La parola camorra non esiste
di Roberto Saviano
La camorra diviene crimine quando perde,
quando una famiglia viene sconfitta,
quando smarrisce lo scettro del potere.
La camorra quando è vincente invece coincide con lo Stato,
con l’economia, con la giurisprudenza.
E’ il potere legittimo, crimine è l’esser sconfitti!
Nun’ o’ scurdate mai!!
Carmine Alfieri
Da una manciata d’anni mi occupo in modo sistematico di camorra. La criminalità organizzata campana, ha da sempre avuto questo nome cupo, che intreccia la lingua sul palato: camorra! In realtà tranne che per un periodo che va dal 1971 al 1983, ovvero la fase in cui Raffaele Cutolo egemonizzava la politica e l’economia napoletana, la parola camorra è stata usata esclusivamente dai giudici, dagli intellettuali, dai giornalisti, ignorata o quasi dai napoletani, men che mai pescata in bocca ai “camorristi”.
Cutolo invece, fondando la Nuova Camorra Organizzata, volle concedere al termine camorra, un significato filosofico, spirituale, tenebrosamente religioso. Camorra, secondo lui era un’etica, una prassi finalizzata ad organizzare i miseri, i cafoni, che unendo le proprie forze, sottomettendosi e facendo giuramento di omertà, ai loro capi che chiamava “santisti” ovvero “evangelisti” seguaci di Cristo-Cutolo, avrebbero raggiunto sicurezza e benessere. Dopo Cutolo e le sue pretese metafisiche, il termine camorra è scomparso. Oggi si usa la parola “sistema” ed ogni affiliato si definisce appartenente al “sistema”, ogni ragazzino quando fa riferimento al potere del clan lo definisce “il potere del sistema!”. Quando Cesare Previti organizzò la celebre conferenza stampa in vista della sua condanna, chiese aiuto al “sistema” al fine di intervenire per salvarlo dalle patrie galere. Lui ovviamente intendeva far riferimento all’apparato politico-economico, ma nei quartieri napoletani, lungo le periferie, nelle case degli avvocati dei clan, le risate sono state fragorose: “Azz’ Previti chiede aiuto al sistema!!” Il gioco di significati esplose, a Napoli chiedere aiuto al sistema significa chiedere aiuto ai clan. L’ironia del divo Cesare, benché involuta, ha generato parecchio sollazzo.
Non è solo questione di terminologia, sconosciuta. Ormai dalle testate giornalistiche dai testi saggistici, dalle discussioni politiche, sono scomparse le analisi sui fenomeni criminali organizzati. Tutto si è pacificato, la criminalità, il grande flagello è divenuta la microcriminalità, il piccolo spaccio di droga, lo stupro. Insomma l’atomizzazione delle questioni criminali ha portato ad un’incredibile indifferenza ed ignoranza verso lo studio della struttura criminale organizzata. Di “camorra” usando il termine primo, non è possibile parlare. Il microcrimine, il disagio notturno del cittadino, il magrebino che spaccia fumo, sono sovrapposti al crimine organizzato.
Io vivo a Caserta. Il casertano, l’agro-aversano, l’agro-caleno, sono territori totalmente egemonizzati dalle cosche. Un potere tirannico la cui espressione massima è sintetizzata dalla confederazione dei “casalesi” ovvero il clan di Casal di Principe (CE) che dirige ed unisce tutte le famiglie del casertano, imbastendo rapporti di privilegio con i clan siciliani, con i calabresi e che racchiude nel suo alveo d’affiliazione anche i violentissimi clan albanesi. Non si muove foglia nel casertano, che loro non abbiano deciso di muovere. Tutto il ciclo del cemento, la spazzatura, l’apertura di esercizi, lo smercio, la distribuzione, il movimento dei tir, la creazione di banche, tutto è deciso per volontà della cosca. I poteri però non si limitano ad essere imposti esclusivamente sul territorio casertano ma anzi, l’Emilia Romagna, il Veneto, Santo Domingo, la Scozia, sono soltanto alcuni territori in cui i loro capitali puliti investono in aziende, case da gioco, villaggi turistici, alberghi, lidi, assicurazioni, aziende agricole!
Raccontare dei fuoristrada dei capizona, dei boss che passeggiano a braccetto con i politici, dei tavolini al bar che divenuti uffici dei boss per “pubblicare” l’alleanza con un imprenditore, è divenuta usanza rara, eppure abusata. Sarebbe una narrazione stantia che farebbe appassionare qualche giallista, o semmai qualche torinese melanconico. Capire bene il meccanismo-camorra è cosa davvero complessa. Bisogna innanzi tutto sbarazzarsi la mente dai retaggi folkloristici e d’annata. Il camorrista non gira con la lupara, non è ignorante, non vive nelle bettole, non parla il dialetto come unica lingua della carne! Il sistema/camorra è il valore aggiunto di un’impresa, il suo esistere non è ruolo parassitario ma anzi riveste un’attività partecipativa. Un industriale che vuole aprire un’azienda ma ha difficoltà a farsi finanziare l’attività dalle banche, si rivolge ai clan, che fanno da garanti. In cambio l’azienda appalterà alle ditte del clan, riciclerà i suoi soldi, assumerà le sue persone, il clan del resto “proteggerà” i tir dell’azienda da assalti e rapine e parteciperà all’affermazione nel mercato dell’impresa. L’azienda verserà regolarmente una percentuale dei suoi profitti al clan, ed in tal modo instaurerà un rapporto economico che non solo genererà sicurezza finanziaria ma anche una sorta di protezionismo clandestino fondato sull’intervento militare del clan sui prezzi e le logiche della concorrenza. Per segnalare con empiria tale logica, basta osservare il comportamento dei La Torre di Mondragone (CE) che possiedono una serie sterminata di pizzerie e ristoranti italiani in Scozia. Quando i concorrenti, le altre aziende di ristoro italiane, abbassano i prezzi rendendosi più competitive, il clan interviene militarmente sui fornitori (la maggior parte mediorientali) obbligandoli ad alzare i prezzi della farina o innescano una serie di furti ai tir di distribuzione impedendo di imporsi sul mercato a prezzi di convenienza. La camorra, come diceva un vecchio politico della corrente dorotea “aggiusta” il mercato!
Il pizzo per le grandi imprese non è quasi mai uno svantaggio ma è una dialettica di mercato. La camorra – bisognerebbe dirlo senza pudori post muro di Berlino- è l’accumulazione originaria della media ed alta borghesia (essì, Marx è vivo!!) campana. L’imprenditoria meridionale attraverso il rapporto con il crimine organizzato riesce a tutelarsi dalla mano invisibile del mercato, partecipa ad un mercato infinito, senza limiti e vincoli di legalità ed illegalità; pertanto può godere in tempo di recessione, delle economie sempreverdi del mercato della droga della prostituzione del contrabbando, del traffico d’armi che divengono miniere capaci di sostenere le proprie, aziende, i propri supermercati, le proprie ditte, a livelli profondamente altri, da quelli del mercato.
Eppure analisi sistemiche, indagini culturali, tutto è dismesso. Qualche piccola luce d’attenzione viene data a “Binnu u’tratturi”, il vecchio Provenzano, oppure dopo episodi di sangue si accenna alla barbarie della criminalità organizzata, ad un problema irrisolto, ad una piaga eterna. Cenni di cronaca che si disintegra con los fogliare il giornale. Di questo silenzio, della distrazione d’attenzione, il “sistema” ne gode più d’ogni altra cosa. La priorità delle famiglie mafiose camorriste e n’dranghetiste è la naturalizzazione, il divenire come accadde durante la dittatura democristiana, elementi strutturali, scontati, ovvi, all’intero dell’apparato politico-economico. La camorra non esiste, è la più comune delle affermazioni dei boss campani (vedi Vincenzo Lubrano e Francesco Schiavone). Quando la DIA beccò il superlatitante Schiavone, in un sotterraneo costruito sotto la sua villa a Casal di Principe (CE), la sua motivazione, per quel nascondiglio fu: “sono un proprietario terriero, l’invidia dei braccianti e degli altri proprietari mi costringe a nascondermi per proteggermi !!!”. Quasi geniale…
Quando su Diario ho scritto appena due paginette su Francesco “Sandokan” Schiavone, mi giunsero due telefonate di minacce “parla degli affari tuoi!” e squartarono le ruote dell’auto. Avevo nell’articolo denunciato la richiesta “Cirami” fatta dai legali del boss, che avrebbe potuto far uscire per decorrenza dei termini di custodia cautelare il leader della confederazione delle cosche casalesi. Non ha dato fastidio l’articolo su di una rivista tutto sommato elitaria e lontana dai loro circoli d’interesse. Ha infastidito che si trattasse dei “casalesi” della potentissima e sconosciuta cosca che proprio in nome della sua “naturale” presenza può contare su una totale emancipazione dalla pressione della stampa nazionale (quella locale è completamente finanziata da loro!!!). Rendere note su un giornale nazionale le vicende della cosca è stato letto come imperdonabile invadenza, fastidiosa eccezione che doveva esser “avvertita”.
Perché racconto tutto ciò? Perché tedio la “Nazione Indiana” con queste cantilene? Le domande retoriche hanno il vantaggio di predisporre ad una soluzione finale il discorso, dimezzando l’impegno di prosa. Il livello di impunità raggiunto dalle cosche e dal sistema-camorra è tornato altissimo con il governo Berlusconi. Mi prendo ovviamente la responsabilità di tale (banale?) affermazione. Eppure dopo la fase offensiva fatta dallo Stato culminata con la morte di Falcone e Borsellino e l’inizio del terrorismo mafioso, il sistema-criminalità ha nuovamente preso potere, assolutizzando il suo ruolo imprenditoriale, riuscendo a rendere invisibile il suo apparato clandestino ed a legittimare, pulire, nettare i suoi apparati “oggettivi”.
Oggi si spara meno, poiché le dirigenze camorristiche, mafiose e n’dranghetiste, hanno compreso che la misura militare dev’esser ridotta al minimo, relegata esclusivamente alla punizione di “infami” e alla dialettica “interna” ai clan. Il Leviatano della criminalità organizzata ha compreso le logiche dei media, gli spazi della politica, le modalità del nuovo potere. Mostrare la possibilità di morte, piuttosto che esprimere in atto tale potenza. Sparare, terrorizzare, ostentare la propria possenza militare non è conveniente, o meglio, non è conveniente in ogni fase. Gli omicidi di personaggi esterni ai clan, di giornalisti o magistrati sono scelte mortali, che possono esser fatte per imprescindibile necessità ma il cui contraccolpo non può che riversarsi sull’intera dirigenza che ha emesso l’ordine di morte. Il clan dei Nuvoletta (affiliati napoletani di Cosa Nostra) ha avuto danni enormi dall’omicidio del giornalista de “Il mattino” Giancarlo Siani, e il boss Angelo Nuvoletta è in carcere come mandante dell’omicidio. Il suo ruolo di trafficante di eroina, di boss di uno dei clan più violenti d’Europa, è stato quasi impossibile dimostrarlo attraverso le indagini. Ciò va detto proprio per dimostrare la pericolosità di esporsi fuori dalla propria “gestione”. Meglio mettere la sicura alle armi, far circolare affari e danaro ed evitare di colpire personaggi della società civile, si rischia troppo rumore, troppa pressione dell’opinione pubblica per la ricerca dei colpevoli!
In questo contesto tremendo, studiare, raccogliere ipotesi, voci, fotografare i treni di rifiuti che si fermano in stazioncine fantasma per poi essere scaricati nelle redditizie discariche abusive, diviene attività pericolosissima. E’ come fissare la gorgone Medusa. Scoprire certi passaggi, assistere a particolari incontri o spostamenti può divenire letale poiché significa osservare il momento “criminale” del processo che successivamente si sintetizzerà in una dialettica legale e legittima. A volte, quando vedo sotto casa mia qualche personaggio a me ben noto per essere “uno di loro”, come “Rafele o’pazzo” penso che sia giunto per me. Lo dico sinceramente senza alcun timbro melodrammatico. Esco di casa, lo vedo, spesso fuma seduto su di una moto, anche se sfigura essendo più che cinquantenne. Penso che ho scritto qualcosa che non dovevo scrivere, sono andato a fotografare discariche che non dovevo immortalare, ho fatto domande a persone che non avrei dovuto scocciare. Gli passo davanti, non ritorno sui miei passi verso casa, penso: “tanto questo se spara, spara alla nuca, un secondo, anche meno, ed è tutto finito”. Poi invece mi saluta, accenna un sorriso sotto i baffoni “Cià robè” e si rigira a parlare. Stava lì per chissà quale altro compito….
Mi lasciano fare, non faccio paura, non vogliono sprecare danaro. Eggià. Una volta in un pub, tutta la leadership degli Iovine di San Cipriano d’Aversa (CE) era riunita ad un tavolo. Passai vicino, avrei voluto sputare nei loro piatti, li fissavo, nervoso ed impotente. Uno di loro, forse Massimo, disse, “lasciamo perdere, non vale le cinquemila lire”. La moneta cambia, ma il detto non si aggiorna, cinquemila lire era il prezzo di tre proiettili da carabina, ovvero il fucile più scadente in circolazione. Il messaggio era, non sprechiamo neanche il danaro dei proiettili per abbattere un moschino che tafano non lo diverrà mai!
Ora Indiani, la letteratura può orientarsi nella battaglia al feudalesimo mafioso? Può farlo? Battagliare con il fioretto della grammatica, la sciabola della prosa può essere soluzione? Lo studio della malavita è soprattutto culturale, l’ipotesi è lo strumento primo, il grimaldello per alzare la grata della fogna!
Mi son sempre rifugiato nella letteratura, del resto nel complesso ginepraio delle logiche camorriste, è possibile solo congetturare, e la congettura è l’unico elemento che permette di imbastire ipotesi di senso, piani d’interpretazione che ti svelano con chiarezza i meccanismi causali d’alcune scelte politiche, d’alcuni investimenti, di determinate fortune o sfortune economiche. V’è qualcosa di più letterario di ciò?
Forse è giunto il momento di una chiamata alle armi, amici indiani! Non, credo, che vi stia dicendo qualcosa d’aberrante o fanatico. La scrittura forse, dovrà occuparsi con maggiore attenzione di questo infinito e diuturno fenomeno, solo la narrazione può riaccendere valutazione ed attenzione. I timbri delle procure sono purtroppo divenuti rumori sordi e scontati alla parte maggiore del nostro paese!
Ho sempre vissuto tra i testi come ci vivo ora che faccio recensioni su Diario, La Stampa e Pulp Libri, e galleggio in un mare di carta e inchiostro. Il libro può in qualche modo opporsi al potere culturale ancor prima che violento della mafia, della camorra, attraverso la sua energia prima: la congettura. La congettura ovvero come direbbe Uwe Johnson, la letteratura! Proprio il congetturare, l’almanaccare narrando, possono essere i nuovi percorsi per affrontare un problema così complesso come quello criminale. Potrebbe risultare strano, che proprio all’interno della questione mafiosa, dove il rigore, la prova, la ricerca del certo sono elementi fondanti, s’insinui la letteratura con la sua imperfezione, con la sua palese e recondita menzogna. Proprio laddove la giurisprudenza non può giungere, sondando la possibilità, catalogando l’impronunciato, aspirando il sospetto, può invece arrivare la letteratura che tutto può sostituire e riannodare, inventare, ipotizzare, stanare senza vincoli e paure del paradosso, senza appoggi politici e manovre militari!!
Ecco che quindi propongo, come è stato già fatto con il libro collettaneo “I disertori”, ma in maniera assai diversa, di scrivere un testo con decine di racconti, tutti incentrati non sul cancro ma sul corpo rigoglioso e sano del “sistema-crimine”. Ipotizzare, inventare, raccontare, narrare, rimettere sotto gli occhi dei lettori la contemporaneità del fenomeno, la potenza, la forza, la legittimità della cultura camorristico-mafiosa. Perché non farlo? Coinvolgere non solo narratori meridionali ma tutta l’intera schiera di scrittori disposti a ragionare su questo mondo a parte, sotterraneo, ufficialmente sconfitto, quotidianamente trascurato, letale per ogni civile esistenza. Attendo un vostro cenno, una vostra risposta all’appello! Come disse il conterraneo Pisacane “in fondo la rivoluzione significa tentare, ed esser certi che comunque terminerà la tenzone, sarà un risultato migliore rispetto al non averla tentata”.
Con estremo affetto
vostro
roberto saviano
Accidenti! Che bel pezzo, Roberto.
complimenti per il coraggio, ti ammiro molto.
Spero che gli illustri scrittori che frequentano questo sito aderiscano all’iniziativa.
Io, nel mio piccolo, mi propongo subito come lettrice e sostenitrice.