi cosa dovrei fare e scrivere è ridicola. Ed è anche arrogante.
Lei avrà letto, così mi pare di capire, uno dei miei libri su cui, senza mia volontà, e anzi subendola come una “parodizzazione”, si è fatta molta polemica. E allora mi rubrica come autrice di libri polemici! Non solo, ma addirittura mi viene a dire cosa dovrei scrivere e di cosa dovrei parlare! Lei evidentemente sa meglio di me, cosa dovrei fare? Lei ha deciso per me qual è il mio compito come intellettuale?
Forse non si rende conto di quanta arroganza c’è in questo. E allora pensi che queste cose le chiedono i regimi: devi parlare di questo, occuparti di quest’altro! Devi mostrare le cose positive, il realismo socialista, i valori del proletariato, la superiorità della razza ariana…
Ognuno ha il suo progetto e il suo modo di esprimerlo, e lei che parla in mome dei valori che secondo lei io avrei calpestato (solo perché le ho riposto due volte privatamente invece che pubblicamente) non si rende conto che non sa neanche rispettare le vie e i tempi del lavoro altrui. Non sa tollerare che qualcuno abbia un progetto diverso da quello che lei si aspetta.
Io non sono il critico letterario che lei ha in mente. Non mi riconosco in quella figura di intellettuale che lei ha scelto per me, e che consisterebbe nel fare una cernita della scrittura letteraria contemporanea per dire ciò che è buono e ciò che non lo è. Non solo non mi riconosco in questo, ma lo considero una parodizzazione della figura del critico letterario (come del resto ho scritto nel “Tradimento dei critici”, che forse lei non ha letto, o ha letto velocemente, altrimenti non mi chiederebbe di fare proprio ciò che critico come la caricatura della critica letteraria).
Sa quante volte un giornalista mi ha telefonato per farmi dire i nomi, o i titoli, per poi farne uno di quegli articoli scemi dei pareri incrociati, o delle pagelline coi voti, o dei consigli per gli acquisti per l’estate? “Ci dica quali sono secondo lei gli scrittori più interessanti oggi. Quali libri consiglia di portare in vacanza”. Mi sono sempre rifiutata. Dare i nomi non è un atto critico. E’ la parodia della critica. Se voglio parlare bene di un’opera mi ci confronto seriamente, ci scrivo un saggio. Credo che la critica sia attraversare in profondità il lavoro altrui. Questo è il mio stile di lavoro. Perché dovrei derogare a ciò per le bizze (scusi se glielo dico, ma a me paiono tali) di un lettore di Nazione Indiana?
Lei mi incita a mostrare cose in positivo. Ma in questo, mi scusi ancora, oltre che arroganza, c’è anche molta semplificazione. Anche da un punto di vista filosofico, io sono convinta che non c’è costruzione senza distruzione dei pensieri falsi, dei cliché, e degli errori. La maggiornaza dei filosofi ha proceduto costruendo sulla distruzione delle ideologie e delle “idee ricevute”. Persino Proust cominciò la “Recherche” a partire da un “Contre Sainte-Beuve”.
E poi in ciò che dice c’è anche ignornaza. Io non credo di fare solo discorsi in negativo. Lei pretende di conoscere tutto il mio lavoro senza averlo letto.
Infine, cos’è questa pretesa di volere vedere il dibattito dispiegarsi in una settimana, al meglio, con tutti le voci presenti, che si arricchiscono a vicenda (per di più nell’ultima settimana di luglio, quando molti collaboratori di Nazione Indiana sono in ferie)? Ma non si accorge che anche questa sua pretesa è una caricatura? Lei vuole che noi facciamo crescere in un battibaleno quella collettività che non c’è (e a cui stiamo nel nostro piccolo lavorando), con tempi televisivi!
Cos’è questa impazienza? Non siamo mica una trasmissione con il pubblico che interviene in diretta telefonica! E’ ridicolo tutto ciò. Vuole lo spettacolo e subito? Può cercarlo da altre parti. Qui abbiamo tempi più lunghi. Magari non combineremo niente, ma almeno ci lasci provare, con i tempi e le modalità che decidiamo noi.
Non abbiamo i vincoli dell’auditel. Non è questo che ci interessa. E poi, questo lo dico a lei come anche a Anna Corti e a altri lettori, qui siamo in dodici a scrivere e ognuno si prende la responsabilità di ciò che pubblica. Se questa regola che ci siamo dati non vi piace, non siete obbligati a leggerci.
La pregherei perciò di dare lei il buon esempio. La smetta di scrivere lagnanze per disservizio. Non siamo mica un servizio pubblico di erogazione del gas! Scriva lei qualcosa di positivo, di propositivo, qualcosa di dialogante, cioè parli, anche in maniera molto critica, ma di cose, di idee, di problemi, di opere, invece di mettere solo lagnanze da utente insoddisfatto.
Non so gli altri collaboratori di Nazione Indiana, ma io rifiuto totalmente questo ruolo in cui lei, forse senza neanche rendersene conto, vorrebbe confinarmi: quello di un erogatore di servizi che tratta con i lettori come se fossero utenti da soddisfare o da compiacere.
Non so davvero se se ne rende conto, ma i suoi commenti su Nazione Indiana sono l’esatto contrario di quella collettività e di quel dialogo che lei a parole esalta.
Buone vacanze
Carla Benedetti
Non argomento. Dichiaratamente e volutamente. Esprimo solo una mozione di affetti. Per quel che conta, solidarietà a Marco Rizzi e tanta, tanta tristezza. Accuse gratuite di arroganza, fraintendimenti ciecamente considerati prove di lucidità critica, autoreferenzialità, torri d’avorio piantate nella sabbia, intelligenza superba in varie accezioni. Ma resto convinta che il “malinteso” sia la condizione imprescindibile dell’incontro con l’Altro, con l’irriducibilità. Ma continuerò a leggere, domandare, criticare. Non conosco alternative se non la fuga e l’esilio.
C’è un pezzo di Nori, negli scarti, una scena con un importantissimo studioso di letteratura russo e la moglie (il nome non lo ricordo), sono a letto, allora la moglie gli chiede se il libro che legge è bello e lui risponde, La struttura del capitolo terzo rispecchia il movimento storico della dialettica…e la moglie gli fa, Sì ma il libro è bello o brutto? e il critico, La dialettica delle forze in campo spinge l’autore…e la moglie ancora, Ma lo leggo o no? e il critico, Il raccordo tra i quadri della scena ripercorre l’evidente congiuntura delle rimozioni…e così via insomma (non ho il libro sotto e ho inventato un po’ il dialogo), quindi a me pare di essere a letto con Carla Benedetti e di chiederle ad esempio se Sebaste è bravo e lei che mi risponde, Nel mio lavoro sull’autorialità l’implosione dell’ego creatore frantuma il divenire del creante nell’accelerazione…Sì ma Sebaste è bravo o no?
E allora Rizzi forse è il caso di mandare a kagare i profi universitari, come già fece il santissimo Zappa, e cominciare a darsi da fare perché circoli ‘sta benedetta letteratura. Un giorno magari ti capiterà di finire in un libro di Carla, Il nostro Rizzi va orbene comparato al Bacon Deleuziano pittore di forze in campo…il nostro Rizzi nella sua antifigurazione ci rimanda…
Marco devi avere fiducia sulle tue capacità, già Piergiorgio Paterlini ha elogiato un certo modo geniale di essere dilettanti, e prima di lui Alberto Savinio.
Cari Enrico De Vivo e Gianluca Virgilio,
ho letto con attenzione i vostri commenti, fatto tesoro, aperto file mentali da riempire per il futuro….
Ma vi rendete conto che quando avete mandato il vostro primo commento era già luglio inoltrato, e ora è ormai agosto, periodo di ferie anche per i collaboratori di Nazione Indiana? Cos’è questa pretesa di volere vedere il dibattito dispiegarsi al meglio, con tutti le voci presenti, che si arricchiscono a vicenda, in una settimana, per di più nell’ultima settimana di luglio?
Ho già detto queste cose a Marco Rizzo, in un commento che ho inserito in Nazione Indiana, e che qui vi riporto in parte:
“Vuole che facciamo crescere in un battibaleno quella collettività che non
c’è (e a cui stiamo nel nostro piccolo lavorando), con tempi televisivi?
Cos’è questa impazienza? Non siamo mica una trasmissione con il pubblico che interviene in diretta telefonica! E’ ridicolo tutto ciò. Vuole lo spettacolo e subito? Può cercarlo da altre parti. Qui abbiamo tempi più lunghi. Magari non combineremo niente, ma almeno ci lasci provare, con i tempi e le modalità che ci siamo scelti”.
E poi soprattutto mi pare che chi scrive commenti nel sito lo faccia quasi sempre mettendosi in un ruolo passivo, quello dello spettatore che sta
seduto in poltrona a guardare i programmi…Invece di contribuire con
idee, proposte, riflessioni, si lagna di ciò che nel sito manca, di ciò che a sua detta si dovrebbe fare e non si fa.
Non so che cosa succede sul vostro blog, ma su Nazione Indiana non ho mai trovato, tranne in rari casi (tra cui il vostro), dei commenti che
contribuissero davvero a un qualsiasi dibattito. Per lo più sberleffi rancorosi, ricerca del pretesto per aggredire i collaboratori, e poi
un’incredibile quantità di lagnanze per disservizio, quasi fossimo, non una
rivista o uno spazio di discussione, ma appunto un servizio pubblico di erogazione del gas!
Nessuno che parli mai di cose, di idee, di problemi, di opere. Nessuno che faccia delle obiezioni severe ma vere, nel merito di cose, argomenti, idee.
C’è qualcosa di distorto in questa comunicazione che il blog apre, non so dire cosa , ci devo pensare meglio. C’è tanto narcisismo infelice,
dispiegato in maniera cattiva, nessun rispetto per la differenza, per l’impegno altrui, ma solo ricerca continua del pretesto per aggredire, per
prendere in castagna l’altro, per denigrarlo…..
Cosa ne pensate voi, in base alla vostra sperienza di “Zibaldoni e altre meraviglie”?
Un cordiale saluto
Carla Benedetti
Gentile Carla Benedetti,
penso che gli “sberleffi rancorosi” nella Sua visione del reale siano da attribuire in parte a me. Però rileggendo i miei post ci ho trovato parecchi nomi: Sergio Ponchione-fumettaro, Jean Dubuffet-pittore e teorico, Sebaste-scrittore poco cagato, Nori-scrittore spesso frainteso, Zappa-autore di musica sinfonica, Chantal Montellier-fumettara di Métal Hurlant, Bernad Pivot-conduttore di Apostrophes. Rileggendoli mi è venuto in mente che non sono “sberleffi rancorosi” ma proprio proposte. Certo, se Lei accetta un solo modo di esprimere le idee, cioè la lingua stordita con cui si comunica nelle università, io allora zio fà sono veramente da cancellare. Poi non ha nemmeno risposto alla mia domanda sui mediatori.
E c’è un altro problema: come facciamo noi indiani-sfigati per esempio a segnalare un bellissimo libro o opera d’arte se ci è dato solo di commentare gli articoli postati dai redattori? Dateci uno spazio che non sia per forza legato ai vostri articoli.
cordiali saluti
“La sua pretesa di dirmi cosa dovrei fare e scrivere è ridicola. Ed è anche arrogante…
Forse non si rende conto di quanta arroganza c’è in questo…
…non si rende conto che non sa neanche rispettare le vie e i tempi del lavoro altrui. Non sa tollerare che qualcuno abbia un progetto diverso da quello che lei si aspetta…
Lei mi incita a mostrare cose in positivo. Ma in questo, mi scusi ancora, oltre che arroganza, c’è anche molta semplificazione…
E poi in ciò che dice c’è anche ignornaza…
Se questa regola che ci siamo dati non vi piace, non siete obbligati a leggerci…
Non so davvero se se ne rende conto, ma i suoi commenti su Nazione Indiana sono l’esatto contrario di quella collettività e di quel dialogo che lei a parole esalta.” C. Benedetti v. infra
“(…) l’intellettuale può sentirsi ‘a suo agio’ nella sottosocietà, come non si sente nella società vera e propria, e allo stesso tempo può essere in grado di mantenere soggettivamente le sue concezioni devianti, che la società annichilisce, perché nel suo gruppo ci sono altri che le considerano realtà. Egli si creerà allora vari procedimenti per proteggere la precaria realtà della sottosocietà dalle minacce di annichilazione che vengono dall’esterno. (…) In pratica il procedimento più importante sarà la limitazione di tutte le relazioni significative ai membri della sottosocietà. Chi è estraneo a essa viene evitato perché incarna sempre la minaccia di annichilazione. La setta religiosa può essere presa a prototipo delle società di questo genere.” Da P.L.Berger e T. Luckmann, La realtà come costruzione sociale, Il Mulino 1969, pp 175-176.
Gentile Benedetti,
c’è qualcosa di dolcemente disarmante nel suo modo di rispondere a chi le chiede conto del suo modus operandi. Le assicuro, leggere le sue risposte lascia di stucco. Lei copia e incolla se stessa, in una sorta di frenesia autocitatoria ( nella sua risposta a Ricci gli dà ancora del kapò, senza far riferimento in alcun modo alla sarcastica battuta che lui le fa, non avrà forse incollato anche la lettera a cui lui si riferisci: rispondendo quindi con una lettera precedente? Sarebbe veramente il colmo…). Ho trovato molto giusto l’esempio del critico russo a letto con la moglie. Lei, professor Benedetti, non ascolta ciò che gli altri le dicono. Continua diritta sulla sua strada, come se l’altro non avesse detto nulla. Cerca appigli per attaccare, tralasciando le cose importanti. Trova il tempo per scrivere lettere lunghissime e articolatissime a Ricci e ai redattori di Zibaldone, ma non accenna nemmeno una risposta alle questione sollevate dalle loro lettere. Risponde, invece, come se fosse una scusa di ferro, che “molti collaboratori di Nazione Indiana sono in ferie” (molti non sono tutti. Ma di risposta non ce n’è neanche una. Nessuno si era mai posto questa domanda? È una cosa così inaspettata che richiede mesi e mesi per una risposta? Vedremo poi se risposta arriverà mai.). Lei risponde invece che gli scrittori vanno in “ferie”. Vanno in “ferie”? Direi che in ferie vanno gli impiegati dell’azienda del gas, che le piace tanto citare. Gli scrittori scrivono anche in ferie. Stende poi un imbarazzante no–comment sul testo di Montanari, evitando ancora una volta il merito della questione (l’opera) per buttarsi su una questione metodologica e astratta di scelta. Infine, la chiusa dei suoi discorsi, il suo punto forte, è che i lettori crticano e non propongono, non costruiscono la nazione indiana. A questo due obiezioni, non so se creative o meno. La prima chiamiamola tautologica: i lettori leggono, gli autori scrivono; i lettori, da che mondo è mondo, dimostrano il proprio consenso o dissenso tramite le lettere alla redazione, e non scrivono la rivista (la inviterei a notare che le lettere favorevoli all’operato degli autori sono pochissime). Ma se così non è – veniamo alla seconda obiezione – e Nazione Indiana vuole che i lettori siano attivi, allora deve dar loro spazio, uno spazio uguale a quello degli autori, e non istituirsi come una nuova classe di mediatori che sceglie cosa può essere pubblicato e cosa no. Cara Benedetti, delle due l’una. Tutti i grandi rivoluzionari, quando hanno preso il potere, hanno dimostrato di che pasta erano fatti e se il loro rivoltarsi era solo il tentativo di avere il potere nelle proprie mani, di trasformarlo cioè in un nuovo potere costituito, o se invece erano interessati ad un eterno potere costituente. Se la vostra idea è quest’ultima, allora nel modo di gestire il blog c’è – mi scusi se faccio come lei – forse involontariamente qualcosa che non va. Il potere non si esercita più tra di voi, ma è evidente sul sottogruppo dei lettori (che voi volete attivi e passivi, contemporaneamente). E i lettori, mi creda, se ne accorgono. E se lei imparasse ad ascoltare, se ne accorgerebbe anche lei.
Cara Carla,
vedo che mi rispondi brevemente con una frase ambigua che non entra nel merito della questione, ma rinvia solo a una responsabilità di Scarpa per la sua scelta. Ora, dopo la risposta di Scarpa (a cui ricordavo che il pezzo era “posted by redazione”), mi è chiaro che non sei certo tu la responsabile della scelta del pezzo vergognoso di Montanari. Devo dirti però – mi scuserai il tu, ma il fatto di essere coetanee me lo rende naturale – che io mi vergognerei a scrivere in una rivista (anche tu definisci così il blog) in cui appare un articolo come quello. Non sto dicendo che tu ti debba vergognare, dico che io mi vergognerei. Sì, mi vergognerei perché trovo giusta la frase di Luttazzi che tu hai ritenuto di riportare e su L’Espresso e qui su Nazione Indiana: “D’Alema: “Dovrei dire di no a Canale 5 se mi chiede un’intervista?”. Luttazzi: “Naturale che dovresti dire di no. Smettete di andare nei loro talk show, date un segno”. Ecco, l’articolo di Montanari, con sbandierata la sua fonte (Glamour), mi sembra rientrare nella stessa logica. Come quando D’Alema va al Maurizio Costanzo Show e si adatta ad un modo di comunicare, di pensare lo spazio politico e pubblico della discussione, così il testo di Montanari è il corrispettivo in letteratura. In questo ha ragione Gustavo P., il testo di Montanari è esattamente quello che il mercato vuole: l’ironia spalmata e patinata. Io non so se tu non te ne renda conto o se pensi che è un compromesso da accettare se si vuol cercare di costruire qualcosa. Ma come si fa a costruire qualcosa di diverso con gli stessi materiali del nemico? Quel testo di Montanari è proprio ciò che tu attacchi nel tuo articolo. E probabilmente Scarpa che ha ritenuto di metterlo subito dopo il tuo o non se ne rende assolutamente conto o lo ha fatto apposta (la prima ipotesi è molto più grave). In ogni caso, il risultato finale, per noi lettori, è quello di un correntone democristiano dove c’è spazio per tutto e, purtroppo, il contrario di tutto. Io credo che questo modo di procedere, questa falsa libertà in cui ogni cosa è accettata, in cui gli opposti convivono, non sia fruttuosa per costruire una comunità alternativa alla società soffocante in cui viviamo. Se vuoi tenere tutto non fai altro che riprodurre in piccolo lo stesso che c’è fuori, edulcorandolo con la melassa dell’amicizia che impedisce la violenza critica necessaria contro il “nemico”. Il tuo silenzio mi è parso dettato dall’imbarazzo che deriva dal non essere più posta di fronte a un “nemico” lontano, ben individuabile e a cui opporsi risolutamente (come si dice nell’ultimo articolo, è facile ma in parte “inutile” prendersela solo con Borghezio…), ma dal dover attaccare un “amico”, dal dover ammettere che il “nulla ironico” è anche in casa nostra, appena dopo il tuo articolo.
Cara Anna Corti,
ti ringrazio dei commenti. Anch’io trovo qualcosa di superficiale e intollerabile nello sguardo sulla sessualità che trapela dal pezzo di Montanari. Non perché i suoi personaggi parlino di di tette e culi, ma perché sembra trionfarvi quello stesso punto di vista parcellizzante, ironico e depotenziante che è nello “spirito dei tempi”. Però da qui a concludere che Nazione Indiana è come il Costanzo Show ne passa. Chi parla dentro alla cornice di un talk show deve sottostare a certe regole comunicative pesanti, castranti, dettate dal mezzo, dalla trasmissione e dal conduttore. In Nazione Indiana ogni collaboratore scrive in piena libertà e autonomia, ed è responsabile individualmente di ciò che pubblica. E i pezzi finora pubblicati, che tu li trovi interessanti o meno, non mi paiono per nulla assoggettati alla regola del “nulla ironico”.
Carla Benedetti
Solo una precisazione, il Maurizio Costanzo Show non è Nazione Indiana (ci mancherebbe), ma Glamour, su cui il pezzo è stato originariamente pubblicato e per cui era stato pensato.
Sul Nulla ironico, probabilmente, hai ragione per le cose che sono state pubblicate da te (le tue e quelle posted da te: l’utlima, quella sull’eutanasia, ecc.), per alcuni articoli di Voltolini e delle Janeczcek e per alcuni altri. Avrei molti dubbi, invece, che al “nulla ironico” non appartengano le cose di Scarpa e soprattutto quelle posted da lui (vedi le recensioni cinematografiche, ecc.). Ma hai ragione, solo il tempo permetterà di capire quale tra le due direzioni avrà la meglio e cosa diventerà questo Blog. Buon lavoro
Gentile Benedetti,
vorrei chiederle se, secondo lei, il “nulla ironico” è stato simbolicamente iniziato da Marcel Duchamp col suo famoso orinatoio decontestualizzato in una esposizione d’arte ( Society of Independent Artists 1917), poi continuato negli anni ’50-’60 da Piero Manzoni con i quadri in catrame e la merda d’artista, fino ad arrivare a certe immagini ironiche degli artisti della transavanguardia italiana (penso in particolare al Clemente, Cucchi, Chia degli anni ’80)?
la ringrazio fin da ora per la risposta
Una delle cose più comiche emerse da questa comicissima finestra sul mondo è che il pezzo per Glamour ormai appare etichettato come “letteratura”.
Dopo i paragoni con Proust e Carver, dopo che la dolce Randy ha detto che forse per scrivere non basta avere qualcosa da dire, eccoci finalmente alla definizione più esatta del pezzo. Cara Corti un pochino indegna del tuo cognome, cari tutti, avrei trovato più interessante leggere UN SOLO commento preciso su UN SOLO contenuto del pezzo; ma non c’è stato. Nel teatrino grottesco che si è creato qui dentro, dove ognuno si sente protagonista e libero di sparare insulti, si è parlato in realtà di tutto tranne del pezzo e dei motivi per cui Scarpa ha voluto pubblicarlo qui.
L’amabile comportamento di Anna Corti, che definisce la “marchetta” per Glamour (ohibò, Anna: ti sfugge un termine che discende dal più bieco maschilismo!) “qualificante della (mia) persona”, al pari di chi parla di “cazzate di Montanari”, è stato descritto con anni di anticipo da Fernando Dogana nella sua “Psicopatologia dei consumi quotidiani”, nel capitolo riguardante gli automobilisti, che al riparo del parabrezza si lanciano improperi che non si sognerebbero mai di pronunciare, a pari distanza fisica, senza la protezione del vetro. La mia persona non c’entra proprio niente, Anna, e io non mi sognerei mai di scrivere che tu sei una cretina per quello che hai detto nei tuoi interventi. Cosa ne sai tu della mia persona? Può darsi che io abbia scritto un pezzo per Glamour perché ho un figlio ammalato e ho bisogno di soldi per curarlo. Come ti sentiresti ad apprendere una cosa del genere? Attenzione: questo non ti toglierebbe il diritto di criticare l’articolo in sé; ma la persona che c’entra? Comunque, niente paura. Ho scritto l’articolo per Glamour per un motivo molto semplice: era un’occasione per dire qualcosa in una forma per me insolita, quella appunto di un dialogo fra amici, con un tono volutamente basso che secondo me e secondo Scarpa e secondo il resto del mondo fuori da questa angusta finestrella di commenti ha fatto emergere alcuni contenuti interessanti su quello che era il tema del pezzo. Tutto qui. La letteratura non c’entra.
Che poi si diano giudizi sulla mia “ironia” e sul mio stile “patinato”, e che si tiri perfino in ballo Muccino (lì veramente sono scoppiato a ridere!) sulla base del pezzo per Glamour, e non dei libri che ho scritto, è un costume talmente sciocco e da ignoranti che si qualifica, questo sì, da solo. Nessuno ha detto: strano, Montanari è considerato un autore pesantissimo, questo articolo è fuori dal suo stile, boh, mah, chissà.
L’unica critica che può avere senso fare, e che è stata fatta dalla stessa Anna e da altri ma è stata purtroppo sommersa da una slavina di sciocchezze non pertinenti, è che il pezzo può non avere la sua giusta collocazione in NI, specie dopo l’articolo di Carla Benedetti sulla questione dell’ironia.
Su questo si può discutere. Il resto è narcisismo di massa (si fa per dire: 4 gatti che si scrivono addosso).
Ciao a tutti, andate pure avanti da soli.
Raul Montanari
OLTREPASSARE SE STESSI
Cara Carla Benedetti,
noi, come vedrà anche da questa doppia missiva, non abbiamo alcuna fretta televisiva, quindi non… si affretti a bacchettarci. Abbiamo urgenza, che è un’altra cosa. Abbiamo l’urgenza dell’entusiasmo creativo, che non ci fa ammettere ferie, divagazioni o discussioni da salotto. Le nostre sollecitazioni in Nazione Indiana nascono da una tale urgenza, da niente altro. Noi non sappiamo se lei si rende conto del punto in cui ci troviamo (ma ci sembra che proprio l’altro giorno, in chiusura di un suo pezzo, si chiedesse qualcosa del genere, riferendosi all’”enormità della situazione attuale”), ossia se riesce a scorgere l’abisso che ogni giorno si allarga sempre di più nel mondo dell’(in)comunicazione nel quale siamo immersi. Abbiamo contatti con tutti, siamo liberi di parlare di tutto, possiamo arrivare dappertutto – eppure siamo infelici e frustrati, lei per prima, che giustamente si lamenta dei suoi “utenti-lettori” (che però, non se ne scordi, sono “suoi” quanto nessun’altra cosa, spesso hanno addirittura letto i suoi libri e i suoi studi, sono a volte coltissimi: ma se si sentono “utenti” è forse anche perché sono trattati da utenti). E non parliamo ancora della comunità letteraria o intellettuale, della quale lei ha così bene trattato, e di cui d’altro canto è facilissimo fare esperienza quotidiana scorrendo le pagine dei giornali (anche di quelli sui quali lei scrive) e delle false riviste; frequentando festival e reading dove si pavoneggiano o pascolano come allo zoo scrittori di ogni risma; provando anche solo a parlare con i cosiddetti “intellettuali” della faccenda della solitudine assoluta delle nostre vite nel mondo della (in)comunicazione globale.
Bene. Tutto questo per noi costituiva e costituisce un quadro di urgenza. Urgenza che abbiamo provato a tradurre e incanalare nell’unico alveo che conosciamo: quello della letteratura, dell’arte e della cultura. In che modo? Facendo quella rivista che lei ha cominciato a conoscere (www.zibaldoni.it), in cui il modello dello “zibaldone” è un’occasione (non un capriccio postmoderno, come forse potrebbe apparire ai suoi attentissimi occhi) per mettere in condizione i nostri pensieri e la nostra azione di dispiegarsi nella più assoluta calma, distensione e riflessione possibili, scevri da condizionamenti di ogni sorta e, soprattutto, capaci di mettersi in libero contatto con gli altri. Senza alcuna fretta o narcisismo: la nostra è una rivista con una cadenza trimestrale, se legge bene, non un BLOG che fagocita tutto nello spazio di pochi attimi, ma non digerisce niente. Sappiamo che “leggere bene” purtroppo oggi è un lusso, ma noi è soprattutto questo che cerchiamo e chiediamo a coloro che contattiamo e invitiamo a costruire con noi un luogo aperto e arioso di discussione: “leggere bene”, cioè perdere tempo e mettere la giusta fatica nel comprendere gli altri e nel prenderli sul serio, attardarsi nel dialogo (quanto tempo perde Socrate nelle sue interlocuzioni!), indugiare sulle cose fatte bene in vista di una comunità ancora di là da venire ma comunque ben visibile a partire da qui, da questi presupposti. Forse siamo tradizionali nell’impostazione: filtriamo il materiale che ci arriva, ci prendiamo la responsabilità delle scelte, contattiamo personalmente gli scrittori e gli artisti che ci interessano, rispondiamo a tutti quelli che ci scrivono o ci propongono materiali. Il fatto è che mettersi in cerca di un luogo comune di discussione richiede immani perdite di tempo (“perdite” secondo la logica mercantile, ma per noi “acquisti” notevoli), organizzazione minuziosa, attenzione disinteressata per gli altri.
Secondo noi, una comunità intellettuale può nascere solo dall’amicizia (intesa, platonicamente, come Eros che favorisce l’intonazione comune, non come melassa), dal desiderio di contribuire attraverso un’opera comune all’edificazione di qualcosa che infine oltrepassi noi stessi e faccia bene al mondo. Non a caso abbiamo scelto di fondare una rivista – alla quale, nonostante tutta l’anzianità di strumento e la tradizionalità, “si torna sempre”, come diceva Roland Barthes. La rivista è il luogo ideale per il dibattito delle idee (e non a caso pochi amano oggi le riviste, primi fra tutti gli editori, ma anche gli scrittorucoli pervenuti), in cui il contributo personale serve a un discorso comune in vista del superamento di se stessi. La rivista non è un BLOG, non può mai esserlo, con tutta la buona volontà. Nel BLOG, qualsiasi forma esso abbia, si resta pesantemente ancorati all’ego, all’esibizione da vetrina, non si oltrepassa mai se stessi (e la sua analisi, a proposito di queste forme di scrittura, è esattissima). L’impedimento principale è la struttura stessa del BLOG: autoreferenziale, chiusa, narcisistica. La rivista è esattamente il contrario: in essa l’amicizia, come nei dialoghi platonici, è il presupposto necessario per la ricerca della verità, è l’unica condizione che può fondare e dare senso alla ricerca di un luogo e di un discorso comuni. L’amicizia intesa in questo modo, non come strumento-melassa nelle mani dei mediatori culturali di tutti i tempi, a maggior ragione di quelli odierni – l’amicizia, dicevamo, è la negazione più forte dell’egoismo e del narcisismo. Ed essa soltanto consente di giungere fino alle soglie della verità.
Noi crediamo altresì che il lavoro di Nazione Indiana, la sua ricerca, va in una direzione analoga alla nostra, e perciò siamo qui a “perder tempo” in queste discussioni, anche se l’utilizzo di un modello come quello del BLOG richiede forse ulteriori elaborazioni e sforzi di ascolto. Però un “blog che non è un blog”, o una “rivista che non è una rivista” è una bella intuizione, che va incoraggiata e sostenuta. Certo, a vedere i primi risultati, e anche a sentire i commenti degli stessi autori (tra i quali lei stessa), non c’è da stare allegri o da farsi troppe illusioni. Ma in fondo cosa si pretende? È questo il bello del gioco, di qualsiasi gioco: grande perdita di tempo a scrivere le regole, e poi perdita di tempo ancora più grande a giocare. Però se il gioco vale la candela, non c’è niente di cui preoccuparsi e tocca solo andare avanti, insieme alle voci anche le più difficili e dissonanti, senza disprezzare nessuno, mettendo tutto noi stessi in quello che facciamo.
E con questo, cara Benedetti, chiudiamo (per ora). Nel salutarla con immutata stima, vorremmo rivolgerci adesso per qualche minuto ai lettori di Nazione Indiana, per precisare alcune nostre idee e, magari, per aprire altri fronti di discussione.
Enrico De Vivo e Gianluca Virgilio
http://www.zibaldoni.it
Cari lettori e scrittori di Nazione Indiana,
noi non crediamo che gli interventi accorati, aspri di Benedetti siano un alibi per eludere le domande poste dai lettori, noi compresi, anche se la prima impressione è quella. Nei nostri interventi in Nazione Indiana abbiamo posto la questione della prassi letteraria (della “militanza”, come si diceva una volta), altri hanno posto altre questioni ancora più importanti probabilmente, senza ottenere grandi risultati in termini di discussione. Nemmeno da Benedetti, che invece insiste su altre corde, su altri toni, anche se dice che ha aperto “file mentali”, etc. Un motivo ci dovrà essere – ci siamo detti – perché una persona così acuta e intelligente glissi, svicoli dall’impellenza delle domande dei suoi (giacché quelli che argomentano sono innanzitutto “suoi”) lettori, per rigirare con sadismo quasi, con aggressività il coltello dei suoi caustici assunti nelle piaghe di tutti quanti noi: gente che scrive e gente che legge insieme. Qual è questo motivo?
A Benedetti vanno riconosciuti due meriti, innanzitutto. Primo: il merito dell’entusiasmo, esercitato limpidamente in un mondo che del calcolo carrieristico ed egoistico fa la base di ogni cosa. Benedetti è una delle poche persone che, nonostante il ruolo ufficiale di mediatrice culturale che svolge, ha deciso (non da oggi) di mettere in discussione se stessa insieme alla vera comunità dei “suoi” lettori, non all’interno dell’assurda, inconcludente Comunità Letteraria Delinquenziale. Secondo: Benedetti mostra come pochi altri un senso vivo della letteratura, ci indica cosa possiamo farcene dei libri e dei pensieri che vi sono scritti dentro, è “impegnata” a mettere in evidenza il valore comunitario dello scrivere e del leggere. Non a caso la sua critica si interseca pericolosamente – saremmo tentati di dire “pasolinianamente” – con l’analisi impietosa del mondo dal quale pure è prodotta, prendendo rischi e colpi bassi senza risparmio. Questo è puro coraggio, che va riconosciuto come un valore e – detto senza alcuna piaggeria – rende perciò sempre stimabile il suo lavoro.
Tenendo dunque presenti questi presupposti, ci siamo dati la seguente risposta al quesito iniziale circa l’elusività delle risposte alle domande impellenti dei lettori: secondo noi Benedetti svicola e aggredisce perché l’obiettivo (del suo discorso) non è (ancora) stabilire chi sono gli scrittori e quali sono i modi poetici di espressione che vanno incoraggiati. Benedetti è ancora al di qua di un tale ragionamento, perché forse punta prima di tutto a definire in che maniera e se si può parlare (ancora) di una comunità letteraria o intellettuale nel mondo attuale. Naturalmente, leggendo la sua ultima missiva, verrebbe di pensare immediatamente che una comunità del genere di quella immaginata da Nazione Indiana è ben lontana dall’avverarsi. Se, infatti, la falsa comunità dei pedanti che governano le diverse discipline è chiaramente improponibile, questa qui in cui siamo, in cui molti di quelli che scrivono lo fanno innanzitutto per lasciare una traccia più o meno narcisistica di loro stessi, non è certo la “vera” comunità che tutti auspicano. Ecco l’atroce dilemma che, a nostro avviso, non consente (ancora) a Benedetti di affrontare le pur serissime questioni che noi e altri avevamo posto. Se prima, infatti, non si scioglie questo nodo delle modalità della partecipazione, diciamo così, questo nodo tutto politico, a che serve – giustamente – perfino discutere di letteratura, di cinema o di qualsiasi altra cosa? Se, come qualcuno ha scritto qualche tempo fa, ci hanno rubato l’anima, come è possibile anche solo immaginare di impegnarsi in imprese tanto ardite e gagliarde come l’edificazione di una comunità letteraria e intellettuale, che dal possesso di certe facoltà profonde non può prescindere?
A pensarci bene, quando abbiamo dato vita alla nostra rivista (www.zibaldoni.it), partivamo anche noi da presupposti del genere: volevamo una comunità, non ci bastava essere o desiderare di essere scrittori, artisti, etc. Anzi, a voler dirla tutta, le stesse definizioni di “scrittore”, “artista”, etc. ci sembravano, e ci sembrano, assolutamente inadeguate. E poi, non è mai bastato a nessuno scrittore, in nessuna epoca, scrivere e basta, dipingere e basta, musicare e basta – se poi non esisteva un pubblico almeno immaginabile per le proprie opere. Un pubblico almeno immaginabile, cioè una comunità: perché senza comunità l’atto creativo è generato dal nulla e cade nel vuoto, nel narcisismo.
Noi – oltre tre anni fa – eravamo sperduti, isolati, in paesi lontani, ognuno con la sua bella poetica, i suoi manufatti aggraziati, i suoi scartafacci. Ma sentivamo una mancanza. Non ci fregava niente dei critici che scrivevano sui giornali i loro canoni per fare i loro loschi affari, volevamo mettere insieme degli scrittori e degli artisti con la nostra stessa esigenza/urgenza di comunità, non ci fregava assolutamente nulla degli editori e di pubblicare libri. Il progetto degli “zibaldoni” poteva essere il giusto punto di partenza: era un’idea aggregante, malleabile, versatile, che ci consentiva innanzitutto di girovagare in tutte le direzioni possibili per edificare quella cosa che ci mancava e che ci aveva spinto ad agire: la comunità. Inoltre era, questa nostra, un’idea “militante” fino in fondo: cosa c’è, infatti, di più naturale e antimercantile di un prodotto che non è un prodotto, di un libro che non è (ancora) un libro, quale appunto è uno zibaldone? Abbiamo capito che in questo modo potevamo aprirci tutte le strade verso la ricerca artistica, che è la cosa che maggiormente ci preme e ci spinge ad agire: ripetiamo, in un mondo nel quale conta solamente il prodotto finito e vendibile, non il prodotto in divenire, scabro, incompiuto.
Se dovessimo fare una considerazione a partire da quel poco che abbiamo fin qui costruito, forse diremmo che porre le basi all’interno di forme ben definite, come ad esempio una rivista, è un possibile punto di avvio – ferma restando la chiarissima coscienza del furto delle anime che abbiamo già subito e delle quali dobbiamo prima riappropriarci se vogliamo almeno cominciare a parlare. Ci tocca scontare questo gran castigo, che è la fatica del recupero di un’anima, attraverso azioni dure, scontri e polemiche, incomprensioni e disfacimenti. Dobbiamo farci capaci che qui è come essere sopravvissuti a una catastrofe, dopo la quale ci siamo ritrovati tutti muti: dobbiamo ritrovare un modo per parlare insieme, per capirci, dopo essere partiti alla ricerca della luce del “discorso comune”, per dirla con Eraclito. In un secondo momento verrà la discussione sullo scrittore e sulla sua poetica, anzi, come fa intuire Benedetti, questo è davvero l’ultimo cruccio.
Però, se nel corso di questa ricerca un qualche scrittore con la sua bella e rispettabilissima poetica non avrà mai offerto contributi al “discorso comune” suddetto, evitando di confrontarsi sulle possibilità dell’”armonia discorde”, volete dirci perché mai dovremmo leggerlo, oggi che tutti sanno scrivere un romanzo, una sceneggiatura e un sonetto, oggi che tutti sanno “far finta” con la penna in mano? Noi siamo convintissimi che se nelle opere (testi e azioni) odierne non vibra l’ardore della ricerca di una comunità, della ricerca del punto di intonazione comune, è bene non prenderle nemmeno in considerazione. Senza troppi patemi. Perché abbiamo bisogno di strade chiare da seguire per raggiungere il nostro obiettivo, e non dobbiamo ammettere distrazioni o indulgere a chicchessia. Chi scrive cazzate deve essere stigmatizzato; chi allestisce letteratura per fare spettacoli, per divertimento, per fare audience, deve essere messo da parte; chi scrive senza avere negli occhi e nel cuore la luce della comunità a venire, che parli pure da solo, tra lo squallore dei convitati di cera dei talk show.
Non bisogna aver paura nemmeno delle deviazioni che vengon fuori qui dentro, in Nazione Indiana. Si paga un prezzo per costruire qualsiasi cosa. Per quello che vogliamo costruire noi tutti qui dentro e anche fuori, si paga sulla propria pelle un prezzo durissimo, atroce. Benedetti ne sa qualcosa, come ne sappiamo qualcosa noi che facciamo “Zibaldoni e altre meraviglie”, e molti altri. Ma il prezzo pagato vale l’acquisto, ne siamo certi. Far cadere le proprie parole non nel vuoto, ma nel pieno di una comunità che ascolta e che cerca la verità, è un grande risultato, grandissimo. Non bisogna scoraggiarsi, né seminare rancori, né coltivare dispiaceri – e nemmeno allibirsi troppo spesso. Cosa credevamo, che bastasse metter su un paio di siti internet per riavere belle e pronte, integre, le nostre anime che ci hanno rubato, ovvero l’anima oltraggiata della comunità inesistente? Che ingenui! Bisogna sudare ancora, invece, sforzarsi, argomentare, perder tempo, scriversi, non comprendersi, poi cominciare a comprendersi, fino alla fine. L’unica cosa che conta, non ci stancheremo mai di ripeterlo, è aver presente e vivo come un fuoco inestinguibile il punto luminosissimo comune verso cui tendere incessantemente. Il punto verso cui concorrono le voci discordi, e in cui finalmente si ricompone l’unità dei molteplici.
Cordialmente vostri, anche in agosto,
Edv – Gv
http://www.zibaldoni.it
Secondo me dato che NI si occupa di cose spirituali e l’immagine dello spirito è gassosa, sarebbe bello considerare NI una specie di azienda del gas.
Poi volevo ricordare il titolo di un libro che ha tra gli autori Bruno Munari: “Direzione sorpresa”
saluti agli zibaldoni
E’ sintomatico che il dibattito più acceso in “Nazione indiana” negli ultimi tempi si sia snodato intorno ad un articolo di Raul Montanari attinto in “Glamour”. Un pezzo leggero, molto leggero, ha attratto una discussione pesante, molto pesante. Cinque amici che parlano di donne come stessero al bar (mentre sono in un raffinato quanto asettico salotto milanese) hanno la capacità di scatenare una reazione che fa dimenticare l’effetto scatenante, il quale rimane in realtà ben poca cosa. Se una farfalla vola a Tokio scatena degli effetti che raggiungono me (Gadda). E così il punto di approdo di questa discussione consiste proprio in un ribaltamento della posizione iniziale: la fondazione di una autentica comunità. Montanari è – ripeto – la goccia che fa traboccare il vaso, l’ignaro iniziatore di un processo, dal quale presto esce di scena, per ricomparire come una scialba comparsa in un intervento di risposta che dice ben poco: “Tengo famiglia”, e altre cose del genere.
Ma egli ci ha consentito di dire qualcosa di molto importante: per dirla col vecchio Montale, ciò che non siamo, ciò che non vogliamo. Non siamo dei quarantenni figli di papà attratti dal miraggio del successo, che porta con sé il denaro facile e la donna facile, immaginata non solo come disponibile al nostro piacere, ma sulla quale anche è possibile articolare un discorso che ne annulli la persona e ogni parvenza di affetto; la donna secondo l’iconografia più deteriore, che la rappresenta come un insieme di buchi da tappare, di superfici lucide su cui riflettere il proprio inguaribile narcisismo, la propria immagine sbiadita e incapace di vedere l’altro. Cinque giovani che fanno tutto questo, cioè che si posizionano in questo modo, in un appartamento milanese amorfo e privo d’ogni appartenenza, che dicono cose di questo genere, sono già una comunità, e che comunità! Ebbene, le voci che si sono levate subito, hanno detto chiaro e tondo, sia pure con toni e sfumature diverse e con qualche rara eccezione di consenso, questo: “Noi non siamo questa comunità, noi non vogliamo una simile comunità”. Grazie, dunque, a Montanari, che ci ha dato la possibilità di sapere queste cose, sia pure in negativo.
Ora, gli interventi che si sono succeduti a me paiono importanti perché, tolti al loro isolamento, che è l’isolamento nel quale ciascuno di noi opera, restituiscono l’immagine di una vera comunità pensante, che si ribella allo stereotipo e propone temi e strategie, proposte operative che tentano un diverso cammino, immaginano altri luoghi di colloquio, uomini animati da ben altro spirito che non sia la superficialità, l’amoralità dei giovanotti ritratti da Montanari. Non so se i redattori di “Zibaldoni e altre meraviglie” sono pienamente coscienti di tutto questo, ma sembrerebbe di sì, dal momento che il loro intervento ha chiuso con la caterva di critiche (anche aspre, anche offensive nei confronti di alcuni redattori di “Nazione indiana”), facendo il punto della situazione e spiegando che forse, a questo punto, il discorso va indirizzato verso la realizzazione della comunità inesistente, la quale, sia pure in forma latente, a mio avviso, già esiste. Certamente ha fatto bene Benedetti a, per così dire, voltare pagina, ad inaugurarne una nuova, in modo tale da superare, come lei stessa dice, il tono conflittuale che, a un certo punto, sembra[va] aver preso il sopravvento. Ora gli interventi dovrebbero essere mirati non tanto più alla polemica ad personam, più o meno giustificata, quanto alla costruzione della comunità inesistente. Bisognerebbe evitare che queste voci (quelle che si sono levate contra Montanari) alla ricerca della vera comunità rimangano voces clamantes in deserto, fare in modo che si incontrino, si armonizzino, divengano concerto. La comunità non è qualcosa che si costruisce una volta per sempre, ma ha bisogno di continue conferme. Essa si regge su un perenne colloquio, sullo scambio inesauribile di idee, di progetti, richiede un mutuo raccontarsi storie, nel quale vive non solo il piacere di chi racconta, ma anche lo sguardo attento e le reazioni emotive di chi ascolta. Se tutto tace, se nessuno più mi rivolge la parola, se io stesso non ho più un interlocutore, allora vuol dire che la comunità è morta. Ma così è morto anche l’individuo, il cui corpo non dice più nulla agli altri corpi nei quali dovrebbe essere in posizione di contiguità, cioè di comunicazione affettiva. Qualcun altro mi dirà come mi devo muovere, come mi devo vestire, come devo parlare, che cosa devo dire, che cosa devo scrivere. Qualcun altro mi pagherà se sarò obbediente, se non avrò un’idea personale, se sarò uguale agli altri. Chi sia questo altro, è presto detto: colui che ha potere su di me, che può darmi dei soldi per prezzolare il mio comportamento, la mia scrittura. Diventerò lo scrittore prezzolato al pari degli altri scrittori prezzolati, ma con loro non costruirò mai una comunità perché sarò il loro concorrente, il loro nemico (se ci fosse stata una donna nel clan descritto da Montanari, i cinque maschietti di sarebbero sbranati a vicenda). La mia comunità sarà quella che qualcun altro avrà per me preparato, la comunità dei servi prezzolati viventi nell’allevamento del potente che mi pagherà per consumare e per produrre. Io produrrò storie per gli altri che produrranno per me beni di prima necessità, cibo, vestiti, scarpe, eccetera.
Penso che la vera genuina comunità abbia in sorte di vivere sempre una vita parallela rispetto alla comunità fittizia costruita per sé dal potente. La vera comunità costruita sul fondamento dell’amicizia e dei rapporti d’affetto avrà vita lunga lontano dal potere, dove le diverse solitudini si incontrano e comunicano e si dicono il loro disorientamento e la loro frustrazione. Ma guai se il potente solo le volga lo sguardo! Esso all’istante la riduce in polvere, l’annienta e la fagocita, facendo piazza pulita in un baleno dei discorsi affettuosi, degli scambi sinceri, come anche della critica più severa e spietata. Lo sguardo del potente ti perde. Per questo motivo a me sembra piuttosto ingenua, nel senso italiano (cioè dettata da poca esperienza) e latino (propria di uomini che presumono di essere liberi) del termine, la proposta dei curatori di “Zibaldoni e altre meraviglie”. Io sono molto scettico che bastino i loro toni da santoni indiani, la loro gestualità sottintensa volta a ricondurre all’unità il molteplice, per dar vita a una vera comunità. Il potere è troppo forte per piagarsi a questi richiami. E tuttavia il loro tentativo è encomiabile e addita una strada da seguire. Il mio scetticismi nasce dalla considerazione che oggi anche la critica più feroce del potere e dei meccanismi letterari ad esso connessi (così bene messi in luce da Benedetti) funziona come un ricostituente per il potere medesimo, che di essa si avvale per ripristinare a un livello superiore i propri meccanismi di dominio.
Questo Moloch può essere abbattuto? Penso che non possa esserlo, perché la vita dell’umanità è regolata e diretta da questa potente divinità. Ma è possibile, pur sottostando a questo Moloch, non perdere di vista il senso più intimo della nostra vita, che rimane sempre negli affetti che legano il grande corpo dell’umanità. Se il potere è irriducibile alle ragioni dell’umanità, che almeno l’umanità sia irriducibile alle ragioni del potere. Forse questa è l’unica via d’uscita, l’unica ancora di salvezza che ci sia rimasta. Se il potente di turno mi paga per scrivere, io ne prenderò i soldi, giocando d’astuzia, ma continuerò a fare il mio lavoro per la comunità che ho immaginato, non per il potente che mi paga. Rischierò, rischierò di essere tagliato fuori, di non essere più iscritto nel libro paga del potente, rischierò di rimanere vittima della mia astuzia. Ma se la comunità, o la semplice immaginazione di essa, grazie al mio intervento sarà sopravvissuta e si sarà rigenerata, io avrò assolto il mio compito, sarà stato degno dell’umanità e non mi sarò venduto. Io la penso così; e voi?
Gustavo P.
Complimenti a Gustavo, che è riuscito nel piccolo miracolo di non capire niente di quello che è successo, e di scriverci sopra una ventina di cartelle di puri svolazzi onanistici. Naturalmente basta rileggere il mio commento per notare che ad Anna Corti (francamente un gigante, visto il livello di altri interventi) dico esattamente il contrario di “tengo famiglia”: non tengo nessuna famiglia, ho scritto il pezzo per Glamour perché mi interessava farlo. E naturalmente basta leggere il pezzo per Glamour per capire, se si vuole capire (se si ha l’hobby di non capire, pazienza) che non c’è nessuno “raffinato” salotto milanese, poi rapidamente ridefinito “amorfo”, e che l’amoralità non c’entra proprio un cazzo (appunto), per non parlare dell’idea comicissima che i cinque maschi “si sbranerebbero” in presenza di una donna. Nessuno ha mai analizzato il testo, per criticarlo in modo motivato; nessuno lo ha messo in relazione con la mia opera di scrittore e con le mie prese di posizione pubbliche; aspettarmelo da Gustavo sarebbe stato troppo. Va benissimo così, continuiamo – continuate – a farci del male e a blaterare a casaccio di scrittori prezzolati, di comunità e di potere. Potere di dire sciocchezze in libertà, visto che non c’è un editore e non c’è un pubblico con cui confrontarsi. Un editore e un pubblico che ti tolgono la rete sotto i piedi e ti fanno rischiare davvero, su ogni parola.
Questo angolo di NI è diventato la Corrida di Corrado, e in fondo è anche divertente. Beato chi evidentemente non ha da lavorare e può perdere tempo nei propri vaniloqui. L’esercizio della pesca a mosca sarebbe un’alternativa raccomandabile, ma è molto più difficile far salire una trota su una March Brown che frastornarsi il cervello con la propria voce e le proprie chiacchiere.
Raul Montanari
Faccio uno scolietto al post di Raul Montanari: per chi non è esperto “far salire una trota su una March Brown” significa pescare una trota usando come esca una mosca secca del tipo visibile al link:
http://www.comune.jesi.an.it/mcvallesina/Rosfly/marchbrown.htm
Il suo pezzo com’è? Prendete le interviste di Pasolini “Comizi d’amore”, confrontatelo con “La verità, vi prego, sul sesso: parlano gli uomini” e avete il senso delle misure: Pasolini ha urgenza di scrivere su quei temi, ci lavora sopra, scrive, filma, e il risultato è un classico. Montanari ha urgenza di scrivere per Glamour, invita qualche amico per l’aperitivo, gli fa 4-5 domande: che rapporto hai col culo? ti radi il petto? ti vesti da Batman per guzzare? (parodizzando). Invece non gli fa domande del tipo: avete mai rimorchiato un trans sui viali? forse perché non sono discorsi tanto Glamour o forse non si è mai accorto che il sesso è scabroso. Il risultato è abbastanza divertente e un po’ di umanità viene fuori questo lo sottolineo (come sono disarmati gli intervistati), però Pasolini è un’altra cosa. D’altra parte se Montanari non vuole farsi prendere in giro dai bloggers, se si sente veramente un principe, dovrebbe puntare più in alto.
un commento nel web su Comizi d’amore:
Nel 1963 Pasolini girò un film-inchiesta sulla sessualità, percorrendo tutta la penisola, dalle grandi città alle campagne e chiedendo a passanti, contadini, operai, calciatori famosi, studenti, commercianti, a persone appartenenti a diversi ceti sociali, che cosa ne pensassero dell’erotismo e dell’amore.
Dalle risposte degli intervistati, soprattutto quelli di estrazione borghese, uscì un’immagine complessiva del nostro Paese ipocrita, costituita di frasi fatte e di luoghi comuni; le persone appartenenti a classi sociali meno abbienti fornirono risposte più spontanee.
Ciò che più colpisce, dice Enzo Siciliano nel suo Vita di Pasolini (Giunti, Firenze), “è la presenza sullo schermo di Pasolini medesimo: il film è il suo più spassionato autoritratto. La sua testardaggine pedagogica, la sua mitezza che era violenza e la sua violenza che era mitezza – quell’insistere nelle domande, quel modularle a pennello, a una madre, a una recluta, a un ragazzotto siciliano, a due frequentatrici di balere; quindi il timbro insolito della sua voce, schermata dietro un rigore razionalista che pare non appartenergli: il film aderiva perfettamente, e fuori di ogni previsione, alla sua persona fisica, al modo in cui erano inforcati gli occhiali o la giacca gli ricadeva sulle spalle”.
L’impressione che si trae oggi da questo film-inchiesta – recentemente riproposto dalla televisione italiana – è quella di una grande, diffusa ignoranza anche in strati di popolazione più acculturata, di una profonda, generalizzata arretratezza e di un vero e proprio timore dell’italiano medio ad affrontare, senza assurde “vergogne” un qualsiasi confronto legato ad un tema quale quello della sessualità, che dovrebbe invece essere trattato con infinita naturalezza.
Il film fa riflettere, infine, su quali siano stati nel nostro paese (all’epoca, ma ancor oggi, direi) i condizionamenti, le distorte sovrastrutture mentali, le paure instillate da un uso repressivo della religione fatto dalle istituzioni cattoliche. E anche sulle responsabilità di una classe politica che non ha dato impulsi di sorta a un rinnovamento profondo dei sistemi educativi.
Ho letto tutti i commenti. I più sensati mi sono parsi il primo di Anna Corti che ha centrato il punto e le risposte della Benedetti.
Poi un po’ alla volta arrivo alla risposta di Montanari che finisce con “Ciao a tutti, andate pure avanti da soli”…
Vuol dire che smette di scrivere per NI?
Ecco, sarebbe un bel risultato questo.
saluti
Rispondo ad Andrea, che dietro il nome ha una continuità di pensiero, e non a quest’ultimo Nemo@zero.it e alle sue battutine da frustrato. Caro Andrea, ottimo lo scolio sulla March Brown (peraltro più efficace nella versione sommersa). Però, amico mio, non noti che nemmeno tu riesci a entrare nel merito di questo benedetto articolo? Dopo 29 commenti (!!!), e dopo aver annunciato “il suo pezzo com’è?” sei costretto:
1. A presumere cose che non sai affatto e che non sono nell’articolo (l’urgenza, l’aperitivo… ma se c’è scritto che beviamo acqua! Fa poca differenza? Pensaci, e vedrai che ne fa molta.)
2. A parodiare i contenuti andando completamente fuori dal tono e dal seminato, senza citare nemmeno una delle domande o delle risposte realmente presenti.
3. A evocare domande che non ho fatto, non perché non sappia che il sesso è scabroso (d’altronde sembra che qualche lettrice e redattrice di NI abbia trovato il pezzo abbastanza scabroso, anche senza domande sui trans), ma perché per ragioni di spazio non si può mettere TUTTO in un pezzo che ha una collocazione precisa, che sia Glamour o gli atti dell’Accademia dei Lincei. Se volete leggervi un’enciclopedia dei comportamenti sessuali prendete il Krafft-Ebing, non un articolo su Glamour o su Psicologia Contemporanea! Non ho parlato nemmeno di un tema come il sadomasochismo, se è per questo, che nell’immaginario erotico ha un’incidenza leggermente maggiore dei trans nei viali.
4. A fare un paragone folle con un’opera di Pasolini creata, come tu stessi osservi, senza nessun vincolo. Ma santa pazienza, non è chiaro che a questo punto il paragone non si può fare? Che è come mettere a confronto un film e uno spot? Senza nemmeno stare a introdurre la variante del cambio di autore, paragoneresti i film di Antonioni, Fellini e Scorsese alla loro produzione pubblicitaria? I libri di Aldo Nove alle interviste che fa per Max? I romanzi di Busi ai suoi reportage dal Festival di Sanremo?
Pasolini è un’altra cosa? Certo che sì, tante grazie… parliamo di uno dei 2-3 giganti del 900 italiano! C’è bisogno di farlo sulla base del confronto fra Comizi d’amore e un articolo per un femminile? Non è ridicolo tutto questo? Prima il Proust di Anna, ora il Pasolini di Andrea? Dovrei sentirmi lusingato… evidentemente per sparare sul modesto pezzo di Glamour c’è davvero bisogno della bomba atomica, il moschetto non basta.
Ripeto, e davvero stavolta chiudo qui, che il pezzo non è stato scritto per NI, ma per Glamour, e a questo riguardo le arie da principe non me le do io ma chi fa del sarcasmo inutile, esplicito o sottinteso, su questa testata o sul fatto di scriverci sopra. La decisione di girarlo anche su NI – decisione non mia ma di un notissimo lobotomizzato e analfabeta sessuale a nome Tiziano Scarpa, che stranamente nel pezzo aveva visto qualcosa di interessante – può essere stata infelice, considerando che cadeva nel mezzo del dibattito avviato da Carla Benedetti su serietà e ironia. Un testo come quello, con la scrittura che l’argomento e la collocazione originaria suggerivano, può senz’altro generare stupore, perplessità, forse anche fastidio: di questo non ho problemi a scusarmi con chi abbia sinceramente provato senzazioni negative, al di là di qualunque posa (sua o mia).
Qualsiasi altra generalizzazione è una sciocchezza non pertinente, e la coazione all’aggressività che molti bloggers dimostrano mi sembra una cosa a metà fra l’Ora del dilettante e le spedizioni dei vigilantes. Anche loro impiccavano la gente tenendosi un cappuccio in testa. Cappuccio.it, appunto.
Raul Montanari
Tornato dalle ferie ho letto, fra altre cose in Nazione Indiana, l’articolo di Raul Montanari, rimanendo perplesso e deluso. Mi aspettavo altro. Dopo un po’(continuavo a pensarci evidentemente) mi sono accorto di essere irritato: non avrei voluto trovare su NI quell’articolo. Cosi’ ho letto anche i commenti, scoprendo che c’era stata una polemica.
E’ difficile dire qualcosa dell’articolo entrando nel merito. Il problema, mi pare, e’ la mancanza di contesto. Non si sa come leggerlo. Non c’e’ un appiglio di riflessione, un qualunque elemento che ci dica cosa dobbiamo farcene della conversazione che ci riferisce, ne’ cosa lui stesso ne pensi. C’e’ il titolo audeniano, che afferma (se preso alla lettera) che dovremmo considerare verita’ cio’ che vi si dice; ma potrebbe essere ironico e intendere l’opposto. Allora l’indicazione della rivista su cui e’ uscito diventa il solo orizzonte su cui collocarlo – in ovvio conflitto con NI. Considero questo aspetto dell’articolo un difetto non solo espositivo ma retorico in senso sostanziale, perche’ lascia che predomini la banale, superficiale curiosita’ generata dall’argomento. Forse occorrerebbe conoscere l’intera opera dell’autore per capire il pezzo – ma mi sembra una pretesa eccessiva e comunque inusuale per questo tipo di testi.
L’unico senso che riesco a trovare – con fatica e per scrupolo – e’ piu’ o meno il seguente: il desiderio maschile non e’ come si immagina che sia, ma come in effetti si manifesta nel comportamento medio, e le conversazioni maschili sul sesso sono a loro volta piattamente aderenti a questa medieta’ ovvia e alla sua volgarita’ senza eccessi. In definitiva l’articolo direbbe che l’argomento che propone e’ un falso argomento, perche’ non c’e’ granche’ da dire. Se questo e’ il senso dell’articolo, si staglia, per contraddirla, sull’idea che invece il desiderio erotico maschile (e femminile) sia colmo di immaginazioni e di segreti. Forse e’ qui l’offesa: l’offesa al lettore che si aspetta qualcosa di intellettualmente interessante, di complesso e sconosciuto, e si trova davanti un contenitore sostanzialmente vuoto, e l’offesa a chi ha, nella propria vita, un’opinione ‘alta’ e ‘profonda’ del sesso, considerandolo intrinsecamente colmo di spessore esistenziale.
Non so se queste congetture abbiano un qualche fondamento. Si puo’ trovare un disegno anche nel caso e attribuire un’intenzione sottile alle piu’insopportabili banalita’. Mi piacerebbe che Montanari e Scarpa dicessero la loro sul significato e l’intenzione dell’articolo: non puo’ essere considerato ‘non parafrasabile’e ‘incommentabile’, vero? Se diceva qualcosa si puo’ ripeterlo in altra maniera.
Se il problema e’ davvero la mancanza di un contesto in cui leggerlo, l’articolo di Montanari (e la decisione di Scarpa di pubblicarlo) hanno il merito di rendere evidente un problema che riguarda la natura di NI. Ognuno ha il suo contesto, non c’e’ redazione e quindi non c’e’ mediazione, e se Scarpa conosce Montanari e sa come la pensa, non si accorge che altri possono non sapere e non capire. Oppure: vede nell’articolo di Montanari qualcosa che e’ una risposta a una sua domanda: ma non e’ la domanda che si fanno gli altri lettori. Fino a che si tratta di equivoci poco male. Il problema vero e’ che forse il comune sentire che dovrebbe unire la Nazione non sempre esiste. Una linea editoriale offe una coerenza che seleziona i lettori: pensare che tanto i lettori quanto gli autori condividano una linea editoriale stabilita da un presunto comune sentire forse e’ piu’ problematico di quanto si possa credere.
Grazie a Giulio Savelli per il nome e cognome, e per il tono, intanto. Un tono intelligente e problematico la cui gentilezza che mi costringe a rimangiarmi la decisione di non tornare sull’articolo. Scarpa non può intervenire perché per tre mesi sarà fuori dall’Italia.
Purtroppo, Giulio, devo darle una piccola delusione, e glielo dico senza nessuna ironia. L’intenzione sottile che lei attribuisce a Scarpa e a me, di dimostrare attraverso l’articolo che l’immaginario erotico maschile è meno complesso quanto noi ci illudiamo che sia, non c’era. Ho riletto l’articolo, e continuo a pensarne quello che ne pensavo quando l’ho scritto: contiene molte verità; oserei dire che contiene solo verità (naturalmente non TUTTA la verità del desiderio maschile: sarei pazzo se ambissi a un disegno del genere, dentro o anche fuori da una collocazione come quella che l’articolo ha avuto). Non soltanto: aggiungo che queste verità a me continuano a non sembrare così banali.
Io sono stato colpito da alcune delle cose che sono uscite dalla conversazione con i miei interlocutori, e lo è stato anche Scarpa; siamo due persone non digiune di sesso e due autori che questi temi hanno trattato molto a fondo nelle proprie opere non solo narrative, quindi lo stupore e la curiosità che abbiamo provato ci sono parsi garanzia che il pezzo potesse avere qualche interesse anche in NI. Dico “anche” in NI, perché fuori da NI l’interesse e l’attenzione che il pezzo ha avuto sono stati enormi, a partire dalla redazione di Glamour che l’aveva richiesto (e che, incredibile auditu sed non dictu, NON è composta da un branco di cretine berlusconiane massificate, tutt’altro), per finire con il pubblico che lo ha letto.
Ma facciamo conto che NI, questo angolo di NI, sia il mondo; e facciamo finta che l’obiezione principale al pezzo sia la banalità dei contenuti (mentre sappiamo benissimo che in questi commenti si è parlato molto anche d’altro: in particolare della famosa “ironia”).
Provo a parafrasare l’articolo, come mi chiede Savelli, riducendolo a un semplice elenco di temi che emergono dalla conversazione:
1. I maschi pensano parecchio ad altro durante il rapporto, e le loro fantasie non sono necessariamente di natura sessuale. Uno degli intervistati parla di modificazione della modalità di pensiero.
2. L’aspirazione sessuale maschile più profonda è quella alla passività: in particolare, essere baciati o toccati sui genitali.
3. Il rapporto orale non soddisfa solo esigenze, diciamo così, tattili o comunque sensoriali, perché il viso della partner sembra riassumerne l’identità personale; in un certo senso, quindi, questo rapporto è più intimo di quello genitale.
4. Nella vexata quaestio fra culo e seno, o come dicono gli americani fra bottom-men e bosom-men, nessuno dei presenti si esprime a favore dell’attrattiva sessuale del seno; questo in contraddizione con una tradizione iconografica radicatissima, oltre che con i cliché “mediterranei” che conosciamo tutti.
5. La positio veneris in cui la donna volta le spalle all’uomo combina un valore simbolico e una gratificazione sensoriale (vedi sopra, punto 3).
6. C’è una mitologia differenziata nella rappresentazione dell’organo genitale: delicato, complesso, “difficile” quello femminile; corporeo, estroverso, “facile” quello maschile. Di questa mitologia viene detto che è fuorviante, e che è legata a un’autorappresentazione che coinvolge l’intera persona (= io sono come i miei genitali, i miei genitali sono come me), e la relazione fra affettività e amore fisico (la donna olistica e sentimentale, l’uomo parcellizzante e orientato al puro soddisfacimento sensuale).
7. Il sesso per l’uomo e l’amore per la donna occupano, nella loro forma più banale, una posizione tanto più totalizzante (come unica felicità terrena possibile) quanto minori sono i filtri culturali che i soggetti possono opporre all’industria mediatica.
8. La simulazione più o meno occasionale del piacere non è una caratteristica solo femminile, come recitano i cliché: una certa dose di teatralizzazione è riconosciuta da più di uno degli intervistati.
8bis. Uno dei presenti parla di “simulazione sentimentale”.
9. Difficile giudicare quanto il sentimento influenzi direttamente il piacere; impossibile generalizzare, probabilmente.
10. Idem sul rapporto con la figura classica della “donna in carriera”.
11. L’usitatisso concetto di trasgressione non entusiasma nessuno dei presenti; l’idea che ne esce è che il gioco sessuale possa essere molto esteso anche con la partner abituale (un tema che si può sviluppare da qui, seguendo un suggerimento implicito nell’ultimo commento di Andrea: cosa cerca DAVVERO un uomo da una prostituta o da un trans? Non è il potere mediato dal denaro, assai più che non la possibilità tradizionalmente intesa di “fare cose che con tua moglie non puoi fare”?).
12. L’esibizionismo sessuale indiretto, attraverso un abbigliamento sexy della compagna, viene considerato eccitante da tutti i presenti, nonostante sia un comportamento che tocca zone dell’Io vulnerabili come la gelosia e la territorialità.
Questo, gentile Savelli e amici tutti, è SOLO un repertorio di banalità?
Se quello che ho appena fatto fosse il summary di uno studio pubblicato su una rivista di psicologia comportamentale o di sessuologia, avreste la curiosità di leggere l’intero articolo o no? Certo, non pretendo che CIASCUNO di voi, di noi, sia sorpreso, sbalordito, esterrefatto e istruito da CIASCUNO dei 12 o 13 punti in cui ho sintetizzato il testo. Io vi dico sinceramente che ho trovato stimolanti i punti numero 1, 2, 3, 4, 6, 7, 8, 8bis, 11, 12. In molti casi non si è trattato di “essere sorpreso”, ma di ritrovare come pensiero diffuso, condiviso o precisato meglio, un atteggiamento o un’opinione che consideravo piuttosto personale, e che poteva avere un aspetto nebuloso; anche questo, credo, comporta un certo grado di valore conoscitivo che impedirebbe, almeno a me, di definire “banali” questi contenuti, immaginando di trovarli in tutt’altro contesto e con tutt’altra firma.
Se il problema è, appunto, il contesto o la firma (o la fOrma), allora diciamolo e indirizziamo meglio la discussione.
Raul Montanari
caro raul montanari,
ho appena letto il suo articolo pescato – non so se con una march brown – da tiziano scarpa su glamour. vedo che sta suscitando molte polemiche, ma me viene solo un aggettivo un po’ bolso: ‘interessante’. o magari anche, in puro stile televendita notturna di mio-stimolatori a bassa tensione, ‘valido’. sì, fossi stato il direttore di glamour avrei detto: “valido questo pezzo di montanari, interessante, pubblichiamo.” e l’avrei ripetuto nella testa di tiziano scarpa e lo ripeto, come vede, anche adesso. però mi chiedo: un pezzo ‘valido’ e ‘interessante’, giustifica 32 accaloratissimi post? a me sembra che i suoi giusti e appassionati richiami successivi al merito di ciò che in quell’articolo veniva detto e al suo contesto originario, non rispondano pienamente a quei 32 commenti – che infatti non erano commenti, non erano domande, ma spruzzatine di merda sul suo lavoro (a parte alcuni tra cui l’ultimo di giulio savelli, molto pacifico e acuto). la mia domanda, commento o forse ennesimo spruzzetto di merda, sarebbe perciò: ma perché si caga così spesso in testa al lavoro degli altri, specie qui sul web, perché questo “dare del tu” ad ogni autore – come dice ancora tiziano scarpa in un suo intervento sui blogger – che si trasforma spesso in un “tu testa di cazzo”? e poi perché tutto il livore aggiunto a partire dal suo testo, che era ‘valido’ e ‘interessante’? va bene, c’è dell’ironia nei due aggettivi che sto usando: ma io lo penso davvero, che quello era un buon testo; ma nemmeno molto più che un buon testo per una rivista, intendo, cose che qualsiasi uomo che parla con altri uomini ha già detto e pensato, non certo ‘un’epifania dell’inaudito'(ma penso anche che raul montanari è autore di romanzi e racconti originali, quelli sì inauditi prima che la sua penna li cavasse dal nulla, quindi non validi né interessanti, ma ‘opere’ – lo vede, che non confondo gli spot dei rigatoni con la ‘dolce vita’). rimangono gli schizzetti di merda, che a me hanno ricordato un episodio di questi giorni. le rondini, sono arrivate le rondini! come ogni anno e da ormai diversi mesi, nell’estremo nord italiano in cui vivo sono tornate le rondini. per qualche legge delle fisica applicata che non conosco, e che perciò continuo a trovare miracolosa, sono poi planate sulle nostre case, in particolare sopra il portone di quella di mia nonna, dove hanno intrecciato due grossi nidi. in questi casi, al solito, si sviluppano due scuole di pensiero. 1) mia nonna: con la scopa, facciamoli cadere con la scopa e poi una spruzzatina di alcol, un bel falò. 2) mia madre: ma dentro i nidi ci stanno le uova, forse già le rondinelle, come si fa… nell’occasione – ma non era scontato, e ogni volta si ripete infatti il dilemma e in ogni situazione e in ogni luogo, dai balcani alla palestina – ha vinto la seconda scuola di pensiero: l’accoglienza. bella parola, ma come cagano queste rondinelle in fieri, come perdono piume, paglia, come concimano l’uscio della casa di mia nonna – coerente alla sua scuola di pensiero, mia madre pulisce. e poi non è vero che le rondini sono miti e festose, quando ci si avvicina al loro nido, alla loro ‘casa’, sanno essere molto aggressive; attaccano i gatti e la mia cagnolina peppa, perfino. di questo la peppa non si dà pace. come tutti i cani, la peppa ha il senso della proprietà conficcato in gola, patisce e abbaia l’intruso, le sfugge il concetto tutto umano di coabitazione; molto bene, invece, intende quello di subordinazione. ma le rondini non sono subordinate a noi, ai ‘padroni’, e la peppa lo vede e immagino il suo turbamento: non fanno parte del nostro clan, vanno e vengono quando gli pare grazie a quella legge delle fisica che anche a lei non quadra, e senza guinzaglio, e non danno zampa quando gli dici dammi zampa e poi hanno anche il coraggio di cagarti in testa… ma allora, la casa, di chi è? credo sia questo, caro montanari, il vero merito, la questio profonda sollevata dal suo articolo; e per ragioni che da esso misteriosamente esorbitano (quando una farfalla sbatte le ali ai tropici magari a milano poi sbattono finestre, ha ricordato qualcuno). rimane che lei ha scritto un articolo per glamour che era ‘valido’ e ‘interessante’, e alcuni bellissimi libri. ma rimane anche la confusione di un mezzo dove ognuno si sente in diritto, che si che arroga il diritto di metter su casa ovunque, di fare nido nei testi degli altri (lo sto facendo anch’io) e poi di cagare in testa alla peppa che aggrotta le orecchie e non capisce più niente e abbaia ma dopo, dopo una carezzina, scodinzola e molla il colpo. io, se mi permette e se mi invita, alle tortuose discussioni che in forma di cagatine sono sortite dal suo testo, preferisco mollare il colpo e venire a pescare con lei. però non credo che siano state solo chiacchiere oziose e narcisitiche: non avere una casa, un nido, una comunità, sono i temi veri e importanti di questo tempo dove la fisica ci ha spiegato tutte le leggi compreso quella del volo, ma non perché si vola. tutto ciò mi rendo conto è ormai lontano milioni di parole da quelle di cinque uomini più uno che discutono in un salotto milanese, sorseggiando acqua naturale o gassata, delle forme reali o astratte del loro godimento. ma è vero tiziano, e vero zizek che una comunità nasce e si riconosce a partire dalla condivisione del ‘godimento? perché se è vero forse quei milioni di parole tornano a condensarsi in un groviglio, in un intrico, in un nido e in 32 cagatine che magari non erano solo 32 cagatine…
cordialmente – e auguri per il lavoro sulle bozze del suo ultimo, ‘vero’, lavoro
guido bussoli
ps. mi piace aggiungere una frase di robert frost: “una casa è il posto in cui, quando ci devi andare, ti devono accogliere” (detto in altre parole: se benedetti, scarpa, moresco e gli altri decideranno di accogliere la vitalità libera e un po’ aggressiva delle rondini telematiche senza nome né volto – però che strana meravigliosa cosa, il volo – sarà difficile che si accontenteranno di pigolare dai post, e ci sarà da pulire gli spruzzetti di merda sulla porta, come fa mia madre tutte le mattine. altrimenti c’è sempre il metodo di mia nonna)
Penso che a questo punto Montanari pagherebbe una cifra per non aver scritto questo articolo che tutti additano al pubblico ludibrio, “senza averlo letto”. Ma davvero codesti critici non lo hanno letto? Io penso che lo abbiano letto e digerito da un pezzo e che ora il lettore voglia seriamente discutere d’altro. Il risentimento di Montanari, espresso, tra l’altro, con tono saccente da “scrittore-star” (cfr. la serie di “complimenti” che fa a chi legge e scrive in NI: “comica finestra”, “4 gatti”, “non capite niente”, “vi scrivete addosso”, etc.) è, dunque, da considerare come un tentativo di distogliere la discussione da argomenti ben più seri, su cui vale la pena di discutere. Lasciamo Montanari in compagnia dei suoi amici nel raffinato e amorfo salotto milanese (difatti, tale non può non essere, oggi, un salotto o salottino milanese o americano o siciliano) e parliamo d’altro. Ma… guarda un po’, è proprio Montanari che ce ne dà la possibilità, come al solito in negativo, s’intende. Egli dice, difatti, che noi possiamo dire “sciocchezze in libertà, visto che non c’è un editore e non c’è un pubblico con cui confrontarsi. Un editore e un pubblico che ti tolgono la rete sotto i piedi e ti fanno rischiare davvero, su ogni parola”. Lasciamo da parte il pubblico, che evidentemente c’è, perché altrimenti non si capirebbe come mai si pubblichi “Nazione indiana” e come mai sia offerta (a chi, se non al pubblico dei lettori?) la possibilità di dire la propria opinione; ma l’accenno all’editore, beh, quello è veramente molto significativo. Montanari, come al solito, non si accorge di prestare argomenti ai suoi detrattori, poiché, cosa sta dicendo il buon uomo, se non che la libera espressione ci è consentita perché non abbiamo un editore, mentre egli (evidentemente!) di questa libertà non ha potuto godere (né potrà) in quanto un editore ce l’ha? Dunque, noi siamo liberi perché non abbiamo editore, cioè padrone, mentre lui non lo è perché ce l’ha, l’editore e il padrone. Il servo Montanari ecco che rivendica con orgoglio la propria servitù, da autentico snob, “essendo lo snob il contrario dell’invidioso”, per dirla con Tomasi di Lampedusa.
Ora, cari scrittori e lettori di “Nazione indiana”, perché io dovrei attardarmi nell’analisi dell’articolo di Montanari, se so bene con chi ho a che fare? Perché dovrei leggere i suoi libri, se so bene che colui che li ha scritti, ha temuto di “rischiare davvero, su ogni parola”, di inimicarsi il suo signore e padrone, il veneratissimo editore?
Parliamo d’altro, dunque, evitando di continuare una sterile polemica, ma evitando anche i toni esulcerati di Moresco, che dovrebbe smetterla di rigirarsi il coltello nelle piaghe, e finalmente contribuire al dibattito non solo criticando i limiti dello scrittore alla Simenon, ma anche dicendo che cosa intende fare o già fa per non rimanere pure lui vittima di questo sistema industrial-artistico-letterario in cui un Montanari sguazza come il pesce nell’acqua.
L’analisi di Moresco del panorama culturale e letterario è impietosa e non lascia spazio a molte speranze. Ma il problema che ogni volta si ripresenta, ogni volta che l’analisi è compiuta, è, come dicevano quelli di “Zibaldoni”: che fare? Come rispondere a chi vorrebbe fare di noi dei funzionari della letteratura, a chi ci paga perché le nostre opere non superino il limite di Simenon (o di Montanari)? Che cosa facciamo noi nel concreto della nostra esperienza di vita per non cedere alle tentazioni del potente che vorrebbe fare di noi i suoi servi? Quale strategia d’azione noi siamo in grado di immaginare per non rimanere schiacciati dall’ingranaggio della macchina cultural-industriale che ci stritola mentre ci accarezza e ci lascia alla nostra solitudine, peggiore di quella solitudine alla quale pensavamo di essere scampati alle prime luci della ribalta? È forse sufficiente continuare a scrivere, ognuno nello spazio della sua venerabile poetica, senza alcuna coscienza (o con una falsa coscienza) del mondo nel quale viviamo e scriviamo? Compiuta l’analisi, sulla quale nessuno può nutrire molti dubbi, queste sono le domande a cui bisogna oggi cercare una risposta, perché ne va della nostra vita, prima che del cosiddetto sistema letterario.
Ebbene, l’esperienza della rete, del comunicare attraverso bit immateriali che trasportano così lontano le nostre idee e le nostre emozioni, mi sta convincendo sempre di più che è possibile immaginarsi una comunità “vera” saltando ogni mediazione di potere. Non si tratta di fare qui l’apologia della “libertà d’espressione”, perché qualsiasi libertà, se imposta dall’alto o dall’esterno, è sempre una libertà vigilata – e a tale logica non sfugge internet. Però la libertà che in internet ancora è possibile (forse non lo sarà a lungo), va sfruttata nel modo più intelligente, da parte di chi è interessato alle analisi fatte fin qui dalla Benedetti, da Moresco, da quelli di “Zibaldoni” e da tanti altri. Non va, ad esempio, vissuta passivamente o narcisisticamente come dalla maggior parte dei bloggers, ma non va nemmeno sottovalutata come di solito avviene da parte di tante anime belle. Va interpretata, va trasformata in letteratura, in forma che riforma e travolge. Se gli autori dei BLOG fossero degli scrittori, dei “veri scrittori”, forse avremmo finalmente la comunità che sogniamo, in cui la parola è segno di libertà e creatività insieme. Ma il guaio è che spesso i bloggers sono narcisi che, senza rischiare nulla, sognano di diventare “scrittori” nella maniera più deleteria possibile, ossia trasformandosi in “autori citabili”, o qualcosa del genere, e seppellendo tutto sotto una cumulo di prosaicità archiviabile e di tristezza inflazionata. Nessuno di loro cerca di capire perché, come sostengono quelli di “Zibaldoni”, nell’era della “comunicazione globale”, le nostre vite sono precipitate nell’abisso dell’(in)comunicabilità e la letteratura è ridotta ad accessorio ignobile del cinema o della tv.
Allora è sulle forme di internet che bisogna lavorare insieme, oltre che, individualmente, sulle nuove forme della letteratura; sulle potenzialità ancora (ma fino a quando?) disponibili della rete, come sta facendo NI, e come fanno altri forse ancora meglio. Non bisogna limitarsi a ‘comunicarci’ le nostre esperienze artistiche e di vita, non bisogna fermarsi alla prosaicità del mezzo tecnologico, al suo livello più basso, ma andare oltre, più in alto, e ‘raccontare’ le nostre storie, quante più storie, ipotesi, idee, è possibile, senza chiedere il permesso a nessuno che garantisca per noi, come fa Montanari, fidando solo nella nostra buona fede (fino a prova contraria) e nella sincerità creativa della parola – arrivando al punto in cui la letteratura sia opera di “scrittori che scrivono”, non di “scrittori che hanno scritto”. Lo “scrittore che scrive” può ancora scrivere tutto e liberare così tutta la potenza della parola; lo “scrittore che ha scritto” è solo uno strumento d’autorità nelle mani del cupo potere costituito, dei mediatori e degli editori. “Fare un uso improprio della letteratura” – questa frase così intrigante citata da Carla Benedetti, forse è questo che vuol dire: affidare la letteratura agli “scrittori che scrivono”.
Nulla, al momento, mi impedisce di pensare che giorno verrà che nessuno farà più un’esperienza come quella che racconta Moresco (il rifiuto di Pontiggia a Segrate) e nessuno si sentirà umiliato perché la sua buona fede è stata calpestata e la sua urgenza repressa. Ma perché ciò accada, bisogna lasciare aperta la porta del futuro, non adagiarsi in geremiadi senza scampo, continuare a guardare l’orizzonte leucano con fiducia che qualcosa possa da lì venire da un momento all’altro verso di noi. E nel frattempo operare nell’unico modo possibile, cioè contribuendo nel proprio piccolo a fondare e costruire quella comunità, sulla quale, come Moresco saprà, tanto si è discorso su NI nel mese di luglio e in queste prime settimane di agosto, e sulla quale forse è bene tenere sempre aperta la discussione; poiché mi appare chiaro che solo così la comunità si forma e si rinsalda. Questa è la mia unica speranza.
E lei, Moresco, che cosa ne pensa?
Gustavo P.
P.S.: Questo scritto è postato, non a caso, anche nei “Commenti” alla “Lettera da Leuca 1” di Moresco.
Molte grazie a Savelli e a Bussoli per la loro gentilezza, e per la loro intelligenza. Forse è impossibile essere sgarbati, se si è intelligenti. Grazie ad Andrea, ad Anna e chi ha scritto qui anche in modo molto critico, appassionatamente caustico, ma con una buona fede e una voglia di capire e farsi capire che avrà sempre il mio rispetto e il mio interesse, per quello che valgono.
Adesso, dopo 35 commenti, immagino si possa davvero parlare d’altro, magari nella sede appropriata.
Quindi invito il poveretto che nasconde i suoi sfinteri dietro una significativa P puntata a continuare a vaneggiare nei commenti a Moresco, se è con o di Moresco che vuole parlare. Al suo livore, alla sua incapacità di sradicarsi dagli occhi i giganteschi blocchi di calcestruzzo che ci sono attaccati, e in generale ai suoi problemi personali è stato dedicato abbastanza spazio, qui dentro.
Raul Montanari
Comunque, a parte gli “incappucciati”, la discussione non è stata male, anche grazie a una certa generosità di Montanari nel rispondere e difendere il suo pezzo. Mi ha fatto piacere che abbia insistito su “un certo grado di valore conoscitivo” di quello che ha scritto, perché significa che cerca una presa sulla realtà, che mi pare proprio essenziale per distinguere una cagatona da qualcosa di artistico. Il confronto con “Comizi d’amore” era anche una scusa per ricordare un capolavoro. Ma non sono d’accordo che Pasolini sia un “gigante” e quindi fuori stazza per i confronti, i capolavori li può fare anche un piccolo scrittore.
Poi uno scolietto sul Krafft-Ebing citato da Montanari, anzi due:
– Psychopathia Sexualis, l’opera di Krafft-Ebing è anche un fumetto disegnato (reinterpretato) dall’elegantissimo e pazzesco Miguel Angel Martin per l’editore Topolin (sparatemi pure, forse è solo roba da fighetto);
– Un brano da “L’amato Bene” di Tonino Conte:
“Un’altra notte di tregenda passata a tagliare e ricucire il copione del Jekyll dato a Genova, togli un po’ di Stevenson, aggiungi un po’ di Sade, incastra due righe di Lautréamont, non ci sta male mezza pagina di un caso clinico di Krafft-Ebing, semina qua e là battute originali di Carmelo…di mio riesco a infilarci una riga di Carlo Lorenzini da Collodi”