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Da “Stanze camere e vetrine”

di Marco Mantello

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Candido 1984

Mi sono rotto, fratellone
di essere una Bburago o una Ferrari
che la devi caricare con lo spago
perché prenda la sua direzione.

Mi sono rotto, fratellone
di viaggiare a fari spenti,
di E.T., dei videogiochi Atari,
del mio Commodore vic venti.

Mi sono rotto, fratellone
di equazioni così lineari
del tipo: [vita uguale
programmazione (la febbre sale)]

Mi sono rotto, fratellone
del tuo ultimo diario e di Simone
l’orsacchiotto che da sei generazioni
dorme sotto allo stesso cuscino.

Mi sono rotto, fratellone
del tuo strano rapporto col vino.
Se la cosa restava là dentro
c’era sempre qualcun altro
a farla uscire fuori ed io

che in un solo aforisma non c’entro
mi imbottivo di stelle marine
cavallucci, stalagmiti
ed avevo una mensola intera
fatta solo di giorni proibiti.

Mi sono rotto, fratellone
del quartiere popolare
dove giace un’identica luna
di parlarti ogni volta all’orecchio
di trovare la cosa opportuna:

quello stupido telecomando
nelle mani tremanti del vecchio
sembra come dire quando
potrò smettere anch’io di guardare.

Mi sono rotto, fratellone
dell’Europa continentale
e di quella insulare
dell’India, dell’Indonesia
degli indiani americani
e delle tigri della Malesia.

Qui non c’è nemmeno l’ombra
di un giornale
dove scrivere lettere al padre
o poterla davvero fondare
quella nostra dannata rubrica
fatta solo di foto
di pezzi di fica.

Mi sono rotto, fratellone,
di farti del male per posta
di lavare i miei denti al lavoro
dei tuoi amici che senza risposta
mi cominciano sempre a menare:
non ce l’hanno una camera loro?

Mi sono rotto, fratellone
delle giacche di pelle
foderate di strisce e di stelle
quella gran collezione privata
di aeroplanini
alla fine te l’ho dirottata
in un vaso di terra bruciata.

Mi sono rotto, fratellone
dei piselli misurati da bambini
della pallacanestro e del nostro
confluire sopra tavole imbandite
in attesa che il mese di agosto
buttasse a mare le nostre vite’.

Camera con vista

-Se c’è una cosa, dico a Rosa
che da morto non vorrei
certamente divenire
è un gran nome stampato
sopra un muro che vive.

Un muro freddo. Smattonato
con le lettere dipinte il giorno dopo
e poi riverniciate. Ogni due mesi, ogni tre mesi
per uno scopo. Quando passo per il ponte delle Fate

penso sempre alle carriere
costruite con pazienza
da ragazzi di quartiere
che furono solo più accorti
e picchiarono senza
farsi prendere o vedere.

Le carriere costruite sui morti
con il loro codazzo di veglie, anniversari
e saluti del cazzo: presidenti di circoscrizione
e ministri contadini
che arrivano e parlano. Attenti
a tutela del nome
l’hanno messo anche ai loro bambini.

Quando passo per il ponte delle Fate
ce n’è uno sul muro che vive
e lo curano come
la cappella dei Colonna lì al Verano.

A novembre mi rimane l’impressione
che il dolore si riduca
a un problema di manutenzione

e guido piano. Quasi che la volessi aspettare
una sera lucidissima di quelle
con la luna, molte lucciole e le stelle
dove prendere vernice ed imbiancare
tutto quello che il muro non dice.

Sarebbe un attimo. Sarebbe solo
una questione di luce e poi
forse il nome potrebbe scappare.
Ci sono ricordi, dico a Rosa
che vivono nella speranza
di farsi dimenticare. E’ che Rosa
ha iniziato da poco a russare’.

3 COMMENTS

  1. bellissime che queste 2 poesie. per caso qualcuno sa se questo valente poeta ha già pubblicato e se si, potrebbe indicare titolo e casa editrice di eventuali libri? grazie molte.

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