Non con voi

di Andrea Inglese

Dite: “Ora è il momento della solidarietà, il momento di essere tutti uniti, in quanto italiani, al di là delle divisioni e delle polemiche, il momento di rendere onore alle nostre istituzioni, all’Arma e all’Esercito. Ora siamo un paese solo, ora piangiamo assieme i nostri morti, ora rendiamo omaggio al dolore dei parenti.”
Vi rispondo semplicemente che il paese non è unito, gli italiani non sono solidali tra di loro, gli italiani si disprezzano tra di loro, non si riconoscono, non hanno più linguaggi e valori comuni.

Ma possono sempre fingere che non sia così, possono rimuovere i traumi che li dividono, possono ignorare le ferite non sanate che si sono inflitti. Possono dire di volersi bene, in fondo, e commuoversi assieme. Ma non serve a nulla. Non sono le emozioni che ci potranno avvicinare. Non quelle di oggi almeno. Tutto l’orrore che io ho e tanti altri abbiamo covato dentro dopo Genova, chi è stato capace di condividerlo con noi? E quanti gli orrori che diversi gruppi di italiani sono stati costretti a covare da soli, in silenzio, senza che pubblicamente si dicesse una parola per loro? Quanti morti, in Italia, sono stati seppelliti senza il giusto omaggio, quello della verità sulla loro morte e quello della giustizia nei confronti dei colpevoli?
Prendiamo fiato allora, prima di piangere ora questi morti, prima di seppellirli in fretta, prima di confondere tutti i nostri morti in un unico pianto liberatorio. Prima di rendere omaggio a questi morti, a queste sepolture, ognuno faccia il conto degli altri, di quelli sepolti male, nell’ignoranza dei loro carnefici, nell’assoluzione dei loro carnefici. Ognuno faccia il conto delle stragi, il conto degli italiani morti sul lavoro, a causa del lavoro, il conto di tutte quelle vittime innocenti che nessuno di noi ha mai pianto pubblicamente, ma in privato, ma in gruppo chiuso, come fosse una questione di alcuni e non di tutti.
Pensate voi che piangendo assieme ora, su queste vittime, tutte le vecchie ferite, tutto ciò che ci divide e allontana, ci potrà miracolosamente riunire? Io non lo credo.
Ogni volta che un trauma irrompe nella nostra vita collettiva, ogni volta che ci ritroviamo divisi, nemici, ogni volta che scorre tra di noi del sangue, è l’inchiesta giudiziaria che si propone di cicatrizzare, con i suoi tempi lunghi, spingendo le scorie del nostro essere verso un limbo indifferenziato, verso quelle sentenze tarde, incomprensibili, inutili, assolutorie. Ma li abbiamo davvero elaborati assieme i nostri traumi, siamo riusciti a ritrovarci dopo la divisione, o abbiamo solo dimenticato tutto, e ci siamo semplicemente incrociati per strada, indifferenti ed educati?
Dovremmo rendere pubblicamente omaggio alle nostre istituzioni?
Ma quante volte ci siamo sentiti traditi da esse?
Quante volte siamo stati traditi dalle istituzioni che dovrebbe difenderci (polizia, carabinieri, esercito, servizi segreti)?
Le nostre istituzioni non hanno chiesto scusa quando Carlo Giuliani è stato ucciso, non hanno chiesto scusa per quei gruppi di poliziotti o carabinieri che in cinque o sei prendevano a calci manifestanti isolati, caduti a terra, a Genova, non hanno chiesto scusa per quella ragazza ha cui hanno rotto i denti a calci nella scuola Diaz, non hanno chiesto scusa per le sevizie di Bolzaneto. Non hanno neppure chiesto scusa per le finte bombe molotov, piazzate nella Diaz, per il finto taglio sul giubbotto, per tutte le bugie e le mezze verità.
E ha chiesto scusa il governo di questo paese per aver irriso pubblicamente coloro che hanno manifestato contro la guerra? Ha chiesto scusa per aver trattato coloro che lo contestano in modo non violento e civile da fiancheggiatori del terrorismo?
E vi domando, l’Esercito ha chiesto scusa alle famiglie di quei soldati giovani che sono già morti, in seguito alla loro missione in Serbia e Kosovo? Ha chiesto scusa di non aver preteso dalle autorità statunitensi di conoscere i luoghi contaminati? E ha chiesto scusa per quelli che sono tornati ammalati, a causa dei vaccini, o dell’uranio impoverito, e che sono condannati a morte, come lo sono stati diecimila reduci della Prima Guerra del Golfo, negli Stati Uniti?
E infine, abbiamo cuore per piangere questi nostri morti, dopo che non abbiamo pianto per i tanti morti degli altri, che sono sparsi nei nostri mari, per quelle sagome scure già sbranate dai pesci, sparse per i fondali, oppure scaricate a Lampedusa o in Sicilia? Abbiamo ancora la capacità di piangere sui dei morti, dopo tanti mesi, anni, di impassibilità nei confronti di altri morti, ugualmente vicini, prossimi, malgrado non siano in divisa, non parlino italiano, e non abbiano la pelle bianca?
Questi ultimi morti, questi carabinieri, soldati e civili uccisi a Nassiriya, non li piangerò in pubblico, assieme a voi, né renderò omaggio alle istituzioni per le quali lavoravano. Li conterò assieme agli altri, assieme anche a Carlo, a quelli nella funivia che precipitarono grazie alle bravate di un pilota statunitense, e a tanti altri, mal sepolti, pianti in privato. Se li piangessi con voi, credereste che io abbia di nuovo fiducia nelle istituzioni, nei mie concittadini, nelle persone che ci governano, nello loro scelte politiche internazionali. Ma non è vero. Io vi temo, mi fate paura. Non abbasserò la guardia ora. Non smetterò di vigilare adesso, di guardarmi le spalle. E solo quando sarete in grado di contare tutti i morti, di seppellirli degnamente, in giustizia e verità, allora potremmo condividere queste emozioni, questo dolore.

Mi trovavo ad agosto in una piccola caletta di Cefalonia. A luglio c’era stata Genova. Ora l’incubo era lontano. Non svanito, ma lontano. Nella caletta si giungeva attraverso una strada ripidissima e nascosta. Oltre a me e alla mia ragazza, vi erano solo un paio di greci, che abitavano nel paesino in cima al monte. Giunse un piccolo motoscafo, condotto da due cinquantenni. Erano italiani. Penetrarono dentro la caletta, fermandosi a pochi metri dalla riva. Uno dei greci li apostrofò, indicandogli un grande cartello, che proibiva alle barche di avvicinarsi a riva. Il cartello era visibile e chiaro. Gli italiani gli risposero male. Ricordo che dissero “Ma non è mica tuo il mare!”. Poi però si spostarono, allontanandosi sufficientemente dalla spiaggia. Appena i due greci se ne andarono, accesero il motore e si diressero nuovamente verso riva. Il fondale era profondo e gli consentiva di penetrare nella caletta. Ce ne stavamo andando anche noi. Io avevo in testa un cappellino dalla foggia araba. Anch’io li apostrofai. Urlai, fingendomi greco, in un miscuglio di lingua inventata e di parole dal suono assimilabile a quello di “polizia”. Si innervosirono e mi risposero male, in un inglese stentato. Poi mi ignorarono. Io insistevo nel mio gergo e facevo gesti col braccio, indicando loro la via che dovevano prendere. Si fecero minacciosi, e si avvicinarono ancora di più a riva. Stavolta mi insultavano in italiano. Passai anch’io all’italiano allora. Era inevitabile. “È vietato entrare qui in motoscafo, dovete allontanarvi.” Dissi anche che non me ne sarei andato, finché non si fossero decisi e che altrimenti avrei avvisato la guardia costiera. Prima mi chiesero che cosa poteva fregarmene a me di quello che loro facevano. Poi cercarono di spaventarmi, passando e ripassando con il loro motoscafo sempre più vicino a riva. Avevano l’aria di due imprenditori del nord, un veneto e un lombardo, una perfetta caricatura. Abbronzati, con i loro occhiali da sole costosi e le innocue canne da pesca. Ma non c’era nulla da ridere. Uno dei due, guardandomi bene disse: “Tu devi senz’altro essere uno di quelli che sono stati a Genova. Sì, sì, dì la verità che ci sei stato! E vi hanno fatto un bel culo, eh! Hanno proprio fatto bene.”
Alla fine sacramentando se ne andarono. Questi sono i miei concittadini. Anche questi. Questi che siccome hanno il motoscafo nuovo, si sentono fuorilegge, padroni del mondo. Questi per cui le norme sociali non valgono nulla, appena entrano in contrasto con il loro più estemporaneo capriccio. Questi che ridacchiavano a casa loro, vedendo le facce insanguinate di manifestanti che avevano la loro età o l’età dei loro figli più giovani. Che non si sono neppure per un attimo sentiti a disagio di fronte a quello che era successo in quei giorni. Con questi signori io dovrei venire, oggi, a piangere i carabinieri di Nassiriya?

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Andrea Inglese (1967) originario di Milano, vive nei pressi di Parigi. È uno scrittore e traduttore. È stato docente di filosofia al liceo e ha insegnato per alcuni anni letteratura e lingua italiana all’Università di Paris III. Ha pubblicato uno studio di teoria del romanzo L’eroe segreto. Il personaggio nella modernità dalla confessione al solipsismo (2003) e la raccolta di saggi La confusione è ancella della menzogna per l’editore digitale Quintadicopertina (2012). Ha scritto saggi di teoria e critica letteraria, due libri di prose per La Camera Verde (Prati / Pelouses, 2007 e Quando Kubrick inventò la fantascienza, 2011) e sette libri di poesia, l’ultimo dei quali, Lettere alla Reinserzione Culturale del Disoccupato, è apparso in edizione italiana (Italic Pequod, 2013), francese (NOUS, 2013) e inglese (Patrician Press, 2017). Nel 2016, ha pubblicato per Ponte alle Grazie il suo primo romanzo, Parigi è un desiderio (Premio Bridge 2017). Nella collana “Autoriale”, curata da Biagio Cepollaro, è uscita Un’autoantologia Poesie e prose 1998-2016 (Dot.Com Press, 2017). Ha curato l’antologia del poeta francese Jean-Jacques Viton, Il commento definitivo. Poesie 1984-2008 (Metauro, 2009). È uno dei membri fondatori del blog letterario Nazione Indiana. È nel comitato di redazione di alfabeta2. È il curatore del progetto Descrizione del mondo (www.descrizionedelmondo.it), per un’installazione collettiva di testi, suoni & immagini.