Difficoltà di una poesia politica, ossia di una poesia non consolatoria

di Andrea Inglese

Questo articolo è apparso sul n° 22 della rivista digitale L’Ulisse, numero dedicato a lirica e società, e poesia e politica.

Partecipavo a una lettura collettiva all’Esc di Roma, organizzata se ben ricordo in occasione della presentazione dell’antologia Poeti degli anni Zero curata da Vincenzo Ostuni. Lessi qualche testo dal libro Lettere alla Reinserzione Culturale del Disoccupato. Dopo le letture ci furono anche degli interventi critici, e ne ricordo uno di Francesco Muzzioli, che reagiva a caldo e si felicitava, tra le altre cose, del “ritorno” di temi sociali, come quello della “disoccupazione”. Naturalmente in quel contesto era inevitabile rischiare questo tipo di malintesi. Non vi erano le circostanze per realizzare, così su due piedi, una lettura critica approfondita dei testi presentati. Però il malinteso è sintomatico, perché mostra in quale maniera, secondo me, non si dovrebbe porre il rapporto tra poesia e politica. Nel caso specifico che ho citato, non è la semplice presenza del tema della disoccupazione (giovanile? strutturale?) che può eventualmente fornire una qualche forma di politicità al testo. Non sono gli scottanti, dibattuti, suscitatori di interventi governativi o di proteste di piazza, “temi del giorno”, rintracciabili in un testo poetico, a rendere quest’ultimo interessante da un punto di vista politico. Non basterà ficcare, nelle strofe di una poesia, delle figure di immigrati alla deriva, donne maltrattate dai mariti o fattorini di pizze per associare gesto poetico e gesto politico. Non sto dicendo con questo che non abbia mai senso farlo, che in poesia non si dovrebbe parlare esplicitamente di cose che ci indignano e sollecitano atteggiamenti di rivolta. Bisognerebbe capire, però, perché lo si fa, e cosa esattamente si pretende di fare, scrivendo certe cose. Cosa potrebbe dire la poesia su questi personaggi o di queste esperienze d’attualità, che un’inchiesta giornalistica, uno studio sociologico, un documentario di denuncia non potrebbe dire meglio?

Innanzitutto, forme collettive di attività e lotta politica esistono già sempre, prima che il poeta prenda solitariamente in mano la penna o avvicini le sue dita alla tastiera. Queste forme possono essere adeguate o meno, soddisfacenti o meno, ma sono politiche perché hanno la pretesa di agire nello spazio comune e pubblico, e di incarnare, attraverso questa azione, certi significati e valori, che non sono per forza riconosciuti come importanti e legittimi in quello spazio. Nell’azione politica, gli atti vogliono avere dei significati, e dei significati vogliono essere supportati dagli atti. Chi è interpellato da “questioni sociali”, da questioni di rilevanza politica, in quanto poeta, dovrebbe avere almeno cognizione di quello che, storicamente, nelle circostanze in cui scrive, si sta giocando sul piano delle azioni politiche già esistenti. Vi è un’intelligenza delle azioni sul campo, e delle analisi che l’esito di tali azioni suscitano, che non può essere ignorato da chi scrive su certi argomenti, poco importa se ciò appartiene direttamente alla sua esperienza o meno. Questa è una prima dimensione di politicità che un testo poetico può avere, ossia la consapevolezza di colui che lo scrive di trovarsi dentro un orizzonte storico, non per forza terso e nitidamente disegnato, ma solcato da forze e conflitti di natura politica.

Posto che questa cognizione dell’orizzonte storico esista, che cioè non siano in gioco semplicemente dei significati che si tratterebbe, come attraverso un rituale solitario, di celebrare in forma di parole sulla pagina, posto quindi che si sappia che tali significati, prima di venire alla mente o di sorgere nel cuore del poeta appartato, sono già stati messi alla prova nelle circostanze materiali della vita collettiva, allora si tratta di capire quale prospettiva politica accompagni e strutturi lo sguardo del poeta. Nulla ci dice che la parola poetica debba essere progressista, che debba essere profondamente democratica o egualitaria. Possiamo immaginare poeti che hanno il culto dei confini nazionali, poeti che credono nel buon governo degli esperti, poeti che rimpiangono società più ordinate e autoritarie.

La poesia, insomma, non deve per forza essere progressista, né secernere alcuna politicità intrinseca per il solo fatto di essere una forma di comunicazione culturale destinata alla scarsa vendibilità e popolarità. Lo scrivere per pochi, il produrre un testo pubblico al di fuori della forma merce non rende di per sé quel testo particolarmente politico. Nell’intervento di Benoît Casas, poeta e editore francese, intitolato Poesia & politica, si parla addirittura di impostura, per indicare la troppo facile e frettolosa identificazione di scrittura e azione politica. In passato, ho parlato in termini simili di un uso metaforico del termine “resistenza”. Chi scrive poesia, tende spesso e volentieri a proclamarsi “resistente”, attribuendosi in questo modo una dimensione politica, per altro del tutto indeterminata.

Tra le famiglie di poeti, invece, che rivendicano una cognizione determinata dell’orizzonte storico, e che situano la loro parola poetica all’interno di esso, bisogna citarne almeno due che esplicitamente rivendicano legami con la tradizione democratica e egualitaria del passato Novecento. La prima di queste famiglie è quella che definirei dei poeti catastrofisti. Questi ultimi sono convinti dell’irrilevanza dei conflitti che solcano la vita collettiva, dal momento che un qualche “Spirito dell’epoca” avrebbe già chiuso tutti i giochi. Al poeta rimarrebbe allora un ruolo comunque privilegiato: quello di dire con solitario coraggio ciò che, collettivamente, per amore delle illusioni, la velleitaria agitazione politica non riesce a dire. Qui la cognizione dell’orizzonte storico diventa cognizione di una sua presunta struttura definitiva, che l’occhio del poeta vede al di sopra della massa. La seconda famiglia la definirei dei poeti cinico-nichilisti. Se i poeti catastrofisti, in virtù di una loro chiaroveggente analisi vedono il fallimento necessario delle azioni che nello spazio pubblico abbracciano progetti di emancipazione collettiva, i poeti cinico-nichilisti vedono minati d’inautenticità tutti i significati che il poeta potrebbe esprimere e comunicare, assumendo la postura solitaria della lucidità e del disincanto. Il poeta catastrofista giudica il mondo a parole, il poeta cinico-nichilista giudica le parole del mondo.

Queste due tipologie di poeti definiscono in realtà le principali opzioni a cui si confrontano oggi le scritture consapevoli di muoversi: a) in un orizzonte storico e b) di inserirsi in una tradizione di pensiero critico e di lotte sociali. Poco importa che a questa partizione corrispondano delle scelte individuali specifiche, dei nomi d’autore specifici, esse si presentano a chi scrive come due polarità quasi inevitabili che definiscono il possibile nesso tra poesia e politica. Potremmo dire in altri termini che il catastrofismo (lo scetticismo radicale nei confronti delle azioni collettive di trasformazione e miglioramento del mondo) e il cinismo (lo scetticismo nei confronti dei significati che individualmente o collettivamente possono essere prodotti nelle varie forme di comunicazione, letterarie o extraletterarie), sono i due principali contravveleni contemporanei nei confronti della poesia edificante, da un lato, e della poesia kitsch, dall’altro. Ma poesia edificante e poesia kitsch non fanno in fondo che rientrare in una categoria più generale, che potremmo chiamare la poesia consolatoria. La poesia consolatoria è certo quella che recide, in qualche modo, ogni possibile legame tra poesia e politica, in quanto pone l’espressione dei significati al di qua o al di là di ogni orizzonte storico. È consolatoria l’idea che, nella coscienza individuale del poeta, si possano trovare espressioni dense di significato, che sono miracolosamente sottratte ai guasti della storia, ossia ai guasti delle azioni e delle espressioni linguistiche collettive.

Ora, pur essendo anch’io, in quanto poeta politico nel senso precedentemente indicato, armato di catastrofismo e di cinismo, e in perenne lotta contro il demone (retorico o lirico) della consolazione, vorrei comunque evidenziare un paradosso. I contravveleni citati rischiano di produrre delle forme più subdole di poesia consolatoria, in quanto alla fine sia il catastrofismo che il cinismo sono forme di neutralizzazione non tanto dell’orizzonte storico, ma della sua costitutiva apertura, ossia dell’imprevedibilità dell’azione e dell’espressione linguistica. Il motto di entrambi gli atteggiamenti, se li semplifichiamo in forma un po’ caricaturale, è: non ci sono sorprese, quindi non si rischia di essere spiazzati, non si rischia mai l’impostazione edificante della voce, o l’espressione inconsapevole dello stereotipo. Non si rischia mai la vuota enfasi né l’ingenuità. Il crollo dei sogni d’emancipazione collettiva ci ha vaccinato rispetto a qualsiasi traccia residua di ribellismo. Abbiamo guadagnato la rocca incrollabile della lucidità, da cui lo sguardo impotente tutto abbraccia. In qualche modo è una bella consolazione. Rischiamo, a forza di non aspettarci sorprese, di tacitare per bene il corpo, e tutte le sue terminazioni erotiche ed empatiche, per assumere una postura neo-solipsista. Il caos del mondo non deve travolgere colui che dice i significati. Quanto a colui che irride, invece, in modo aprioristico qualsiasi pretesa di significato, in quanto considera che tutto è stata ampiamente mercificato, reificato, spettacolarizzato, si mette a sua volta al sicuro. Su questa attitudine è intervenuto Jacques Rancière in un suo saggio del 2008 Le spectateur émancipé. Rancière si riferisce qui a una strategia ormai ben rodata nel mondo delle arti plastiche: “film pubblicitari parodiati, manga manipolati, suoni disco trattati, personaggi dello schermo pubblicitario trasformati in statue di resina o dipinti alla maniera eroica del realismo sovietico, personaggi di Disneyland trasformati in perversi polimorfi (…)”[1]. Il risultato di questo atteggiamento che si vuole critico, “politico”, rischia di essere però: “una sovversione della macchina dell’entertainment che è indiscernibile dal funzionamento di questa macchina stessa. Il dispositivo si nutre allora dell’equivalenza tra la parodia come critica e la parodia della critica”[2]. Sul piano delle strategie di scrittura, il dispositivo cinico-nichilista dissocia una volta per tutte l’io biografico, storico, dai suoi enunciati, in modo tale che l’uno non subisca il destino di derisione e autoannullamento degli altri. L’io dell’autore è stato messo in salvo, è stato esfiltrato, in modo da non subire la dispersione e la deriva dei significati. Qui al posto dello sguardo soggettivo e denso di significati del poeta catastrofista, domina il mondo, ma come puro teatro d’ombre. E anche questa è una bella consolazione. Non si rischiano imbrogli, sfilacciamenti, porosità, circolazioni sospette tra dentro e fuori, tra l’io e il mondo, tra la parola individuale e quella collettiva, tra la finzione e la realtà.

Vorrei tornare ora all’esempio delle Lettere alla Reinserzione Culturale del Disoccupato. In quel libro del 2013, ho usato una figura sociale, storica, quella del disoccupato, e l’ho messa in relazione con l’istituzione che dovrebbe curarsene. Il contravveleno cinico-nichilistico mi ha aiutato a prendere le distanze da tutta una serie di significati che intorno a quella figura circolavano spontaneamente. E un atteggiamento ironico ha subito distanziato gli enunciati alla prima persona e il legame direttamente autobiografico con la figura dell’autore. Quest’operazione non si è però limitata a stilare un inventario più o meno fedele, o al contrario distorto ed esagerato, di stereotipi linguistici connessi con la figura del disoccupato. In quella figura già ampiamente costruita dagli altri, socialmente, mediaticamente, ho voluto riversare delle personali ossessioni amorose e di felicità. Ho provocato appositamente un malinteso tra meditazioni esistenziali, epistolario erotico, e denuncia sociale. In questo tentativo di far cortocircuitare la portata politica e sociale della condizione di disoccupato con una smania erotica privata e un rovello esistenziale, c’è la speranza di cogliere qualcosa di nuovo e di diverso nelle nostre vite, e quindi di dire qualcosa di nuovo e di diverso sul nostro modo di amare, o di aggirarsi senza salario nel mondo, o di sognare diversamente l’amore e il lavoro, ben al di là della rinuncia ai sogni collettivi d’emancipazione. Non si tratta, qui, ovviamente, di suggerire una sorta di ricetta né della buona poesia né della poesia veramente politica. Né, tanto meno, si vuole proporre una qualche fantomatica sintesi tra il contravveleno catastrofista e quello cinico-nichilista, così come ho tentato di definirli. Voglio solo ribadire questo elementare fatto, o se vogliamo questa fondamentale scommessa: la poesia non consolatoria, ossia la poesia politica, è ancora in grado di veicolare forme di conoscenza del mondo e delle persone, attraverso la capacità di ascolto e descrizione degli oggetti, degli eventi, degli affetti. Il suo destino, insomma, non è per forza schiacciato sull’opzione catastrofista o su quella cinico-nichilista. Se tutti quanti, in qualche modo, siamo obbligati a passare per queste due forme di decostruzione o di offensiva critica, non siamo però condannati a rimanerne ipnotizzati.

I testi di Stéphane Bouquet, di Benoît Casas e di Marielle Macé, che ho raccolto e proposto all’Ulisse per la sezione relativa alle voci straniere, sono da considerare in qualche modo come un prolungamento di questa mia riflessione. Non si tratta di approcci del tutto sovrapponibili e convergenti, ma costituiscono per me tre punti diversi di sfondamento delle visuali e delle posture che dominano le scritture contemporanee di poesia. Di Casas ho già fatto cenno. La sua mi pare una lucidissima disanima sui malintesi possibili che emergono nel tentativo di confrontare i termini “poesia” e “politica”. Di Bouquet mi preme il cortocircuito oggi così apparentemente inattuale tra eros e rivoluzione. Eppure proprio privilegiando il punto di vista omoerotico, al di fuori dell’odierna normalizzazione e istituzionalizzazione dei legami omosessuali, qualcosa di fondamentale viene detto sulle potenzialità “pubbliche”, “collettive”, “politiche”, dell’eros individuale. Potenzialità che la parola poetica, storicamente, ha espresso in modo molto più tempestivo rispetto alla parola politica. Infine, vi è l’intervista di Marielle Macé, studiosa anomala di letteratura che vuole leggere la poesia di oggi e rileggere quella di ieri sul terreno degli attuali conflitti politici, convinta che questo avvicinamento di scrittura e lotte sia fecondo sia per il pensiero che per l’azione. Macé ci ricorda che, in un contesto di palese negazione della sensibilità e della potenza terrestre, la parola poetica, persino quella della tradizione lirica, dando la parola al mondo, acquisisce inevitabilmente una valenza politica contestataria. Se la politica e la propaganda inaugurata dall’amministrazione Trump segnano il punto attualmente più estremo della negazione non solo del riscaldamento globale, ma anche della semplice idea che il pianeta possa essere affetto dalle società umane e possa scatenare reazioni distruttive nei loro confronti, ogni scrittura volta a sondare e cogliere la sensibilità e la potenza terrestre funge, nel contempo, da implicito manifesto politico. Macé ci invita a considerare che la descrizione del mondo non è semplicemente un compito dello scienziato, sia esso sociale o naturale, ma una posta in gioco politica. Descrivere il mondo, i suoi profili, le sue forme di vita, significa rafforzare l’esistenza di certe cose a scapito dell’esistenza di altre, e in questo lavoro di reperimento e di potenziamento di ciò che vale la pena di difendere, di fare, di essere, anche la poesia ha, politicamente, qualcosa da dire.

[1] Jacques Rancière, Le spectateur émancipé, La fabrique, 2008, p. 76, traduzione mia.

[2] Ibidem, p. 77.

*

[Immagine di Atelier Van Lieshout]

2 COMMENTS

  1. Puntualizzazioni molto interessanti, come interessanti dallo stesso punto di vista sono alcune idee della Macé

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Andrea Inglese (1967) originario di Milano, vive nei pressi di Parigi. È uno scrittore e traduttore. È stato docente di filosofia al liceo e ha insegnato per alcuni anni letteratura e lingua italiana all’Università di Paris III. Ha pubblicato uno studio di teoria del romanzo L’eroe segreto. Il personaggio nella modernità dalla confessione al solipsismo (2003) e la raccolta di saggi La confusione è ancella della menzogna per l’editore digitale Quintadicopertina (2012). Ha scritto saggi di teoria e critica letteraria, due libri di prose per La Camera Verde (Prati / Pelouses, 2007 e Quando Kubrick inventò la fantascienza, 2011) e sette libri di poesia, l’ultimo dei quali, Lettere alla Reinserzione Culturale del Disoccupato, è apparso in edizione italiana (Italic Pequod, 2013), francese (NOUS, 2013) e inglese (Patrician Press, 2017). Nel 2016, ha pubblicato per Ponte alle Grazie il suo primo romanzo, Parigi è un desiderio (Premio Bridge 2017). Nella collana “Autoriale”, curata da Biagio Cepollaro, è uscita Un’autoantologia Poesie e prose 1998-2016 (Dot.Com Press, 2017). Ha curato l’antologia del poeta francese Jean-Jacques Viton, Il commento definitivo. Poesie 1984-2008 (Metauro, 2009). È uno dei membri fondatori del blog letterario Nazione Indiana. È nel comitato di redazione di alfabeta2. È il curatore del progetto Descrizione del mondo (www.descrizionedelmondo.it), per un’installazione collettiva di testi, suoni & immagini.