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Appunti indiani #2

di Sergio La Chiusa

madurai.jpg In India dobbiamo mettere da parte il nostro linguaggio verbale e corporeo. Il nostro codice di segni qui non ha significato. Sono altri i gesti e altri i significati ad essi correlati. Basta pensare a quel dondolio della testa comune a tutti gli indiani, tanto a quelli del nord come a quelli del sud. Si direbbe che le teste degli indiani non siano ben avvitate sul collo, a vederle dondolare a quel modo, docilmente, da destra a sinistra e viceversa, con quel movimento ondulatorio e un po’ enigmatico, da bambole eternamente sorridenti, che è un segno d’assenso e un benvenuto e una dimostrazione di gratitudine e molte altre cose ancora. Un gesto dolce e impensabile per noi.

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Nel caotico organismo del traffico indiano, sono come stordito dalla dialettica sguaiata dei clacson, che si lanciano messaggi, avvisi, intimidazioni, sfide, segnali di riconoscimento, e, tutti insieme, sembrano formare un vero e proprio linguaggio, una grammatica per me inaccessibile.

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Tutta la città di Madurai si è sviluppata intorno al tempio di Sri Meenakshi, e dal tempio, vero cuore pulsante della città, sembra ricavare tutta la sua esuberante energia vitale. I suoi altissimi gopuram, completamente ricoperti di statue ben tornite, brillantemente dipinte, sembrano torri di marzapane che si stagliano prepotentemente nel cielo con una carica di brillantezza zuccherosa che prende alla gola, toglie fiato. Il tempio di Sri Meenakshi non contempla l’idea del vuoto; è una proliferazione voluttuosa di figure, forme, colori, una carnevalesca sfilata di travestimenti. Tutto, qui, mi sembra pensato per azzerare l’individuo, annullarlo nella molteplicità della rappresentazione. L’eccesso non si limita all’architettura. All’interno delle mura brulica infatti una città intera, un bazar dove centinaia di venditori urlano le presunte qualità della loro mercanzia. Stipate le une contro le altre, pigiate nei varchi tra statue e colonne, con una pienezza di oggetti tale da affaticare l’occhio, si susseguono bancarelle straripanti di fiori, monili d’argento, candele, spezie, frittelle, statuette di pietra e di bronzo, cartoline, pellicole fotografiche, souvenir di ogni genere. Rintanati dietro la merce, i venditori, simili a predatori dagli occhi vivaci, scrutano i potenziali clienti, i numerosi pellegrini e i turisti mescolati al flusso che procede come un solo organismo verso il santuario interno. Immancabili, i mendicanti, sparsi qua e là come elementi del paesaggio, necessari per mantenere l’equilibrio del quadro. L’abbondanza policroma dei gopuram, attraverso i quali si accede al tempio, è troppo zuccherosa, ha un che di posticcio, ingannevole. Sembra oscurare per eccesso di luce, di brillantezza, rivelare in filigrana una natura maligna. I santuari interni mostrano l’altra faccia della stessa medaglia. Grandi sale tetre, gremite di colonne scolpite, lunghi corridoi dove la luce non riesce ad insinuarsi; e il corteo dei fedeli che procede come un unico corpo cieco verso il santuario di Meenakshi. In testa, stanno trasportando un pesante baldacchino con la statua della Dea. Dietro, i suonatori di tamburi, e subito dopo una folla di pellegrini con le mani giunte. Cantano, pregano, molti hanno gli occhi spiritati. Mi infilo in mezzo alla calca per capire quello che sta succedendo. Ma non capisco. I riti mi escludono. Sempre. Vedo che il baldacchino si ferma, traballando, e tutto il corteo, dietro, si accorcia, la folla sembra accalcarsi pericolosamente contro il baldacchino. I bramini stanno accendendo un grande fuoco davanti alla statua. Una figura sbuca dalla folla. La vedo annerirsi contro il fuoco, infilarci le mani e poi passarsele sulla fronte, mentre la folla tutta urla parole per me incomprensibili. Sono un corpo estraneo. Mi dovrò fare da parte quando la processione arriverà al santuario di Meenakshi, il luogo più sacro del tempio, accessibile solo agli indù.

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Il tempio di Sri Meenakshi è un mondo in miniatura, fasullo come fasullo è il nostro mondo. Un Dio di marzapane e una folla di accecati che, attraverso il rito, svolgono un esercizio collettivo di annullamento di sé. Intorno, il brulichio dei mercanti, degli sfruttatori degli accecati che, a pochi metri dal Dio, si guadagnano il pane vendendo feticci a buon mercato. I ruoli sono intercambiabili, e i furbi mercanti di oggi saranno gli spiritati pellegrini di domani e viceversa. Ciò che sembra necessario è che ognuno creda fino in fondo al proprio ruolo. Si tratta, in definitiva, di una grande messinscena alla quale i protagonisti sono talmente abituati da esserne essi stessi vittime inconsapevoli.

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Un’altra processione intorno alle mura del tempio di Sri Meenakshi. In testa, i suonatori di tamburi picchiano con tutta la forza delle loro braccia, scandiscono il ritmo del corteo. Hanno facce allegre, quasi sguaiate. Dietro i suonatori, una moltitudine variopinta, animalesca. Bambini seminudi, uno straccio giallo intorno ai lombi, la faccia malamente dipinta, reggono in precario equilibrio sul capo un vaso d’argento (pieno di latte di cocco, mi dicono). Sembrano stremati, procedono a stento, sbandando, come dei flagellati. Alle loro spalle, i genitori o i fratelli maggiori li sostengono e li incitano affinché non si lascino cadere. Poi, ad un tratto, tutto il corteo si ferma. Non capisco cosa stia succedendo, ma, inaspettato, sento lo scoppio ripetuto dei petardi e vedo una nuvola di fumo sollevarsi, avvolgere l’intero corteo.

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Un po’ di fresco, finalmente. E di silenzio. Abituato al caos delle città tempio del Tamil Nadu, mi sembra quasi innaturale, fittizio, questo silenzio notturno. Spalanco la finestra della mia stanza. Mi sembra che la foresta mi stia sorvegliando, che il suo silenzio sia solo una suggestione derivata dalla mia ignoranza. Se conoscessi un altro linguaggio, in quel silenzio potrei certo distinguere centinaia di voci diverse che parlano tra loro e, forse, parlano anche a me. Il rumore, a lungo andare, deve avere agito sulla mia sensibilità, tanto da rendermi sordo agli stimoli esterni. Per quanto mi sforzi, questo silenzio rimane un silenzio, piacevole perché favorisce il sonno, inquietante perché ogni silenzio nasconde un avvertimento non tradotto. Richiudo la finestra, respingo l’intrico della foresta.

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Le donne indiane. Le vedo, con i loro sari dai colori brillanti, piegate in mezzo alle risaie, i piedi a mollo, a faticare fino al cedere del sole. Le vedo lungo le strade da asfaltare, in fila, come in processione, con i cesti traboccanti di pietre in bilico sulle teste. Le vedo alle stazioni degli autobus, ridotte a mendicare, esibire i loro bimbi completamente nudi, scarmigliati, dagli occhi un po’ spersi. Le vedo sfregare le stoviglie, approfittare di ogni pozzanghera, di ogni rigagnolo d’acqua per fare il bucato. Le vedo trainare carretti stracarichi d’erbacce, simili a buoi aggiogati. Le vedo sudare, corrompere la loro bellezza sotto il sole tropicale, sempre dignitose, sempre eleganti in un paesaggio di escrementi e mosche. Con l’altro occhio vedo invece gli uomini sfaccendati, accoccolati davanti alle botteghe, soli o a grappoli, come uccelli in contemplazione; e i più attivi che stazionano dietro le friggitorie, le botteghe, o muovono freneticamente verso gli autobus in sosta, carichi di merce da vendere… E’ una stupida semplificazione, me ne rendo conto: ma le immagini che vedo dai finestrini dell’autobus mi dicono che quella indiana è una società maschilista. Ma, in fondo, tutte le società lo sono.

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L’India sembra una società feudale sostenuta da innumerevoli corporazioni. Penso a una strada di Thanjavur, dove ci sono decine di piccoli chioschi di legno, allineati come cellette d’alveare. Chiusi lì dentro, dietro le loro preziose macchine da scrivere manuali, se ne stanno i dattilografi, con le facce serie, professionali, mentre dall’altro lato dello scrittoio, come dietro la grata di un confessionale, gli analfabeti aspettano, un po’ nervosi. Penso a Madurai, dove risiede un’intera popolazione di sarti e di venditori di stoffe. Si vedono dappertutto, questi lavoratori pazienti curvi sulle macchine da cucire, e i procacciatori d’affari, aggressivi, che vanno a caccia di clienti, e i venditori di stoffe che srotolano il loro campionario multicolore. Penso ai conducenti di autorisciò, che si trovano dovunque e in abbondanza. Sono spesso sotto occupati. Sembrano sonnecchiare dentro i loro sgangherati taxi a tre ruote, gialli e neri, ammucchiati nelle zone più calde della città come tante vespe addormentate. Quando si avvicina un potenziale cliente, si sgrovigliano tutti dal torpore, all’improvviso, come se un senso aggiunto, quello degli affari forse, fosse sempre vigile. Ciononostante, non sembrano contendersi il cliente, ma piuttosto stringere alleanze, come a sostenere gli interessi di casta.

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Viaggio in battello da Kottayam ad Alappuzha. Mi sfilano davanti agli occhi, a pelo d’acqua, file e file di palme di cocco, e case costruite su sottili lingue di terra, come in bilico sull’acqua calma delle lagune, e piccoli isolotti, qua e là, dove le mucche, in bizzarra armonia con il paesaggio acquatico, brucano tranquille. Di tanto in tanto, imbarcazioni lunghe e sottili, con grandi vele biancastre, simili a fogli di carta cuciti, scivolano lentamente sulla superficie dell’acqua. Il tempo sembra sospeso.

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