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Guardare il dolore degli altri

di Benedetta Centovalli

Sontagleft.jpgSontagright.jpgNel 1917 un generale inglese conquistò la Mesopotamia e alla fine della prima guerra mondiale l’Iraq fu assegnato alla Gran Bretagna. Il primo bombardamento aereo non è stata la carneficina di Guernica ma la campagna inglese in Iraq tra il 1920 e il 1924, come racconta il comandante delle operazioni militari Arthur Harris: «Gli arabi e i curdi adesso sanno cosa vuol dire un vero bombardamento in termini di vittime e danni; adesso sanno che nel giro di quarantacinque minuti un intero villaggio può essere praticamente spazzato via».

Davanti al dolore degli altri di Susan Sontag (Mondadori 2003), seconda tappa dopo Sulla fotografia (1977), è un libro sulla guerra o meglio è un libro che si interroga sulla rappresentazione visiva della guerra. Dalla guerra civile spagnola, la prima documentata modernamente con fotografi professionisti sul campo, a Dachau e Auschwitz, Hiroshima e Nagasaki, il Vietnam con l’uso delle telecamere, poi Kabul, Sarajevo, Mostar Est, Grozny, i sedici acri di downtown Manhattan all’indomani dell’11 settembre 2001, il campo profughi di Jenin… le fotografie del dolore ci mostrano quello che accade. Questa è la guerra. Come nelle acqueforti di Goya, I disastri della guerra, la cui narrazione si annulla in un effetto di accumulo devastante segnato dal binomio etica e sofferenza.

In un fitto dialogo con la Woolf delle Tre ghinee (1938), Susan Sontag riprende e rilancia quel noi di genere misto messo in forse dalla scrittrice inglese nel suo «Perché la guerra?»: «Non si dovrebbe mai dare un noi per scontato quando si tratta di guardare il dolore degli altri».

Dalla Crimea alla guerra civile americana i primi resoconti fotografici a distanza adottano un registro epico senza poter entrare nel vivo dei conflitti, mentre il perfezionamento delle tecnologie fotografiche e poi cinematografiche permetteranno un documento dettagliato e preciso: «L’immagine come shock e l’immagine come cliché rappresentano due facce della stessa medaglia». Nel raccontare in breve la storia della fotografia di guerra attraverso alcuni dei suoi protagonisti come il repoter Robert Capa la Sontag non smette di chiedersi quale sia la necessità di queste testimonianze in presa diretta e quale il loro indice di realtà.

Lo spettacolo del dolore degli altri produce assuefazione, indifferenza o provoca ancora le coscienze? È vero che l’accumulo delle immagini drammatiche di oggi non chiede di prendere posizione e di indignarsi? Le immagini della violenza possono ancora trasformarci in pacifisti pronti a ripudiare l’uso della forza e a condannare la guerra oppure a seconda delle ragioni far ripensare la guerra come ultima difesa di un paese, di una identità, della libertà di un popolo? Ci troviamo davvero davanti a immagini depotenziate del dolore? Come quelle che abbiamo visto durante la prima guerra del Golfo, una guerra al computer raccontata da comete sinistre su un cielo virtuale e senza storia? Oppure come quelle dell’ultimo conflitto in Iraq, terribili ma alla fine autorizzate, drammatiche ma governative?

Documenti storici, veritieri o impuri, di grandi crimini e crudeltà di un secolo pericolosamente incline allo sterminio, «che fare del genere di conoscenza delle sofferenze lontane che le fotografie ci offrono?». Come dare una misura all’orrore quotidiano cui siamo chiamati come spettatori? Un’ecologia delle immagini? La Sontag ci assale con una raffica di domande inevase, di sottili reticenze, di questioni impossibili da risolvere che inducono a una riflessione attenta sul nostro rapporto con la visione e sulla natura della nostra società. L’erosione del senso della realtà, non della realtà, è il risultato dell’usura da immagini, ma non per questo si deve rinunciare al principio di realtà a cui le visioni drammatiche ci costringono: ecco quello che gli esseri umani sono capaci di fare, non dimentichiamolo. Le immagini come narrazioni, atto etico del ricordare e responsabilità di chi guarda, come narrazioni a cui affidare la sola possibilità di opporsi all’occulta tentazione di disintegrazione dell’umanità contemporanea (E. Morante). L’atteggiamento perplesso della Sontag ha il pregio di riaprire una riflessione che in apparenza languiva nella banalizzazione della critica alla modernità come società televisiva dimenticando quanto di questa rappresentazione non ci somiglia: «Cosa prova, infatti, che le fotografie abbiano un impatto decrescente, che la nostra cultura dello spettacolo neutralizzi la forza morale delle immagini di atrocità?». Siamo convinti che la realtà non esista che in forma di immagine? Non è questa ormai una vuota retorica della tarda modernità? Se l’informazione è stata trasformata in intrattenimento televisivo e presume che tutti diventino spettatori, vuol dire che la sofferenza non è più reale. Siamo sicuri che il dolore non ci riguarda più? Ammettendo che la soglia della cognizione del dolore si sia alzata, per questo non saremo più in grado di reagire? Il «privilegio di essere, o di rifiutarsi di essere, spettatori del dolore degli altri» dovrebbe piuttosto indurre «i cittadini della modernità» a «guardare con cinismo alla possibilità di essere sinceri». «Designare un inferno non significa, ovviamente, dirci come liberare la gente da quell’inferno, come moderare le fiamme», per questo la Sontag resta convinta che sia necessario continuare a raccontarlo.

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Pubblicato su Stilos il 24 giugno 2003

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