La mamma dell’assassino

di Antonio Piotti

retro2_03.jpgL’ultimo numero di Impackt – contenitori e contenuti (da cui è tratto questo intervento di Antonio Piotti) è dedicato allo sporco e al pulito, ai detersivi, alle merci che smacchiano le cose e le coscienze. La rivista è curata da Sonia Pedrazzini e Marco Senaldi. Per informazioni: impakt@dativo.it. (T.S.)
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almonerv.jpgCi sono due immagini che mi vengono alla mente quando penso al pulito, alla macchia da cancellare, al sapone o ai detersivi. La prima è classica, shakespeariana, e rimanda all’idea che ci siano alcune macchie non cancellabili. Nessun sapone può cancellare il delitto commesso, la traccia è condannata a rimanere, come una lettera scarlatta incisa sul corpo perché la colpa merita una punizione ed un ricordo eterni. Non vale a nulla allora affannarsi a lavare e a strofinare: ciò che è, è per sempre, e bolla l’esistenza. Persino quando il delitto-trauma è del tutto dimenticato dall’individuo, esso non smette di ripresentarsi come sintomo, come segno che ritorna dal rimosso.

Addirittura, in una particolare struttura nosografia, quella che oggi va sotto il nome di “disturbo ossessivo compulsivo”, non assistiamo soltanto al ritorno della colpa nella vesti del sintomo, ma, anche al farsi sintomo del tentativo stesso di dimenticarlo. La patologia consiste allora nel lavarsi continuamente, ossessivamente, decine e decine di volte al giorno, nel percepirsi sempre sporchi, impresentabili, anche dopo inesauribili lavacri e profumazioni, nel condannarsi, infine, ad una sorta di reclusione all’interno delle mura domestiche perché si ha paura che la propria orribile (impudica) sporcizia, sia subito riconosciuta e smascherata da tutti coloro che si dovessero incontrare.

Una variante più innocua e più frequente di questa patologia è data da ciò che freudianamente si può indicare come il complesso della casalinga. In questo caso non è la persona ad essere soggetta ad estenuanti lavori di pulizia quanto la casa, contenitore esteriore che rimanda al grembo materno come contenitore interiore. Non si sa mai cosa c’è dentro e bisogna accertarsi sempre che i contenuti siano buoni, che le parti cattive siano espulse, che nulla vi si annidi di pericoloso che tutto sia completamente lavato, disinfettato, sterilizzato. Ancora una volta, le cose si trasformano nel contrario e come la pulizia corporale, che dovrebbe servire per aiutarci nel socializzare con gli altri diviene, nella sua dimensione ossessiva, un ostacolo a qualsiasi incontro, così la casa, che è luogo per la vita per l’ospitalità e per la condivisione, diviene luogo denuclearizzato, congelato, invivibile.

L’altra immagine è altrettanto comune e rappresenta esattamente il contrario della precedente: l’idea è che qualsiasi macchia possa essere cancellata sempre, che non esista colpa abbastanza grave da meritare una pena infinita, che tutto possa essere perfettamente lavato.

L’esempio più simpatico e più pertinente di questa visione appartiene solo in maniera secondaria al mondo della pubblicità si tratta infatti di una non-pubblicità, di uno spot pubblicitario finto inserito nella trama di un film: in esso accade che dei trucidi tutori della legge si rechino a casa di una cara signora chiedendo che quest’ultima consegni immediatamente la camicia indossata la sera prima dal figlio assassino, nella certezza di reperirvi le tracce di sangue che rappresentino la prova inconfutabile della sua colpevolezza. La signora consegna sì la camicia, ma gli ineffabili poliziotti si rendono conto di essere arrivati troppo tardi: la cara mammina, infatti, dopo gli omicidi del figlio, provvede sempre ad infilare la camicia in lavatrice, dove, grazie all’aiuto di un potente detersivo, ogni traccia scompare. “Se vuoi bene a tuo figlio – recita più o meno lo slogan finale – fai come me, lava le sue camicie con questo potente detersivo” Certo, la moralità di questa madre, così schierata dal lato di un viscerale (unilaterale) interesse per il figlio, anche quando questi si renda responsabile di numerosi delitti, è assai discutibile e rappresenta uno dei più cinici e divertenti paradossi del cinema di Almodovar (il film a cui ci stiamo riferendo è, come molti ricorderanno, Donne sull’orlo di una crisi di nervi); ma il senso del discorso, pur nel suo paradosso è chiaro: di contro all’incubo di una macchia indelebile, sta l’utopia di una pulizia assoluta, di una cancellazione totale della colpa, di un bianco assoluto, di un azzeramento completo del passato e di una ritrovata, intatta, purezza.

Ora, l’enfasi posta sull’igiene dal contesto sociale dei nostri tempi è già stata sottolineata, e criticata da molti, così come è chiaro che cancellare del tutto le tracce del nostro passato finirebbe per farci più del male che del bene. Tuttavia è indubbio che l’esigenza esista: Nietzsche, nell’Inattuale sulla Storia, auspicava che il mondo potesse dimenticare che il fardello del nostro passato potesse essere semplicemente scaricato per poter poi ricominciare da capo.

L’ossessione del pulito allora potrebbe essere vista anche in un altro modo: non semplicemente la prova di un rimosso indelebile, quanto il desiderio disperato di una ripartenza a prescindere da quello che si è stati finora, facendo tabula rasa come gli studenti dell’antica Roma che, sciogliendo la cera su cui avevano scritto, ricominciavano senza conservar traccia dei lavori precedenti. E questa speranza di ricominciare dal nulla di un foglio assolutamente bianco non è tanto più rappresentata nella pubblicità, quanto più impossibile nell’esistenza reale? Non rimangono sempre più tracce di noi, della nostra voce, della nostra fisionomia, di ciò che scriviamo, del nostro andamento economico, dei nostri gusti, delle nostre opinioni? Non siamo sempre più identificabili, riconoscibili, definiti, condannati a non cambiare mai, a essere sempre noi stessi? Non è paradossale che, di fronte al molteplice delle esistenze immaginarie che il mondo massmediale ci propone, noi si sia sempre costretti ad una dimensione assolutamente esplicita, nota e ripetitiva?

Forse esiste una correlazione molto profonda tra l’idea del bianco assoluto, del vestito che annulla qualsiasi traccia di chi lo ha portato e l’attiva campagna pubblicitaria di quei siti internet che promettono a tutti noi un’altra vita: di contro a una congrua contropartita economica, ciò che ci viene offerto è una grande operazione di pulizia personale: tutte le tracce di noi verranno soppresse per sempre, un’altra esistenza ci aspetta oltremare, mentre nessuno dei nostri amici, dei nostri, nemici, dei nostri colleghi, dei nostri parenti, saprà più che fine avremo fatto. Potrebbe allora nascere da questa illusione, quella di cancellare tutte le macchie, fisiche e psichiche, il fascino che esercita su di noi la bianchezza assoluta prodotta e così ossessivamente pubblicizzata dalle più famose marche di detersivi. Si desidera in fondo, sempre ciò che non si ha e forse è anche vero che un bianco assoluto possa nascondere le cose ancor meglio di un opaco grigiore, quello cui spesso ci condanna la nostra anominca esistenza quotidiana.

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