L’uso dei saperi
Andrea Inglese
Dopo qualche mese di partecipazione a Nazioneindiana, nella sua versione “dialogante”, ossia con oblò verso l’esterno, anzi porticina o falla volontaria per passaggi, intrusioni e scorribande, tenterò un primo bilancio spassionato.
Innanzitutto, nonostante l’esperienza sia stata comunque breve, mi pare indubbiamente proficua per lo stesso progetto che anima il sito e per i singoli partecipanti ad esso. La colonnina sotterranea, un po’ catacombale, underground, dei commenti, sorta di dark room dello scambio intellettuale, dove ogni sparata è consentita come in un dibattito televisivo in miniatura, ebbene questa colonnina è comunque un luogo di vero passaggio. Qualcosa passa, anche se è difficile dire da dove e per dove.
Ciò è stato possibile, diciamolo, grazie a degli instancabili interlocutori di soglia, come Montanari e Voltolini (ma non solo), che hanno cercato in qualche modo di indirizzare il flusso, a ringhi o a sbandieramento pedagogico, senza mai per altro farlo venire meno. Anzi, si è visto come il flusso non li ha risparmiati, anche nelle sue forme più monotone e ipnotiche, come nel caso delle ritorno costante delle parole-feticcio.
In parole povere, verrebbe da dire: “se ne sono viste di tutti i colori”, ma in realtà non è cosi. In molti casi, si sono visti solo un paio di colori, quando non si cadeva sotto l’impero del monocromo puro. Capitemi subito: non sto chiedendomi come mai, spesso, sono i meno acuti che intervengono. (Questo per altro è un fatto: i commenti più pertinenti sono in genere sporadici, circoscritti, e non tendono ad innescare la spirale polemica.) Mi sono ormai convinto che, per un paio che si presentano puntualmente all’oblò con il loro dispaccio giornaliero di lamentele, ce ne sono cento che prendono ciò che gli serve, scartando il resto, e se ne vanno con assoluta discrezione.
Ma arriviamo al nocciolo. Musil lo avrebbe espresso così: “come mai una moltitudine di persone sufficientemente colte, informate, intelligenti tende, nel suo funzionamento d’insieme, a produrre risultati mediocri o, a volte, perfettamente stupidi?” La formulazione inversa è altrettanto efficace: “come mai da un’accozzaglia di individui mediocremente svegli e talentuosi può nascere qualcosa di straordinario?” (Rovesciando l’immagine enfatica della “ragnatela mondiale”, potremmo anche vedere la rete e tutti i suoi siti non commerciali come un collegamento di salotti, anzi come un grande salone dalle molteplici stanze. In esse, una gran folla di giovani e meno giovani, di rivoluzionari da tastiera e di mentori da forum, organizza svariate Azioni Parallele, per il rinnovamento degli spiriti e dell’anima mundi.)
Non pongo quindi un problema di etica della discussione (telematica). Non m’interessa e mi sembra fuori luogo in un contesto simile. A volte, ed è del tutto evidente, mancano i più remoti presupposti comuni per impostare la questione in questi termini. Parlo invece del fatto che la rete è un grande nodo di intelligenze deste, attive, che interloquiscono in continuazione, ma con quali risultati?
È un problema di natura politica. Che cosa ce ne facciamo di tutto il nostro sapere?. Oppure: Che cosa potremmo fare con tutto questo sapere?. Questa è la questione che vorrei sollevare. Computer in casa o al lavoro, siti a cui collegarsi, esperienze personali, informazioni, sapere da far circolare, general intellect, moltitudine errante, comunità virtuali, discussioni pedanti, approssimative, brillanti, competenti, ecc. Un gran numero di laureati, di non laureati, ma qualificati professionalmente, di disoccupati, ma in aggiornamento continuo, e poi le quantità di insegnanti, formatori, psicologi, giornalisti, ecc. Tutta una classe media agganciata alla tastiera, per svago o larvato impegno, che accresce il proprio patrimonio di nozioni o cerca di confrontarlo con altri. Insomma, parliamo della parte apparentemente più dinamica, giovane e culturalmente privilegiata della società italiana. Da essa emergono anche alcuni candidati della futura classe dirigente. Che se ne fa del suo sapere? Come lo usa?
E poi. È riconciliata con il proprio sapere?. Io posso parlare per me. Innanzitutto, non ne so abbastanza. Va bene. Ma non è solo una simpatica questione di “come sono assetato di sapere!”. Per poter saperne di più, acquisire maggiori strumenti intellettuali, linguistici, tecnici, sono costretto a produrre e distribuire parte di ciò che già so, in forme quali l’insegnamento, ad esempio. Ma accadrebbe ugualmente se lavorassi in una casa editrice o in un quotidiano. Certo, il mio lavoro potrebbe non avere nulla a che fare con la mia ricerca di sapere. In teoria. In pratica, se faccio certi lavori, tornato a casa l’unica cosa che il mio sistema psico-fisico può ancora assorbire è un telegiornale, un film d’azione ed, eventualmente, un dibattito (?) da Maurizio Costanzo. Posso sostituirli con una navigata in internet e con un saggio di Foucault. Ma già sfioriamo zone di eroismo. E lo dico con rispetto. Una commessa, un impiegato di call center o un elettricista hanno oggettivamente più difficoltà ad accrescere il loro sapere intellettuale di un giornalista o di un insegnante. Che poi gli insegnanti, categoria alla quale appartengo, rasentino spesso forme d’inintelligenza rabbiose, questo è un diverso problema. Così come è più probabile che una commessa riesca a trasmettere onestamente quello che sa, a differenza del giornalista che, pur sapendo tanto, diffonde il minimo editorialmente consentito.
Accade infatti un fenomeno strano. Quelli che sono riusciti di più a porsi in una situazione di accrescimento del loro sapere, meno sono motivati a diffonderlo, a farne, in definitiva, qualcosa. Si potrebbe dire: si tengono il loro sapere per uno scambio valutario, ossia lo trasformano in potere personale. Verissimo. E banale. Ognuno con il suo sapere acquisito, pronto a spenderselo per un migliore salario, per un riconoscimento sociale, per un privilegio di categoria, ecc. Ma se spendiamo tutto il sapere in potere, cosa ci resta? Il sapere, per sua natura, promette di trasformare porzioni di realtà, risolvendo problemi che, in ultima analisi, riguardano un nostro accesso più o meno rapsodico alla felicità. Il sapere ci promette di poter fare qualcosa di buono e di bello della nostra vita. E questo, non so se a torto o a ragione, da Socrate in poi, ci pare essere un buon passo verso la felicità.
Ebbene, se il sapere è cambiato tutto nella valuta corrente del potere, nella sua forma più immediata e banale, questo ci impedisce di vedere che esiste un ben più esteso ed imprevedibile potere, quello che consente, ad esempio, di scuotere gli assetti sociali, certe abitudini intellettuali radicate e di massa, e così via. La Benedetti, nel suo pezzo su Pasolini, citando Petrolio, tocca questo punto. L’unico potere che tanta gente è disposta ad ottenere in cambio del proprio sapere, è il potere di inserimento e adeguamento, all’interno di un contesto di pratiche già definite, anzi definitive. Ma qui il discorso si fa complesso e non mi sento in grado di affrontarlo ora. Qualcuno lo ha probabilmente già fatto e senz’altro in modo sistematico. Mi interessa solo delineare il problema: il sapere fornisce strumenti di comprensione della realtà e di risposta alle sfide che essa ci pone. Di conseguenza, ci promette di poter fronteggiare quelle sfide, trovando o costruendo percorsi diversi, capaci di alleviare la nostra sofferenza e il nostro disagio. Eppure al sapere manca il coraggio, manca il coraggio di penetrare nelle nostre vite, di scuoterle, di renderle ipotetiche, incerte. Al sapere che abbiamo acquisito manca il nostro coraggio. Il coraggio di usarlo in modo spregiudicato e radicale, giocandoci con esso il nostro sogno di felicità. Anche perché il capitalismo non fa che questo. Esperimenti sugli esseri umani, a grandissima scala. In una sua canzone, De André diceva: “chi non terrorizza è morto di terrore”. Dell’odierno mondo capitalista si potrebbe dire “chi non è sperimentatore farà da cavia sperimentale”, o “chi non manipola sarà manipolato”. Lo esige il sistema dalle sue classi dirigenti. “Raccogliete il sapere, consegnatecelo tutto, e avrete il potere di mettervi al sicuro, dietro la parete di vetro del laboratorio, mentre dall’altra parte la vittima dell’esperimento scruta una superficie di specchio.”
Bizzarra metafora? (O forse troppo ovvia?) Traduciamo comunque: siamo nell’era della formazione permanente (già, che suona simile a “rivoluzione permanente”, ma è un’altra cosa). Cioè. Qualcuno sperimenterà del sapere sulla tua vita, a fini principalmente produttivi. Se così vanno davvero le cose, allora la nostra quota di sapere, individuale e collettivo, stagnante o mobile, non è meglio giocarcelo in anticipo?
Cosa intendo dire? Voglio moralizzare la rete? Basta cazzeggio telematico, tutti sotto, con impegno, a partorire qualche mostruoso piano per far venire un’emicrania perforante a Bush, Blair o Berlusconi? Chiedo qualcosa di molto diverso e ben più modesto. Falsamente modesto. Una verifica dei saperi. E la citazione non è pretestuosa.
Vediamo un attimo. Quanti popoli patiscono ancora un tasso di analfabetismo che incide in modo nefasto sul loro destino? In Senegal, una maestra di scuola elementare deve gestire classi di cinquanta allievi. E a causa delle risorse limitate, spesso le varie sezioni di una stessa classe si alternano. I bambini vanno a scuola un giorno sì e un giorno no. E quando crescono, alcuni di loro fanno i salti mortali per venire in Italia a lavorare come noi non vogliamo più lavorare. E noi. Abbiamo lauree appese anche in bagno. Abbiamo le fibre ottiche sotto il culo. E il computer perennemente collegato. E allora un sospetto mi sorge, cacciando la faccia fuori dall’oblò di Nazioneindiana. Non è che tutto questo bendiddio, che tutto questo straordinario, dinamico, eclettico, aggiornatissimo sapere, si incarna di preferenza in forme di petulanza e pedanteria ottocentesca. E ancora. Alcuni di noi, fuori e dentro NI ovviamente, hanno raggiunto forme di sapere specialistico. Non importa qui in quali settori. In che modo possiamo diffondere queste nostre acquisizioni, ossia come poter divulgare?
La battaglia estiva dei dizionari, con Montanari esasperato ma tenace, che perseguiva il suo obiettivo didattico, non è stata una battaglia vana. L’oblò era aperto per la solita, eventuale, discussione. Il dibattito dopo l’intervento. Quel tipo di dibattito, che ancora oggi, quando si tratta di persone in carne ed ossa, relatori e pubblico, langue immancabilmente. Ed invece, spostandosi nell’elemento disincarnato e mezzo-anonimo della rete, esso esplode con generosità e furia. Tutti quegli assenti al dibattito in carne ed ossa, perché pigri, occupati a far altro, o disinteressati, trovano di colpo tempo, passione e voglia per intervenire, discutere, criticare. Altri, che al dibattito tacciono, sono timidi, o si masticano in bocca una domanda per un quarto d’ora senza mai sputarla, anch’essi si fanno gagliardi e loquaci. Strano, ma bene lo stesso. D’altra parte c’è anche una questione pratica. I tempi. Con la rete, ognuno può discutere con un altro, inframmezzando pannolini da cambiare, ore d’ufficio, chiacchierate con gli amici, ecc.
Dunque un enorme voglia di confrontare i propri saperi. (Escludo di prendere in considerazione una delle motivazioni principali che spingono i frequentatori della rete a intavolare certe discussioni. Si tratta dell’ebbrezza tutta particolare che scaturisce dal maltrattare, zittire o anche solo parlare da pari a pari con una persona nota. La escludo, perché è la motivazione meno interessante, ma grazie al cielo non l’unica. E lo so per certo. Hanno maltrattato anche me che non sono noto.)
Ora il confronto di saperi è una cosa per nulla lineare. Anche quando è fatto in buona fede. Ci sono, ad esempio, le differenze di livello. Può accadere che ci svegliamo tutti di colpo con l’urgenza di parlare di quella parola-feticcio, che non nomino più, in nessuna lingua ormai. (Almeno per questo mese.) Anzi, ci svegliamo e dobbiamo parlare dell’eutanasia dei canarini. Un autore più o meno titolato scrive il suo pezzo sui canarini. La gente lo legge, e vuole dire la sua. Qualcuno è convinto di aver capito una cosa essenziale sulla questione canarini. Ha la possibilità di comunicare con l’autore del pezzo. S’intavola una discussione aperta ad altri interlocutori che hanno da dire sui canarini, ecc. Ora, se uno di noi affronta la questione eutanasia-canarini, muovendo da premesse che sono vecchie anche solo di un ventennio, mentre la scienza dei canarini e le dottrine sull’eutanasia si sono nel frattempo evolute, e un altro di noi ne è al corrente, allora la discussione è già compromessa in partenza. Vent’anni di sapere separano i due interlocutori. La discussione non può mai davvero partire, perché mancano i presupposti comuni necessari al procedere del dialogo. Vi è un elemento cumulativo nel sapere, che non può essere ignorato o sottovalutato. Non è vero che si comincia sempre da zero. Esistono istituzioni e gruppi sociali, che in modi mille volte criticabili, si occupano comunque della trasmissione e della ricerca dei saperi. Ad essi, inevitabilmente dobbiamo far riferimento. Esiste una storicità dei discorsi, dei principi, dei modelli di descrizione della realtà. Possiamo rimettere in questione tutto, anche il modello eliocentrico, ma non possiamo ogni volta ripartire da Tolomeo, ignorando quello che è venuto dopo.
Quindi, per non farla lungo, quando c’è una differenza troppo importante di livello, la discussione da pari a pari si blocca, e dovrebbe subentrare la relazione didattica, con la sua corrispondente relazione asimmetrica (ma non unilaterale). Ma perché questo accada, ci vuole la volontà di insegnare e quella di apprendere. Spesso mancano entrambe. Il sapiente snob non si misura mai con chi non è un suo pari (probabilmente pensa che sia “tempo perso”). L’ignorante superbo pretende di insegnare al maestro. Il problema è che la televisione ci ha, da vent’anni ormai, abituato a credere che ognuno ha diritto di parola, anche sapendo poco e male, anche di fronte a chi ne sa di più e meglio. Questo è un falso principio di democraticità. Non tutti possono sapere tutto. (Io non so neanche come funziona la mia caldaia.) E quindi parlare di tutto. Ma tutti dovrebbero decidere che cosa fare con un certo sapere. Siccome io non me ne intendo di fissione atomica, non dovrei decidere del ruolo che l’energia nucleare svolge nella mia vita? Ma qui la società dell’informazione gioca sporco. E confonde ogni volta i piani. Prima permette a qualche idiota pericoloso di sostenere, di fronte a uno storico di professione, che i campi di concentramento nazisti non hanno mai posseduto delle camere a gas. In democrazia ognuno può mentire od essere ignorante finché vuole. Poi, di tanto in tanto, richiama tutti all’ordine. E fa entrare in scena un economista plurititolato che spiega perché i ricchi hanno bisogno che i poveri soffrano un po’ di più o perché è necessario vendere macchine, anche se a forza di respirarne i fumi crepiamo di cancro come degli imbecilli. Qui lo specialista, in virtù di un sapere che lui esclusivamente possiede, ci rassicura sul fatto che dobbiamo delegargli il modo di usarlo. Lui solo sa leggere i conti della spesa, lui solo decide che cosa dovremmo mangiare a pranzo e a cena. (Strano principio. Venisse un analfabeta a chiedermi aiuto per la sua spesa, non vedo perché dovrei decidere che cosa fargli acquistare. Sarà ben lui a dirmelo.)
Quindi, come conclusione provvisoria, invito tutti a mettere alla prova i propri saperi. Almeno in due sensi. Chi non è specialista sappia riconoscere ciò che lo specialista gli offre. Chi non sa nulla di Adorno o di Debord, ad esempio, rinunci a formulare un giudizio categorico sui brani della Benedetti che riguardano Pasolini. Quei brani implicano una storicità del discorso sul potere, che non si può ignorare per comprenderli appieno.
Ma chi non è specialista ha anche un compito importante: egli può sempre valutare se il sapere che lo specialista gli offre gli serve o meno, lo riguarda oppure no. Più in generale, un pubblico dovrebbe, di fronte all’ordine del giorno proposto dagli specialisti, giudicare ciò che è degno di interesse per la propria vita, ben al di là degli ambiti di discussione ristretta della critica letteraria, della filosofia o della sociologia. Il pubblico dovrebbe sempre poter dire agli specialisti: “traduci il tuo discorso, che interesse può avere per me, quali possono esserne le ricadute sui nostri destini?”. (Ciò non esclude che il pubblico possa sbagliarsi, su questo. Diatribe tra dotti che appaiano come discussioni sul sesso degli angeli, potrebbero avere, un giorno, risvolti concreti e materiali del tutto inaspettati.)
In tutto ciò c’entra Nazioneindiana? Credo di sì. Io vedo questo progetto, tra le altre cose, come un tentativo di riproporre, nel contesto attuale, una vecchia idea del ruolo del critico. Un’idea che esprime Fortini nella premessa a Verifica dei poteri. Nonostante molto sia cambiato in quarant’anni, un’esigenza mi sembra ancora legittima e fondamentale. Quella di concepire “il critico come diverso dallo specialista, come colui che discorre sui rapporti reali fra gli uomini, la società e la storia loro, a proposito e in occasione della metafora di quei rapporti, che le opere letterarie sono”. Il linguaggio suona strano. Si potrebbe tranquillamente dire: suona vetero-marxista. In effetti, il medesimo concetto lo possiamo formulare in modo più aggiornato, più “XXI secolo”. Molti riferimenti teorici e storici di Fortini si sono semplicemente inabissati, e ancora prima della sua scomparsa. Ma un punto importante resta. La letteratura è un modo di sognare la vita e la felicità umana, non è un puro gioco di società tra gli altri. Non è un passatempo intelligente. Ma tra il sogno, il desiderio che lo produce e le condizioni materiali che scatenano il desiderio, non è facile riannodare i fili. Ad alcuni neppure interessa. Secondo questi ultimi, la letteratura ha un suo ambito circoscritto, non troppo impegnativo, in quanto i giochi seri si fanno altrove. Ma io credo che conoscere i propri desideri sia qualcosa di serissimo e fondamentale. E ho l’impressione che pochi, oggi, se ne rendano conto.
Forse nessuno degli scrittori, registi, uomini di teatro, e critici, che compongono NI, si riconoscerebbe esattamente nella frase di Fortini. Ma credo che tutti siano d’accordo con l’idea di rompere la separazione dei saperi e dei discorsi, il contorno rassicurante dello specialista o dello scrittore professionista. Ed è appunto questa rottura, praticata in pubblico, attraverso una sorta di blog, che richiede di interrogarci esplicitamente su questo punto: “che tipo di sapere è il nostro, a che cosa serve, come possiamo trasmetterlo?”.
A me sembra così:
che, in Italia, con la scrittura del tardo ‘900 e le categorie estetiche, così pressanti e stringenti nella tradizione culturale occidentale, il linguaggio abbia assunto un maggiore potere coercitivo e che, su un altro versante, abbia perso la sua potenza creatrice. Dunque ha fatto fatica a preservarsi un’idea di parola come forma di energia che crea e ricrea, qualcosa di immediato, capace di generare unità ed insieme..
Naturalmente sintesi non ne propongo, anche perchè cronologicamente sono l’indiano ultimo arrivato (e poi non sono stato neppure maltrattato da Ilde..).
Però è questo che io ritrovo in NI: il tentativo di uscire da una sorta di metafisica della sconfitta letteraria, la convivenza tra scrittori così differenti mi sembra possa mirare a una “parola indiana” come registro –rubrica, anzi- delle opzioni disponibili (tutte!) ad impedire che la scrittura venga ignorata o esclusa nelle sue apparizioni più vitali. E’ una cosa importante, il movimento è a uscire, non a difendere, il confronto dei saperi io lo vivo soprattutto in quest’ottica.
Abbozzo, è chiaro, ma se la tensione è questa si può giungere a nuove chiavi di volta, originali, nuove strategie di avvicinamento alla realtà.
Ben detto, Inglese. Ognuno badi ad aggiornare il proprio sapere. Lo dica a Montanari, per primo, che deve andarsi a studiare un poco di latino prima di affrontare certe discussioni impegnative. Nazione indiana mi dà sempre più l’impressione di Fini come lo dipinse D’Alema a Milano qualche mese fa: si presenta bene, ma non studia. Ecco come siete voi: vi presentate bene, con un bel look antagonista e intellettuale, ma non studiate troppo mi sa.
Prendo sul serio la critica di Gianni Ormezzano. Capita a proposito rispetto a una cosa che volevo provare a dire. Se io devo pensare al mio poco o tanto sapere, mi viene immediatamente da riandare a ciò che ho imparato negli anni di studio. Se poi mi concedo di essere più inclusivo, sommo a questi anche gli anni di lavoro in un laboratorio della Olivetti. Dunque tutta questa paideia finisce circa 10 anni fa! Dopo io ho aggiornato il mio sapere? Non lo so, forse ha ragione Ormezzano (parlo per me: Ormezzano ha senz’altro torto rispetto ad altri “indiani”). Non voglio dire che da 10 anni me ne sto a fissare un muro senza imaparare niente. Ma è vero che ciò che io posso dire di “aver imparato davvero” era di natura abbastanza diversa da quello che ho imparato negli ultimi anni. Insomma, se anche mi sono aggiornato, io non ho aggiornato QUEL sapere. L’ambito di studi che ho frequentato ha continuato a evolversi, e io di quelle evoluzioni non ne so più abbastanza da poter dire di “essermi aggiornato”. Mi sono occupato d’altro. Non ho continuato a coltivare quell’ambito. Ormezzano tocca un problema reale, per quanto riguarda me. Io non ho “studiato da scrittore” ovviamente. Quindi nella mia attività di scrittore non posso dire di proseguire uno studio. Non si pone più così, la questione. C’è una discontinuità fra i miei studi e la mia attività. A me sta bene, io non patisco di questo, ma non posso per questo negare alla critica di Ormezzano di cogliere, per quanto riguarda me, nel segno.
Le questioni di look e di presentazione e di cipria antagonista invece non le trovo per nulla pertinenti. Mi auguro che Ormezzano abbia voglia e tempo per provare a ragionare qui di questa cosa, a me servirebbe per chiarirmi le idee. Mi auguro però che, se ciò accadrà, certi toni che vedo già di nuovo spuntare non prendano il sopravvento sulle cose.
Dario tu dici: anche se mi sono aggiornato, io non ho aggiornato QUEL sapere. E’ un punto che m’intressa e vorrei capire. Lo spunto per possibili discussioni riguarda anche questo. Come possiamo ad un certo punto definire i nostri saperi; e, con “saperi”, intendo in questo contesto, qualcosa che possa essere reso pubblico, scambiato, messo in comune, criticato, ecc; escludo quindi forme di sapere che potrebbero essere non trasmissibili (esperienze troppo individuali) oppure trasmissibili solo nella forma di un’opera, sia essa letteraria o meno; quindi, tornando a quello che dici, quel tuo sapere “diverso”, più recente, in che contesto è nato? e credi che sia trasmissibile anche in forme non strettamente narrative?
Importante la questione toccata da Guerriero: il potere coercitivo o semplicemente illanguidito della parola “creativa”. (Le varie forme di estetizzazione della vita comune hanno contribuito a questo);io ne ho parlato in termini di automatismi diffusi, ma il punto è lo stesso.
Ad Ormezzano vorrei dire che il problema non sta nella volontà o meno di aggiornarsi (“avanti pigroni, prendete in mano sti libri, non fate solo finta di leggerli”); questo lo possono dire tutti; il senso di quanto ho scritto è ben diverso: a quali condizioni ci è reso possibile, nella società attuale, “aggiornarci”? Non siamo più nel campo dell’esortazione, ma in quello dell’analisi dei nostri desideri e delle nostre condizioni di lavoro.
Mi incuriosisce cosa possa essere quel sapere che non e’ specialistico, che non e’ squisitamente personale, e che non e’ trasmissibile solo nella forma di un’opera. Sembra un indovinello ma mi pare cruciale. Cosa si intende per ‘opera’? Un articolo su NI e’ un’opera? E un articolo su una rivista letteraria lo e’? In genere si considera che lo sia. Cosi intende per ‘sapere’? Io intendo cio’ che oggi (non da oggi) e’ eminentemente specialistico; mi pareva che Andrea Inglese la pensasse allo stesso modo. Per ‘specialistico’ poi intendo strutturato secondo criteri che si sviluppano entro una tradizione e una comunita’ che li condivide (quindi non necessariamente incomprensibili ai profani). Quindi mi pare che questo sapere reso pubblico (per tutti e non per pochi cioe’), e pubblicamente scambiato, semplicemente non esista come ‘sapere’. Che esista lo scambio di informazioni, opinioni ecc., ma che questo non sia ‘sapere’, ma appunto comunicazione. O no?
Io ci sto a dialogare, certo. I toni, anche aspri, non mi preoccupano, perché preferisco la sostanza dei discorsi, che adesso cominciano a parermi interessanti. A me il pezzo di Inglese sembra davvero un indovinello malriuscito, perché adesso, oltre la carta d’identità, cosa dovremmo esibire, prima di parlare, le lauree o i corsi di aggiornamento? E’ questo il sapere che si tramanda? Solo questo? Il sapere sta tutto e solo nelle opere. Punto. Le opere di qualsiasi tipo: di flaegnameria, d’arte, di culinaria. Il sapere sta nascosto dappertutto, e dovunque c’è un uomo c’è almeno un sapere. Mettersi a controllare i “saperi” di chi parla mi sembra una mostruosità, della quale capisco la motivazione strumentale in questo contesto conflittuale internetttistico, ma che, sinceramente, è improponibile.
Mi riprometto di tornare su questo argomento con un intervento più articolato, credendo anch’io necessario impostare (pragmaticamente) una “declinazione di generalità” nel momento in cui si instauri una comunicazione: è un diritto -oltre che segno di rispetto reciproco- avere la misura dei propri opponenti, tanto più su un blog e tanto più se costruito come NI.
Mi sembra, Savelli, che l’indovinello è frutto di una sua svista, di un “non” in più. Nel mio pezzo, io intendo, come lei, i “saperi” come pubblici, specialistici, trasmissibili, ecc. Nel breve intervento di Voltolini mi sembrava che si alludesse ad altro. A che cosa? Io credo che esistano forme diverse di sapere. Semplificando, me ne vengono in mente tre. Prendiamo un “sapere” sul “dolore”. Avremo un sapere pubblico, il sapere medico o neurologico o magari filosofico riguardo al dolore; poi può esserci un sapere sul dolore che io riesco a trasmettere solo nella forma di un testo poetico o di un romanzo. Non potrei esprimerlo in un altro modo. Al lettore di comprenderlo, nel momento in cui si appropria dell’opera. Infine può esserci un tipo di sapere “mistico”, o comunque legato ad un esperienza religiosa. Posso meditare sulle piaghe del Cristo. Si tratta di forme di sapere diverse. L’ultima delle tre è senz’altro quella che ci è più estranea, per ragioni storiche.
Dico la mia sui “saperi” e su come vedo NI, riflessioni minime ma l’argomento sarebbe vastissimo e anche le cariche implicite ed esplicite; dunque prendetele come una prima dialettizzazione. Parto. “Sapere” implica un utile, cioè una concettualizzazione a fini gerarchici; una comunità come NI pare attualmente basarsi su un insieme di saperi (per questo già dissi di uno squilibrio tra redattori e lettori) e solo per un malinteso filologico questa communitas internettiana potrebbe definirsi dono; l’accusa di “fascismo” mossa ai redattori è ingenua ma non troppo: dichiara ignoranza rispetto ai saperi rappresentati/squadernati dai redattori stessi. Ma l’equivoco più grande (sul quale si gioca per me la riuscita di NI) è questo: desiderano i redattori farsi degli amici (e dunque partecipare; ma in tal caso non andrebbe concettualizzato alcunché, lasciando al sentimento, dunque alle opere… c’è una bella “dichiarazione di impoetica” su nabanassar) o vogliono piuttosto discutere dunque dialettizzare, competere/opporre (col rischio dello sterile scambio di opinioni tuttologiche, quando non supportate da alte competenze specialistiche)? Per ora: Voltolini è dialettizzante-incerto, Montanari idem, Inglese dialettizza (ma è un suo modo di fare opera, dunque non suscita opposizione), la sig.ra Benedetti dialettizza (per questo nessuno risponde ai suoi articoli: chi ha il sapere sufficiente per opporsi a lei? Giampiero Marano, infatti), Moresco lascia al sentimento. Paradossalmente, ancora una volta è Moresco a meglio rappresentare gli intenti autodichiarati da NI, anche nei suoi non-interventi (che sono essi stessi opera, liquido, non.forma). Chiudo con Scarpa perché mi pare che su NI faccia politica, cioè un uso strumentale della dialettica, e che quindi spesso si senta indifendibile, rifiutando addirittura la finestra dei commenti. Non sarebbe difficile trasformare NI in una communitas, basterebbe dialettizzare meno (sig.ra Benedetti a parte, che qui mi pare debba rappresentare proprio questo) e mettere magari estratti dalle vostre opere, lasciando emergere le voci artistiche, se e dove ci sono (e che non dipendono affatto dal numero di libri pubblicati o dalle autorizzazioni ricevute, caro Tiziano…).
Caro Cornacchia, mi aiuti a capire. Definisca la sua idea di critica (è il problema che sta sotto al suo intervento, andiamo, soprattutto quando accenna allo sterile scambio di opinioni..).
E’ solo qualcosa che porta a dialettizzare, competere/opporre? A concettualizzare?
Per lei Benjamin quando scriveva che la critica diventa l’organo privilegiato di una conoscenza,quando scriveva che essa fa apparire, nell’opera d’arte, l’ideale del problema come in una delle sue manifestazioni, cos’era? Un tuttologo petulante? E poi: che ne pensa della critica come collaudo di Scarpa&Benedetti?
Non le sembra che sia questo quello che, il più delle volte, si fa su NI?
Un saluto.
Intervengo in punta di piedi, non voglio irritare nessuno, giuro. Ho letto l’accorata richiesta – poiché tale mi sembra – di Andrea, un’evocazione che comprendo molto bene a partire da un contesto comune, che condivido con lui, e che è la fine degli Ottanta e la prima metà dei Novanta. Allora la questione dei saperi come poteri era postumamente trionfante. Concordo, perciò, con l’analisi di Andrea, io stesso chiedo da anni un comune fortinismo di riporto, rivisto, stravolto, riapplicato. Proponevo a parecchi scrittori, poco tempo fa, un’opera comune di verifica dei poteri che fosse una verifica dei saperi. Però, oggi, leggendo l’intervento di Andrea, mi sono detto: l’oggetto dei saperi, il puro oggetto, qualunque esso sia, ha implicazioni politiche pari almeno, se non superiori, alla questione del metodo, alla metafisica del metodo. Ragiono così, perché io e Andrea, alla Statale di Milano, siamo stati falcidiati da cascami improponibili della questione metafisico-tecnica. Ora, mi chiedo, lo chiedo a voi: esistono oggetti privilegiati? Dico privilegiati in senso storico, in senso tattico, in senso materiale. Secondo me esiste un oggetto privilegiato: è il sentire, è la pelle. Non voglio cazzeggiare alla Deleuze, intendo davvero il corpo concreto: questo qui che sta battendo su una tastiera. Studio da anni neuroscienza, assisto allibito al balzo epistemologico che le scienze della mente stanno compiendo non in questi anni, ma in questi giorni. La dipartita prematura di Varela non frenerà una catastrofe preannunciata e concretissima di paradigmi a cui siamo abituati da decenni. La questione della neopsichiatria, dell’uscita dal linguaggio, la ripresa insperata e completamente deviata dell’esperienza filosofica indicata da Husserl, l’umanesimo allo stato quintessenziale che spira addirittura dal tempio dell’antiumano che è il MIT – tutto ciò sembra porre fuori questione una ricerca di verifica generalizzata. Mi sembra quasi che si sia passati alla logica benjaminiana dell’emblema: ma verificata. Ci sono punti del sapere e della storia che sono a volte intensi, a volte in sonno. La teoria delle percezioni e quella delle passioni, oggi in radicale e rivoluzionaria riformulazione, segnala che la verifica dei saperi è attualmente da configurarsi in verifica di un sapere: quello della coscienza da cui origina “io”.
Non credo Giuseppe che il problema di una verifica dei saperi riguardi l’individuazione di un oggetto privilegiato di sapere (il cervello, la pelle o, come successe ai tempi di Freud, il pisello). Questa questione riguarda semmai problematiche tutte interne ai saperi, sul ruolo di scienze o metodi guida, ecc. Piuttosto mi chiederei: questa rinnovata scienza delle passioni (nata nel Seicento, ma, come giustamente segnali, ritornata oggi “di punta”) come può essere condivisa al di fuori dell’accademia e dei laboratori, e a cosa ci può servire nel nostro progetto di vita felice? E di certo, non è indifferente, anche da questo punto di vista, la questione della pelle. Bisognerebbe capire quanto gli studi di cui tu parli (Varela, ad ex)siano “divulgabili”, ma anche efficaci per noi nella vita ordinaria.
Una mia idea di critica? Certamente partirebbe da Dewey per tendere -via Wittgenstein e Wollheim- ad una convergenza con la fenomenologia, secondo quanto dice anche Genna; un’altra via per me egualmente interessante passerebbe per Quine e Rorty. Al momento non posso però strutturare un discorso adeguato a riguardo e mi rendo conto che mi toccherà farlo, anche presto.
Saluti.
Per l’appunto, Andrea, il rinnovamento “umanistico” a cui mi riferisco non prende in oggetto il pisello, come del resto sappiamo bene non prendeva in oggetto quello nemmeno Freud. Il richiamo che facevo era di prassi: o gli intellettuali si danno una mossa o la partita decisiva se la guardano dagli spalti. Perché la divulgabilità degli studi di Varela non è questione: in quanto lui, Maturana e gli altri, da Goleman in giù, offrono proprio pratiche della felicità, e non certo in senso psicofarmacologico. Se la richiesta che avanzi fosse giustificabile, in qualche modo, sarebbe disastroso, perché ancora una volta ci troveremmo di fronte all’evenienza di una scolastica, del crollo della metafisica in religione. Un meccanismo che gli intellettuali per primi devono smontare, poiché questa betise proprio è per me l’antiumano. Ti faccio un esempio: quanta letteratura contemporanea entra davvero nella questione della coscienza? Della psiche che non è “io”? Del rapporto tra coscienza e pensiero? Della relazione tra coscienza e immagini? Questa cecità su simili centralissime questioni è stata coltivata per anni, qui da noi. Anche e soprattutto in un sistema educativo che io e te abbiamo esperito con alterne fortune. Il problema del potere, secondo me, o si inquadra in questa prospettiva o è fuori dalla realtà, privo di ciò che giustamente invochi: rapporto con la nostra vita di esseri umani.
Torno ora su una questione posta da Andrea Inglese qualche decimetro più sopra. Andrea dice: “Dario tu dici: anche se mi sono aggiornato, io non ho aggiornato QUEL sapere. E’ un punto che m’intressa e vorrei capire.”
Semplice. Quel poco che sapevo epr averlo studiato era fatto di cose filosofiche e semantiche, perché ho studiato filosofia e in particolare filosofia del libguaggio. Poi sul lavoro le cose che ho imparato erano di tipo più tecnico: linguaggi di programmazione, architetture di sistemi per il trattamento della voce, cose di sintassi applicata. Poi me ne sono andato e da allora non ho più affrontato nessuna esperienza strutturata di apprendimento. Certo che ho imparato delle cose, tutti lo facciamo. Anche mentre frequentavo l’università o lavoravo in Olivetti ho imparato cose che non c’entravano né con lo studio né con il lavoro. Quello che volevo dire è che ci sono dei settori incui la ricerca va avanti e occorretenersi aggiornati per poter dire di sapere quello che lì sta succedendo. Questo è il nesso di continuità che ho reciso. Non sono “aggiornato” nei campi in cui pure mi ero, se vogliamo, specializzato.
Ma tutto questo cosa ha a che fare con la mia attività di scrittore? Ha a che fare molto, ma comunque mi preme soprattutto dire che quella frattura io non la patisco come scrittore, proprio per niente. La vita,l’esperienza hanno una continuità, dentro la quale stanno innumerevoli fratture. Per scrivere non ho mica bisognio che quelle fratture non esistano, anzi, è il contrario. ma come faccio a rispondere alla domanda su COSA SO senza prima dire almeno QUELLO CH NON SO PIU’, visto che quello che non so è un terreno di ampiezza infinita? Per me questo è il primo passo.
Ancora una cosa, sempre preliminare. “Sapere” ha almeno due accezioni. 1) “Sapere che p”, dove p è un enunciato sensato (e vero); 2) “Saper fare x”, dove x è la descrizione di un oggetto o attività.
Qui di cosa si sta parlando?
Una cosa che NON SO FARE è scrivere senza errori di battitura…
Di cosa si sta parlando? Già… Io credo che si stia parlando di entrambe le forme del sapere di cui fai cenno, anche se io intendevo sopratutto distinguere un certo sapere verificabile e cumulabile in termini di proposizioni vere e/o sensate da un uso di questo corpo di proposizioni in direzione morale e politico, di un progetto di vita e di società. Ora il progetto di vita e di società implica un sapere fare, una pratica. Ma non nel modo in cui uno può apprendere a montare una caldaia o a giocare bene a tennis. Credo che uno possa dire che ad un certo punto ha imparato a fare il rovescio, ma non so se uno possa dire la stessa cosa riguardo al suo progetto di vita: “ho imparato a vivere bene”. Si tratta di un sapere in costante disequilibrio…
Mi rendo conto che il problema generale non è impostato abbastanza chiaramente. Ma quello che intendo dire è: non tutti i saperi (come patrimonio di proposizioni verificabili e anche come pratiche) si equivalgono, in quanto non solo essi veicolano un potere (Foucault) non indifferente nei confronti delle persone, ma anche richiedono di essere usati secondo esigenze di soggetti storici e in situazione, che hanno urgenze e domande che non coincidono con lo spassionato e infinito procedere del sapere scientifico. Dunque dei dilettanti come possiamo essere noi scrittori, nel senso migliore del termine, dobbiamo porci il problema, parlando di letteratura o anche di altro, di politica e società, di essere assai diffidenti nei confronti del sapere specialistico più in voga, almeno nelle sue forme divulgate, a ricaduta ampia sul pubblico. Dovremmo insomma chiederci che cosa e perché viene divulgato? E come usiamo noi questo tipo di sapere divulgato (sia esso un agile bignami dell’ultima teoria narratologica o dell’ultima teoria cognitivista). Ma forse, in definitiva, il problema è ancora più semplice: quali sono gli strumenti culturali (quali discipline, quali autori, quali modelli teorici) disponiamo oggi per svolgere un’attività di critica militante, che sappia immaginare dei modi diversi di vivere, più felici e più giusti. Carla Bendetti ad esempio, mette sul tavolo alcuni strumenti teorici (Adorno, Debord, Pasolini e così via) e dice quali secondo lei sono pertinenti per studiare un certo oggetto (il potere)e quali hanno ormai perso di efficacia. Si può essere d’accordo o no sulle sue valutazioni, ma il tipo di lavoro svolto mi sembra importante e anche assai difficile. Di quale scombinata blusa di arlecchino è fatto il nostro modello di lettura delle opere letterarie? Quali i nostri presupposti taciti, i nostri prestiti dottrinali, ecc.? E che nessuno di noi possegga più un modello forte o dominante o univoco, non ci solleva dal compito di guardare con quali materiali e regole abbiamo costruito il nostro punto di vista e il nostro metodo di comprensione della letteratura.
Scusa Dario per la lunghezza dell’intervento. Forse ha chiarito poco. O forse ha dimostrato che la questione è ancora formulata in modo confuso.
Scusa Giuseppe. Una nota su quello che dici. Varela è utile per capire meglio la letteratura? (Per semplificare e capirci.) Perfetto. E che allora qualcuno ne parli, indirizzi me e altri alla sua lettura, mi suggerisca possibili connessioni. Ma giustificando, appunto, in termini politici questi suggerimenti. Perché è meglio Varela per leggere Beckett che i post-strutturalisti? Mi sembra quindi che siamo d’accordo. Ma questo lavoro di esplicitazione non sempre lo facciamo o viene fatto. Eppure credo che sia particolarmente urgente farlo oggi.
Appartengo ala numerosa schiera, una volta era fitta e di classe, oggi interclassista, perennemente in formazione e “agganciata alla tastiera”. Vi seguo con attenzione e per la prima volta, vincendo una giusta timidezza, intervengo, Tutto questo sapere che circola in rete, io lo benedico; cercando qua e là, leggendo, a volte studiando, ho imparato molto. Ho dato un senso alle conoscenze che confusamente, nel corso degli anni e di lavori coinvolgenti, ma anche strampalatissimi, avevo accumulato. Leggo, mi appunto i pensieri, delle nozioni, e poi sui libri, verifico, approfondisco, scelgo: opero delle scelte. Nel suo pezzo AI afferma che la discussione in rete, a volte ridonda un po’ di “petulanza e pedanteria ottocentesca”, è vero e, infatti, la mia frequentazione è pragmatica; ma lui pone delle domande importanti. Sostenendo che il sapere non può essere uguale per tutti, e che non si parte sempre da zero, formula due domande distinte: che tipo di sapere è il nostro, a cosa serve, come possiamo trasmetterlo? E poi, che tipo di sapere è quello che mi viene offerto, può servirmi a qualcosa?
Riflettendoci sono arrivata alla conclusione che la faccenda non riguardi tanto la divulgazione, quanto l’uso del sapere; non come trasmetterlo ma come impegarlo e perchè. Settimana scorsa a Roma, un tizio importante, di cui non ricordo il nome, individuava nella pedagogia, nell’azione pedagogica, l’ultima azione possibile. Non è più tempo di ragionamenti, anzi di tempo non ce n’è proprio più, è il momento dei manuali. In tutti gli spazi possibili, sociali, educativi, lavorativi, deve essere facile il riconoscimento di una fattibilità diversa, sapiente, e imitabile. Il nostro “pensiero” è noto e non necessita ne’ di divulgazione ne’ di approfondimento, è famoso, come lampante è il suo fallimento e la nostra sincera incapacità ad ammetterlo. Facciamoci da parte e lasciamo ai giovani degli strumenti: il meglio dei nostri oggetti, perchè noi non siamo altro. Ma siccome “l’essere è e non può non essere”, ci sarà un altro pensiero, altri ricominceranno daccapo, prepariamoci ad esserne sostenitori, e mi verrebbe da dire: esemplarin non templari.
Ciao a tutti, Miriam.