Nuovo cinema paraculo: “Buongiorno, nonsense”
di Christian Raimo
Un film può essere valutato come prodotto cinematografico, e poi – se ha una certa rilevanza – come interprete dei propri tempi o come sintomo.
“Buongiorno notte” si presta a tutti e tre i livelli di giudizio, cominciamo.
Prodotto
Come prodotto cinematografico, BN è un film assolutamente deficitario. Nato a detta dello stesso Bellocchio come film su commissione Rai, risente della pressione implicita del committente e della fretta nel metterlo su. Cosa ha la Rai da offrire a Bellocchio? ovviamente una montagna di materiale visivo documentario che può permettere a un regista di ovviare a tutto il problema della “ricostruzione” storica della vicenda; cosa ha la Rai da chiedere a Bellocchio? di realizzare un film aldilà delle polemiche, che invece di pendere verso qualche posizione, sia un film buono per le matinée scolastiche, diretto a un pubblico vasto. Bellocchio mangia la foglia e si arrangia, sceglie di girare un film tutto “d’interni e di emozioni”.
Vi ricordate quando si criticavano i film italiani autonfaloscopici due camere e tinello? Il film di Bellocchio strutturalmente è esattamente questo, soltanto che nello sgabuzzino c’è Moro. Bellocchio sceglie di fare un film componendo (come insegnano alla scuola Rai di scrittura per le fiction) i dati emozionali di una vicenda psicodrammatica fino al parossismo. Poi per non fare la fiction tout-court decide di lavorare di mestiere, e sfrutta la sua maniera ellittica (vedo/non vedo, capisco/non capisco, seguo/non seguo, realismo/surrealismo), di mettere in scena le storie tentando di confezionarla e spacciarla come voce autoriale. Il film si presenta come “film d’autore” – e che gli vuoi dire a un film d’autore?
Il montaggio della moglie Calvelli è funzionalissimo, crea ellissi dove lo sguardo dello spettatore si aspetterebbe degli approfondimenti o delle scelte di campo registiche, indugia dove il meccanismo pavloviano suscitato dallo psicodramma diventa attivo e invadente.
Incassati questi ingredienti, Bellocchio non si preoccupa quasi per niente di tutto il resto. sceglie quattro attori giovani per fare i terroristi, e li lascia allo sbando.
Dei sonnambuli che parlano sotto ipnosi, o degli iperbrechtiani (l’estraniamento è diventato incoscienza totale). Quasi assolutamente non credibili come facce di trent’anni fa, qualcuno si salva con i suoi mezzi (Maya Sansa – Braghetti – pseudo “Teresa d’Avila”), qualcuno soccombe all’inconsistenza della caratterizzazione dei personaggi (un Lo Cascio inebetito che guarda in macchina, e incapace di parlare con l’accento milanese di Moretti, trova una pronuncia italiana inaudita da annuncio ferroviario; l’altro incolpevole Giovanni Calcagno che fa Gallinari), qualcuno è chiaramente correo (l’antitespiano Piergiorgio Bellocchio che contribuisce a dare un tono di fiction Rai a tutto il prodotto).
La struttura narrativa della storia è ridicola, lo stile oscilla tra un didascalismo da copiacarbone dei libri intervista dei brigatisti a sprazzi di pretenzioso e inefficace pseudolirismo, e tanto più è paradossale il premio alla sceneggiatura a Venezia. C’è una costruzione a meta-narrazione: nella valigia di Moro si scopre un copione di una sceneggiatura che si intitola “Buongiorno, notte” come un verso della Dickinson; trovata che forse sta a sottendere il carattere finzionale del film, o è meramente un altro modo per buttarla in caciara. Del resto un film che vuole essere onirico accetta ogni deviazione e digressione. Che gli vuoi dire a un film che è una visione? che è apolitico?, che è antistorico? che è slabbrato? che è fumoso? che è recitato male? Fatto storico + Lynch di quart’ordine e il gioco è fatto. Ma quella “rivoluzione” (in senso geometrico) che non poteva riuscire ai terroristi con un colpo di pistola, può riuscire con un colpo di visione, di delirio?
Le riprese: il film si svolge al 90% o più in interni. Si vuole trasmettere il senso di claustrofobia? non c’era tempo né voglia di far vedere il mondo esterno come reagiva? era troppo uno sbattimento ricostruire il ’78? chissene frega della società?
Interprete
Come interpretazione storica, quella di Bellocchio è a) una inconsapevole paraculata, b) un esercizio di sciatteria e sincretismo, c) un tentativo post-revisionista.
L’idea di aggirare la storia per concentrarsi sulla psicologia, o meglio la psicosi, dei personaggi è una scorciatoia bell’e buona. Ora, che questa direzione sia stata percorsa in buona fede o in mala fede, qualche differenza fa, ma non so cosa è peggio. Bellocchio si confronta col caso Moro, ossia con il punto più oscuro, meno visibile e conosciuto della storia d’Italia. L’idea di un cinema civile, non dico rosselliniano, farebbe sperare a un lavoro di documentazione dietro, al tentativo di ritrarre un paese coinvolto in una tragedia collettiva.
Bellocchio sfugge a tutti questi standard che un pubblico non malabituato richiederebbe, e decide di fare una specie di Palombellarossa, un Sognid’oro che è un mischiume ideologico dove invece di prospettive e tesi c’è solo la soluzione facile di cortocircuiti e détournement fatti alla come viene viene: i risultati alle volte sono toccanti per caso, altre volte semplicemente kitsch.
La strategia dell’associazione tra segni e significanti diventa irritante poi quando viene usata come meccanismo automatico: se faccio un primissimo piano su un condannato a morte, oppure se faccio un primissimo piano sugli occhi di una tizia che piange, che giudizio posso formulare (in tranquillità) del film, dei personaggi, della vicenda? e se nelle scene più difficili (proprio dal punto di vista drammatico: loro che devono sparare a Moro, lei che sogna), parte “Shine on you crazy diamond” dei Pink Floyd a palla, a me che reazione è consentita? Non sono una specie di Malcolm Mcdowell preso in una cura ludovico soft?
Il cortocircuito più folgorante (oppure: l’associazione più prepotente) è quella che passa nella testa della Braghetti tra le lettere di Moro e le lettere dei condannati a morte della resistenza. E’ un’idea mica male, che presupporrebbe una deflagrazione del film, un’esplosione dei personaggi, scene madri, discussioni serrate, uno spostamento di sguardo sul mondo che era fuori da via Montalcini. Tutto questo non succede, il delirio della Braghetti non è la scintilla, il principio euristico, il la, ma la conclusione, il termine morale (assolutorio) di un dibattito che Bellocchio non fa in tempo ad aprire per richiudere immediatamente.
Che significato hanno allora i sogni e i deliri e le visioni della Braghetti? Tutto e nessuno. Due pennellate su quella perversa dialettica della ragione che porta al terrorismo, due sprazzi al conflitto tra ragioni e sentimenti, mezza paroletta sul fatto che i terroristi avevano dietro forse altre entità a pressarli, un balletto di Raffaella Carrà in tv.
Qual è il risultato di tutto questo? Che le motivazioni che hanno fatto nascere e crescere la deriva terroristica non vengono indagate né psicologicamente, né storicamente. I brigatisti sono peggio di cavallipazzi, sono videodipendenti, sono esseri geneticamente modificati, irriducibili al loro tempo. Moro al contrario ne esce come un santo, una figura ascetica che va incontro alla morte annunciata come Socrate. Giusto averne un gran rispetto umano, ma santificarlo non è una scelta anche questa revisionista, assolutoria? E soprattutto: siamo sicuri che i protagonisti della vicenda fossero proprio tutti lì a via Montalcini? o che comunque le dramatis personae potessero essere rappresentate tutte dai personaggi della casa?
Non era questa un’occasione per interrogarsi sulle possibilità politiche del compromesso storico? sugli esiti delle battaglie degli ’70? sulla trasformazione antropologica della borghesia italiana? Non si poteva farlo a partire anche dalle analisi degli intellettuali, di Pasolini e Sciascia, invece che soltanto da memoriali di persone talmente coinvolte dalla vicenda dal non avere uno sguardo lucido, d’insieme?
Sintomo
Un film su Moro. Sembra una scelta coraggiosa, no? Forse per questo, forse anche in buona fede, c’è stata questa convergenza di consensi quasi totale, quasi uniforme, dal Manifesto dal Giornale (entusiasta Stenio Solinas che aveva anche apprezzato Giordana, dicendo: ehi ma questo cinema di sinistra non è tanto male (leggi: non è così di sinistra)), le voci in controtendenza evidenti si contano proprio su mezza mano. Monicelli a Venezia, Pirani su Repubblica, Fofi sul Messaggero. Guarda caso uomini non coetanei di quei brigatisti, non implicati generazionalmente in quella lacerazione.
Qualche anno fa pensavo come ci fosse veramente un vuoto di narrazioni sugli anni ’70. Dopo la montagna di testimonianze a caldo o appena in ritardo, sembrava ci fosse pudore o ipocrisia a raccontare quell’Italia divisa e martoriata. Se uno pensava al quasi-genere che era la riflessione, la narrazione, a cui ha condotto in america l’omicidio Kennedy (Mailer, DeLillo, Stone, per citare le vette), veniva da pensare come in Italia il caso Moro fosse stato una vicenda non molto attraversata (la cosa più importante l’affaire Moro di Sciascia, quella più ponderosa anche se obliqua Il nome della rosa di Eco, e poi: un film minore di Giuseppe Ferrara, con un grande Volonté e poco più, a parte una minima onestà di fondo).
Da pochi anni a questa parte, c’è stato uno sdoganamento totale dei racconti sul terrorismo, libri a manetta, e poi il kolossal thriller piazza delle cinque lune, e ora Bellocchio.
Ma l’idea di una coraggiosa indagine o un bilancio critico su quegli anni latita peggio di prima, e da un momento all’altro l’evidenza sembra proprio quella opposta. Gli eventi, le idee, di quella stagione così bisognosa di analisi vengono ridotti a figurine (nel migliore dei casi) o a feticci desemantizzati (nel peggiore).
Se prendiamo dei film come “La caduta degli angeli ribelli”, o anche meglio “La tragedia di un uomo ridicolo” di Bertolucci, o ancora meglio “I pugni in tasca” e “Il diavolo in corpo” di Bellocchio, vediamo come questi registi italiani tra i settanta e gli ottanta si sforzassero di dar conto di tormenti che non riguardavano solo pochi personaggi, ma che infettavano volenti o nolenti l’intera società. Ora questi stessi registi descrivono quegli anni, depurando totalmente la soggettività di quei personaggi, o peggio sovraincidendola. I sognatori di Bertolucci sognano un mondo più più figo che più giusto, perché non sono altro che figoni androgini di una pubblicità della Diesel. Ma più al punto: i meglio giovani di Giordana se si danno alla lotta armata lo fanno perché c’hanno delle tare mentali forse neanche caratteriali ma fisiologiche (il discorso sulla mente dei terroristi non è pretestuoso del resto se il cervello di Ulrike Meinhof della tedesca RAF è stato sottoposto a chissà quante scopìe). E i ragazzi di Bellocchio sono esseri posseduti dalla loro stessa ideologia, verbalmente e sentimentalmente deficienti. La conclusione che lo spettatore trae è semplicemente questa: i terroristi erano gente che non faceva parte della nostra società, erano portatori di un altro dna, alieni, poveri giovani che avevano avuto la sfiga di essere colpiti da questo morbo (genetico più che contagioso) del terrorismo.
Ghettizzati idealmente, rifiutate in blocco senza perché né ma le loro analisi, i terroristi restano dei fantasmi che hanno attraversato l’Italia come se fossero scesi da altri pianeti, irredimibili se non dando loro una patente di sacra pazzia (le visioni della Braghetti).
L’impressione che resta per chi ha fretta di liberarsi di questi fantasmi (i “convertiti” a un compromesso storico che fu un fallimento politico ma un successo antropologico. Aveva ragione Pasolini e non Andreotti. Può più una lavatrice che mille specie animali da contemplare) è un gran senso di liberazione, non catarsi ma igienizzazione; chi vede in questa fretta un oblio pericoloso si sentirà addosso lo stesso disagio di vivere in un mondo sempre più orwelliano.
Costernata, sopraffatta, pressoché rintronata dopo una giornata intera di geremiadi intonate da Vincenzo Mollica con un tono scandalizzato che non ritenevamo nemmeno fosse nelle sue corde, una persona di nazionalità non italiana si è voltata verso di me, alle nove di sera del day after, e mi ha detto: “Scusa, ho capito che il festival di Venezia non l’ha vinto quel film lì. Ma allora, chi l’ha vinto?”.
Se concordavo perfettamente su quello che dicevi a proposito de La meglio gioventù, qui mi ritrovo veramente lontano.
Nel film di Bellocchio ho apprezzato, anzi, proprio il tentativo di andare al di là di quello che la committenza aveva commissionato (di andare al di là cioè di una ricostruzione bollita e ribollita dell’evento storico, cosa che, invece fa il pessimo film di Ferrara).
Il tentativo è più che riuscito direi. “Buongiorno, notte” è un film che va al di là del caso Moro e ci proietta nel nucleo dello scontro generazionale di quegli anni (una normalissima casa di semi-periferia). Non azzarda nessuna ricostruzione, né esprime opinioni, rappresenta semplicemente la violenza e l’inesorabilità del parricidio, e in questo, consentimi, è un film attualissimo.
Del resto anche il Libra di DeLillo, che tu citi tra le righe, è fondamentalmente un libro che va al di là del caso Oswald e non credo lo si possa avvicinare agli intenti docudrammatici di Stone. DeLillo, come Bellocchio, parte dall’evento storico per parlarci di quegli anni e di quell’America, di un “figlio” di quell’America, di una “mela marcia”.
E poi, Christian, lascia stare quel rincoglionito di Pirani, in quell’articolo parte da presupposti sbagliati, presupposti di analisi storiografica che sono assolutamente spropositati.
Ciao Christian, leggo con molto interesse i tuoi dialoghi “dove sono andate le cose” e mi sono piaciute anche le tue altre recensioni su nazione indiana…ma credo che per il film di Bellocchio, tu non abbia centrato affatto lo scopo che si proponeva l’autore, perciò concordo con quello che ha scritto cristiano di majo e ti mando anche una cosa che ho appena finito di scrivere sul film
byezz
Sull’impossibilità di uccidire i padri…
Buongiorno, notte di Marco Bellocchio
Come ogni buon romanziere o grande artista che arrivato a un certo punto della sua carriera sente che è anche possibile accettare dei lavori su commissione, così Bellocchio ha accettato la sfida di fare un film sul buco nero della storia italiana degli ultimi cinquant’anni, sul punto d’accumulazione di tutte le tensioni e i conflitti che scoppiati nell’immediato dopoguerra sono arrivati esplodere-implodere il 10 maggio’78 (sempre i fatidici maggi) nel cofano di una Renault.
Al pari di un pittore rinascimentale, Bellocchio ha preso un tema e l’ha depurato di tutto ciò che non poteva avere a che fare con la tela. Si intuisce dalla prima inquadratura: un appartamento al buio che viene descritto e nonostante vengano aperte finestre e persiane, nonostante si cerchi di illuminarlo, i chiaro-scuri avvolgono i personaggi. Questo è un preciso patto con lo spettatore, una dichiarazione d’intenti, si entra in un film dove nulla è sicuro e tutto è lasciato alle empatie disancorate di senso.
Il caso Moro è un argomento forte, da cinema civile. La Rai avrà pensato al film autoriale sul dramma storico del paese, ma fin dall’inizio Bellocchio mostra di non interessarsi tanto alle vicende già sentite, già dette, già viste. Per inciso Bellocchio è un regista che in quegli anni con il suo cinema era in prima linea nell’ondata di protesta che accendeva il conflitto sociale. Al di là del magnifico esordio dei “Pugni in tasca”, film come “Nel nome del padre”, “Sbatti il mostro in prima pagina”, “Marcia trionfale”, “La cina è vicina” erano attacchi alle istituzioni chiave della società: famiglia, religione, potere dell’informazione, partiti politici, istituzioni militari… E un importanza storica riveste “Matti da slegare”, girato con Silvano Agosti, documentario che mostrò per la prima volta la cruda realtà dei manicomi e guidò all’approvazione della legge Basaglia. ( E il regista non esiterà a scivolare con la macchina da presa dal dibattito televisivo sulla legge alla condanna a morte di Moro).
Bellocchio ha dichiarato fin dall’inizio di non perseguire una verità storica, di non sentire il bisogno di esprimere la realtà dei fatti e acquisavano un aura di insulso ridicolo i commentatori che in seconda battuta s’affrettavano a sentenziare:”solo in questo modo si potrà arrivare alla verità su ciò che è realmente accaduto ad Aldo Moro”. La furbizia con il quale il regista ha condotto l’operazione “Buongiorno, notte”, ricorda in un certo senso il Bertolucci che dopo l’Ultimo tango si fece finanziare “Novecento” dai produttori americani. Era una gioia per il regista parmense pensare di girare col capitale americano un film sfegatatamente marxista. E penso che alla fine della proiezione ufficiale Bellocchio abbia sorriso ( il sorriso di mia madre…l’Ora di religione, altra ispirazione ripiegata su di sè) pensando al suo film sui padri ( e forse scrivere padri con la maiuscola renderebbe più giustizia al termine per come lo esprime Bellocchio) finanziato per restituire la verità storica sulla vicenda dello statista democristiano.
Aldo Moro, i brigatisti, il rapimento sono il puro pretesto per costruire un atmosfera in un appartamento. Aldo Moro è un padre, un nonno, ne viene quasi esautorata la carica politica, gli avvenimenti dei cinquantacinque giorni entrano nella stanza per creare tensione, per creare situazioni, ma i veri oggetti colmi di significante dell’appartamento sono i tre passaggi: il buco nascosto dalla libreria che comunica con la cella, lo spioncino e la porta dietro il quale è tenuto il prigioniero.
Non a caso l’inizio del film è dedicato alla certosina costruzione di questo nascondiglio dentro il quale verrà riversato il contenuto di un vaso di Pandora che di lì a poco inizierà a far gravitare tutto su di sè. I movimenti che prendono vita non sono innescati dalla persona che sta all’interno dell’intercapedine, ma sono procurati dalla parte che quella cella occupa nell’inconscio dei quattro ‘soldati’ brigatisti. C’è un buco, un vuoto attorno al quale gravita tutto l’inconscio e i brigatisti hanno riempito quella casella vuota non sapendo ciò che questo procurerà, non solo a loro, ma a un intero paese. Mariano, Chiara, Ernesto a tappe entrano nel buco, spiano, Mariano parla col prigioniero e senza accorgersene si confronta con una parte di sè che sta rinnegando. Mariano dirà “Voi credete al paradiso, la morte non vi fa paura, figurati che da piccolo avevo fretta di morire per vedere com’era il paradiso”, in due righe di dialogo il duro Mariano ammette di essere stato cattolico, di provenire dalla radice culturale di Moro, ma la rifiuta, per lui quelle cose suonano come uno scherzo. Salvo poi sentirsi dire da Moro in un discorso sempre sulla morte e le idee, sulla forza che proviene dall’essere disposti a immolarsi per le proprie idee, che “In fondo anche la vostra è una religione..”. A volte senza saperlo i brigatisti riversano nel loro comunismo l’indole di un cattolicesimo, che anche se rifiutato, non manca mai di produrre effetti. In un profondo scavo il comunismo proprio dell’immaginario dei quattro ragazzi, quello delle parate sovietiche, delle panchine di Lenin, dell’effigie di Stalin è venato di sentimenti cristiani. Loro si eleggono guerriglieri dell’ideologia, dicono di essere disposti a morire per il comunismo e Moro gli fa notare che anche i cristiani hanno avuto dei martiri, hanno avuto le loro crociate, loro accusano la democrazia cristina come partito e vogliono processarne il simbolo, e Moro dice che ” la democrazia cristiana è votata dagli impiegati, dagli operai (…) dalle persone che vogliono vivere in pace, modestamente”. I brigatisti lottano per l’ideologia senza rendersi conto che la loro è una disperata lotta intrapresa con la passione e i modi che gli hanno insegnato da piccoli in chiesa, il comunismo che immaginano non è altro che il paradiso, e invece di aspettare la morte per vederlo, loro vogliono accorciare il lasso temporale e crearlo per quanto possibile sulla terra.
L’uomo incanutito, non è più Aldo Moro, è il Das Ding, ciò che Freud ha definito come “la Cosa” al centro dell’inconscio, nell’appartamento è inscenato il trauma di una generazione che nel cercare la rivoluzione ha tentato di uccidere i Padri. Il regista traccia le coordinate dell’animo che portò a certe decisioni e, paradossalmente, il film si divincola dalla contestualizzazione esplicita del ’78 per astrarsi a un livello simbolico che ne fa un potente opera tragica.
Quando Chiara ha i suoi contatti col mondo esterno, quando la televisione in costante sottofondo mostra le immagini del primo trash televisivo s’innesca da parte dei sequestratori un meccanismo delirante attraverso il quale il sintomo diventa prospettiva metonimica della realtà. Una stella rossa a cinque punte disegnata nell’ascensore dell’ufficio dove lavora Chiara ha più valore rispetto al comizio di Luciano Lama o una notizia letta sui quotidiani e non ci si avvede dell’italia volgare e caciarona delle Carrà che sta nascendo davanti ai loro occhi (anche se è difficile fargliene una colpa, pochi in quel periodo avevano realmente capito il potere che quella televisione avrebbe esercitato). Il principio di realtà viene completamente risucchiato dal perseguimento dell’ideologia, la tragedia arriva dallo scontro tra la manifestazione della volontà di potenza e l’oggetto verso cui è rivolta tale azione. Nella perdita di contatto con la realtà o lottando proprio su un piano di realtà, di sopraffazione reciproca per la conquista del potere Mariano pronuncia discorsi dottrinali che sono speculari a quelli usati dall’avversario per annientarli. Bellocchio mette negli scatti di Ernesto, che cerca di discutere degli avvenimenti e vuole rivedere la sua ragazza, e del brigatista che cura ossessivamente dei canarini in gabbia, quasi metafora dell’inutile tentativo di non far aprire quel buco nero dell’inconscio, l’apparente controllo della tempesta emotiva che si sta scatenando, mentre con Chiara decide di far reagire lo stato di crisi attraverso il personaggio dell’amico bibliotecario, che di lì a poco riesce grazie a una certa distanza, a un Aleph dello sguardo ad articolare una lucida analisi. Da una sua sceneggiatura “Buongiorno, notte”, che all’inizio Mariano ha anche ritrovato nelle borse di Moro e che ha fatto bruciare, che Chiara leggerà e che diventerà proprio il film di Bellocchio s’avvia una discussione sull’inutilità della lotta condotta con gli stessi sistemi di chi si vuole combattere e sul potere dell’immaginazione.
Nella sceneggiatura (nel film) Moro esce dalla prigione, dall’appartamento e s’avvia solo, avvolto in un cappotto verso il palazzo dell’Eur . Nell’immaginazione il padre viene riconosciuto e liberato, chi ha la capacità di pensare s’accorge che il problema non è nelle autorità al potere, ma nelle contraddizioni, nei soprusi che ogni sistema di potere invariabilmente genera. Al grido di Chiara, “Ma quella è l’immaginazione non è la realtà”, viene risposto,”Ma cosa credi che l’immaginazione non sia una forma di realtà”. Il ragazzo piuttosto che il proletariato al potere, vorrebbe l’immaginazione al potere, e nel film non si sa come, nè perchè sarà arrestato, pagherà per aver osato immaginare?
Ma cos’è Aldo Moro in quel cubicolo? Aldo Moro è l’etica. L’etica più profonda e radicata nella nostra società, l’etica della religione cattolica. Moro è il simbolo del nostro modo di pensare, di manifestare i sentimenti, di creare gerarchie di valori che non possiamo scollarci di dosso, perchè è quello dei Padri. O meglio quel “Nel nome del padre”( altro titolo di un film di Bellocchio, già citato), che è pressocchè impossibile dimenticare. Con “Buongiorno, notte”, Bellocchio finge di fare un film sul caso Moro, e invece crea un opera sull’impossibiltà di uccidere i padri.
mumble… il linguaggio che utilizza mi spiace assai… però è curioso il riferimento al “nome della rosa”. come fa a rintracciarvi un legame agli anni settanta? si, va bene, i semplici travolti dal desiderio di purezza possono essere accostati ai “compagni che sbagliano”, ma questa lettura politica imo fa torto al libro, che parte proprio reclamando la libertà dello scrittore dall’attualità.