Qualcosa che viene da lontano #3
di Piersandro Pallavicini
POI LA SECONDA ONDATA… È stato il 1999 l’anno in cui sono usciti per Portofranco la raccolta di racconti Il Sole d’Inverno di Muin Masri e il romanzo Verso la Notte Bakonga di Jadelin Mabiala Gangbo, nonché, per Bompiani, il romanzo La Straniera di Younis Tawfik. Ed è stato li che è cambiato qualcosa. Masri è palestinese, Gangbo congolese, Tawfik iracheno, e tutti e tre, con storie diverse alle spalle, contano su una lunga permanza in Italia e un perfetto padroneggiare della nostra lingua. I loro libri sono stati scritti senza pesanti mediazioni editoriali: a questi autori, le loro case editrici hanno provato a far fare gli scrittori-e-basta.
I due libri editi da Portofranco hanno seguito la sofisticata e gradevole linea della piccola casa editrice torinese: testi appartati, sguardi inconsueti, pagine che sanno sorprendere. E nei racconti delicati, dolenti e memorialistici di Masri, così come nel romanzo invece tutto anarchico e metropolitano del giovanissimo Gangbo (solo 22 anni, all’uscita del libro) si trova il tema del distacco, della lontananza, dell’essere a parte, ma con uno sguardo sul mondo non ingenuo, personale, con una ricerca stilistica scrittoriale, con una a-schematicità e un’assenza di griglie che fanno di queste due opere due esempi di buona scrittura tout court. E cioè, finalmente, da leggere indipendentemente dalla biografia dell’autore.
Poi, diverso perché dotato di più appeal commerciale e spinto volentieri da un buon ufficio stampa è stato il caso di Tawfik. Che, senz’altro, ne La Straniera scrive da vero letterato (e d’altronde Tawfik è docente di Lingua e Letteratura Araba all’Università di Genova) confezionando un buon testo dove l’immigrazione e i suoi traumi e drammi sono in primo piano, ma dove anche si scrive con ricercatezza, dove si cerca di fondare un ibrido linguistico, dove l’immaginario e il sapere mediorientali si sfumano e si sommano a quelli italiani. Un romanzo riuscito che, non a caso, coniugando temi forti ad un elegante approccio scrittoriale, è diventato il primo (e sinora unico) libro di un certo successo nella categoria “scrittori migranti”: ha venduto intorno alle 20.000 copie, ha ricevuto il Grinzane Cavour, elevando, in più, Younis Tawfik al ruolo di mediatore culturale tra la comunità araba e l’Italia. E questo è un punto tanto importante quanto, per uno scrittore, foriero di rischi…
Chi è arrivato qui con l’onda migratoria più calda nella cronaca, chi sta dentro comunità numerose e colpite più di altre dal razzismo e dal riflesso degli eventi internazionali, quando giunge alla scrittura e alla pubblicazione è facile che si senta investito di un ruolo: quello del mediatore, appunto. Quello del pacificatore. Quello di chi da una parte impartisce insegnamenti alla propria comunità, costituendone il punto di riferimento intellettuale, e dall’altra mostra le ragioni di questa comunità al paese che la ospita. Ebbene, (auto)investirsi di questo ruolo, nell’ottica del passaggio da libri testimoniali-di-denuncia a libri-e-basta, gioca infaustamente contro. Raramente funzionano i libri equipaggiati di messaggio, raramente chi intende insegnare con la narrativa riesce a fare anche un buon racconto, un buon romanzo. Quello che si rischia è la meccanicità, l’inceppo della narrazione, la scivolata nella didascalia. Difetti che possono arrivare anche da un altro rischio, che si corre in parallelo: quello di sentirsi troppo sicuri di essere latori di culture e immaginari e storie tanto ricchi quanto qui sconosciuti. E, dunque, di sentirsi così sicuri del valore di queste ricchezze da non temere nulla nello scrivere qualcosa in cui vengano investite, cadendo invece nella giustapposizione, e di nuovo nel didascalico, nel meccanico.
Una delle vittime più illustri di queste due trappole è stato proprio il promettente Tawfik, che nel suo recente secondo romanzo, La Città di Iram (Bompiani 2002), pur provando apprezzabilmente ad allontanarsi dal racconto biografico incentrato sulla migrazione ha finito per confezionare un testo infarcito di didascalie eccessive, con inceppamenti nel procedere del racconto, ed esotismi e pezzi di cultura a noi aliena infilati a forza in un tessuto narrativo che non poteva sopportarli.
A La città di Iram si può accostare il romanzo d’esordio di Abdel Malik Smari, Fiamme in Paradiso (Il Saggiatore, 2000). L’autore, algerino, propone una vicenda di immigrazione scritta con mano asciutta ed efficace, dotata di una bella e toccante partenza… ma che scivola, col continuare delle pagine, sulla voglia di dire troppo, dettagliare, esemplificare. E che così cade nell’affanno di spiegare al lettore elementi di letteratura araba e differenze e affinità tra cattolici e musulmani. Due libri, insomma, che nella foga didattica commettono un errore-base: non mostrano, ma dicono.
(continua)
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[PUBBLICATO SU PULP LIBRI – SETTEMBRE 2003]