Promemoria – Genova, luglio 2001
di Sergio Baratto
(Oggi 2 marzo a Genova comincia il processo contro 26 manifestanti tra i molti che hanno partecipato al controvertice G8 del 2001. Il reato – gravissimo – che viene loro contestato si chiama “devastazione e saccheggio” e comporta una pena minima di otto anni. Contro i 26 imputati il comune di Genova si è costituito parte civile.)
1.
La prima cosa che colpisce – molto concretamente, sulla pelle – è il calore del sole. La carne comincia subito a formicolarci, a friggere. Mi dico: va bene, probabilmente mi scotterò, ma forse finalmente mi abbronzerò anche un pochino, così la smetteranno di prendermi in giro.
Ci incamminiamo. Il paesaggio da dietro le lenti scure è un po’ squallido, a parte il luccichio del mare alla nostra sinistra, esagerato e pagano come sempre.
Poi iniziano i canti, le urla. Qualcuno, prima, aveva detto che sarebbe stata una cosa triste e silenziosa. Qualcun altro aveva aggiunto: “Dovrà esserlo – siamo seri”.Invece no. Apriamo sempre di più le nostre bocche impastate, strofa dopo strofa, finché il sole non ha comincia a luccicare sulle nostre otturazioni.
Andiamo avanti così per molto tempo, ingrossandoci a ogni incrocio, a ogni piazzetta, per un tempo annullato che può essere contato indifferentemente in ore o giorni. È mattina? È pomeriggio? Chissenefrega. Il sole, a sbirciare nella sua direzione, sembra proprio che l’abbiano inchiodato in quel pezzo di cielo sopra le nostre teste.
2.
Sturla. Immobili in quel magma di corpi sudati, adesso sembriamo davvero una mitologica moltitudine. E dove noi finiamo, sopra le punte dei capelli, lo spazio si riempie di un vocio abnorme, in continua esplosione. Qualche finestra si apre, qualcuno ci indica col dito puntato e il bambino tenuto in braccio guarda più il dito che noi. Una vecchia saluta. La parte superiore di un uomo nudo si sporge da un balcone, lancia grandi secchiate d’acqua. La nostra disidratata gratitudine verso quello strano centauro, metà essere umano e metà ringhiera, sale a ondate, istericamente.
Ma perlopiù le case si sono abbottonate, rinchiuse, contratte in modo innaturale, come chi cerchi inutilmente di non ascoltare una storia che gli è sgradita tappandosi con forza muscolare le orecchie e strizzando gli occhi.
E mi sembra che siamo noi, adesso, la storia sgradita.
3.
A volte le cose ci mettono un secondo a trasformarsi. Un passo prima si era come nel sonno, un passo dopo si picchia contro spigoli e sporgenze. Rosalinda corruga la fronte. Si ferma di colpo. Si sfila un auricolare del walkman, mi guarda seria e dice: “Alla radio dicono che la polizia ha appena caricato la testa del corteo”.
Si va tutti avanti, ostinati. Le notizie dal fronte circolano di bocca in bocca, sempre più terrorizzanti, e allora noi ci si dice: cazzo, cerchiamo di racimolare anche le ultime briciole di coraggio o di imprudenza, continuiamo. Non diamogliela vinta. E queste parole dobbiamo urlarcele l’un l’altro accostando le bocche alle valve delle orecchie. È difficile capirsi, se due elicotteri ti ronzano proprio sopra la testa.
Boccadasse, Lido d’Albaro, Corso Italia. Corso Italia: da una parte una muraglia altissima, dall’altra il mare. Nessuna via di fuga.
Fulvio mi fa segno di guardare in alto. Caserma. Su un’altura scintillano gli elmi blu.
Faccio incontri inaspettati: “Pamela! Anche tu qui!”
“E già. Come ti sembra la situazione?”
“Una merda.”
Arriva di corsa un uomo. È sconvolto, grida: “Fermi, avanti duecento metri è un macello! La polizia sta caricando!”
“Chi è che sta caricando?”
“Il corteo! Picchia tutti indistintamente!”
E allora ci fermiamo. Impossibile andare avanti, tornare indietro, girare a destra, svoltare a sinistra. Solo stare fermi, avanzare di uno o due passetti, faticosamente, migliaia di schiene contro migliaia di pance, migliaia di braccia contro migliaia di braccia.
4.
In cima a una stradina laterale di destra, chiusa da un cancello, spuntano altri elmetti luccicanti. Passa un ragazzo. Tiene in mano una bottiglia, un foulard sulla bocca. Cerca un varco tra i nostri corpi. Qualcuno si ritrae spaventato. Qualcun altro gli urla di andare affanculo, figlio di puttana. Gli elmetti luccicanti a quel punto avranno forse stretto le impugnature dei manganelli, contratto l’indice sul grilletto dei lanciarazzi.
Grida concitate, una sirena. Un’ambulanza arriva facendosi largo tra di noi. Sembra in preda a una terribile urgenza. Mi passa proprio di fianco. Due cose attirano la mia attenzione. La prima è che non si tratta di un’ambulanza ordinaria, ma di un comune furgoncino bianco su cui hanno scritto “Servizio Sanitario GSF”. La seconda, che le hanno completamente fracassato i finestrini. Da quelle aperture dentellate posso scorgere le facce dei suoi occupanti. Hanno le pettorine rosse, le mani sporche di sangue, gli occhi sbarrati. Subito viene anche a me di sbarrare gli occhi.
5.
Qualcosa deve aver dato uno scossone al corteo, come quando si dà un colpo di frusta, perché all’improvviso ci si mette a indietreggiare convulsamente, con le mani alzate.
“Stiamo scappando,” urla incredula una ragazza dietro di me, “stiamo scappando!”. Un’altra grida: “Fermi, sto cadendo, fermi!”. Mi metto anch’io a scappare, a dire scemenze. Penso: se uno adesso veramente cade per terra, che gli succede? Ma è il pensiero di un attimo, perché a soffermarcisi troppo, poi uno dimentica di fare attenzione ai propri piedi e casca per davvero.
Vicino a me un’anziana coppia si tiene a braccetto. Lui è basso e ha la barba grigia, lei sembra la mia panettiera. Sono terrorizzati, paonazzi per il sole e la tachicardia. Continuano a balbettare “Com’è possibile che ci facciano questo?”.
Mani alzate, ho detto. A guardarle meglio, si vede che strane forme stanno germogliando in cima ai palmi, strani fiori rivolti verso l’alto, dove ancora volteggiano gli elicotteri. Sono i nostri diti medi.
6.
A ritroso, in massa sparpagliata. Le facce sono spugnose per la paura, la rabbia e la tristezza. I tre elementi si mescolano tra noi in proporzioni differenti. Per me soprattutto rabbia e paura. Un sinolo inestricabile di roba fusa insieme in forma di magma e merda. Il bisogno di pisciare è quasi insopportabile, ma bisogna contrarre i muscoli e andare avanti. O meglio, tornare indietro.
Metà pomeriggio. Si torna verso via Caprera in disordine sparso, a manciate. In tutto, qualche migliaio di persone che camminano sempre più lentamente. Uno vicino a me brontola che “non hanno rispettato il nostro diritto di manifestare”. Un altro si gira, batte le mani, incita: “Su, ragazzi, dai”. Fulvio lo guarda, mi dice: “Secondo te a quello se gli spacco il culo a calci faccio male?”
“No, ma è meglio se lasci perdere.”
“Oh, cos’è quel fumo?”
“Oh, cazzo.”
7.
A un centinaio di metri da noi la gente si mette a correre. Il coglione di prima grida “Non è niente, andiamo avanti, sarà qualcuno che ha acceso un fuoco sulla spiaggia!”.
Fulvio: “Guarda che quelli sono lacrimogeni!”
Il coglione: “Ma no, sarà un falò!”
Fulvio: “Ma vattene un po’ affanculo!”
Andiamo avanti. Io e Fulvio ci guardiamo e all’unisono, senza parlare, ci infiliamo gli occhialini da piscina e il foulard.
Il fumo sembra diradarsi, la gente davanti a noi si ricompone.
Il coglione: “Visto? Non era niente”.
Fulvio ed io gli occhialini ce li teniamo, per il momento.
Arriviamo. Mi giro verso sinistra. C’è una stradina in salita, stretta e ripida. Attraverso gli occhialini un po’ appannati faccio in tempo a scorgere gli elmetti blu che scintillano sotto il sole. Un momento dopo partono i lacrimogeni. La gente si scompone, urla, si butta furiosamente verso destra. Veniamo travolti, trascinati via. A destra c’è un muro. Ci si schiaccia l’un l’altro contro quel muro. Qualcuno cade per terra. Rosalinda tossisce e stringe gli occhi. Gli occhialini non ce li ha mica, lei. La afferro per un braccio e mi metto a correre come un cretino. Usciamo dalla nebbia. Aspettiamo che escano anche gli altri del gruppo.
Ci siamo tutti. Il coglione è ammutolito. Fulvio si sfila gli occhialini bestemmiando ad alta voce. Tossiamo, la pelle ci brucia. Cerchiamo di lavarci le braccia e il petto. È il gas C.S., mica cazzi!
8.
Sturla, prima del tramonto.
Siamo dall’altra parte della città, rispetto a dove dovremmo essere. Mentre la folla dei manifestanti ci sfila di fianco, diretta ai pullman, cerchiamo di capire dove si trova lo spezzone milanese del corteo, quello con cui dovremmo tornare. Si cerca di telefonare, ma i cellulari funzionano a singhiozzo. Veniamo a sapere che è molto più avanti e sta contrattando con la polizia la strada per la stazione. Ora ci tocca rifare daccapo la strada. O in alternativa di trovare un posto dove passare la notte.
“C’è una scuola dormitorio, in centro. Se ci va male e non ribecchiamo il gruppone, possiamo andare lì.”
“Fa’ vedere la cartina… Dov’è?”
“Qui. Via Battisti.”
“No, prima proviamo a raggiungere gli altri.”
Deciso. Ci mettiamo a correre. Via Cavallotti, Boccadasse, Lido d’Albaro. Tutti quelli che incrociamo vanno nella direzione opposta, verso piazza Sturla. Ci fermano, dicono: “Non andate verso il centro, che la polizia sta facendo i rastrellamenti”. Questa cosa dei rastrellamenti, in particolare, ce la ripete più d’uno. Ci domandiamo se stiamo facendo una cosa intelligente, a ributtarci in bocca a quelli lì.
Ripassiamo dal posto dei lacrimogeni. Adesso non c’è nessuno, si passa tranquillamente.
I rastrellamenti. Verrebbe da ridere, da dire “Dài, mica è un film con la Wermacht e i Marines!”. Un elicottero ci ronza costantemente sulla testa. Sembra che ce l’abbia proprio con noi, che ci stia dando la caccia. Ovviamente non è così, è solo una mia paranoia.
9.
Poi, contro ogni speranza, ecco il nostro gruppone, che avanza serrato lungo Corso Italia.
Facciamo cordone anche noi ultimi approdati, a turno, con l’assurda impressione di doverci guadagnare pericolosamente ogni metro di quel campo di battaglia non regolamentare per cui nessuno di noi immaginava di essere stato arruolato.
Il servizio d’ordine: “Più veloci!”, “Rallentate!”. E che cazzo, non ho neanche ancora pisciato.
Finalmente il sole picchia di meno, ma le mie braccia sono ormai belle cotte.
Corso Marconi. Una carcassa d’auto incendiata, negozi devastati, vetri ovunque. Siamo in tanti, eppure all’improvviso non parla più nessuno. Stiamo entrando nel centro del gran casino.
Gli sbirri. Ovunque ci si giri, si vedono luccicare quei loro caschi blu o neri. Un blindato ci si accoda, un altro ci precede. Ai lati, altri sbirri. Ci guardano sfilare.
Si resta tutti zitti, come se nessuno avesse il coraggio di aprir bocca, come se una sola parola detta a voce troppo alta potesse scatenare nuova violenza. Ci guardano sfilare e perlopiù hanno espressioni vuote. Alcuni sembrano stanchi. I pochi che portano in faccia un sorrisetto sottile non hanno la divisa, sono in borghese e stringono in mano ricetrasmittenti o macchine fotografiche. Li guardo con la coda dell’occhio destro e un ondata di odio purissimo mi monta dentro, nello stomaco, irresistibilmente.
10.
Un tipo alto e grosso come un armadio, con una gran barba, è l’unico di noi che non ha mai smesso di parlare. Mentre passiamo davanti a quegli ufficialetti in ghingheri, alza il vocione da sega elettrica e si mette a sbraitargli contro. Grida “Fate l’ammòre! Fate l’ammòre!”. Dalla folla, in risposta, un coro unanime – “Ma piantala, pirla!”. Il gigante si offende:
“Ma io non ho detto niente di violento! Ho detto ‘fate l’ammòre’! Non è provocazione!”
“Ma va’ a cagare!”
Torna il silenzio.
Davanti a noi si profila la muraglia di container. Fanno impressione, davvero. Sembra impossibile che qualcuno possa aver avuto un’idea così. Recinti di ferro e muraglie di lamiera. Dico a Rosalinda: “Questi sono pazzi”. Mi risponde: “No. Sono come i Pinochet, i Videla, i Massera. Fascisti”.
In quel silenzio esplode una voce isolata: “Assassini! Assassini!”. Un istante dopo, con tutta la voce che ci resta, siamo in migliaia a urlare la stessa parola. E mentre anch’io urlo come non ho mai urlato, con un sapore ferroso di sangue in gola, sento che quella vibrazione furiosa sta risuonando anche nelle orecchie di quegli altri. Penso che, con tutta la loro arroganza e le loro corazze, se avessero un briciolo di intelligenza dovrebbero cominciare a preoccuparsi. Che se oggi possono anche convincersi e raccontare di aver vinto, da domani ci saranno migliaia di persone come me – agguerrite, ferite, incendiate di rabbia. Che tra ieri e oggi è scoppiata la guerra civile.
Assassini! Assassini! Assassini! Assassini! Assassini! Assassini! Assassini!
11.
Il treno attracca. Milano Porta Garibaldi, è buio e le zanzare pungono di brutto, quando saltiamo giù dalla carrozza. La stazione è semideserta. Afa indonesiana come sempre.
Qualcuno si saluta, si dà appuntamento per l’indomani. In fondo al binario uno sparuto gruppo di persone ci coglie alla sprovvista con un lungo applauso. Il coglione sorride e si mette ad applaudire all’unisono con loro.
Fulvio: “Quello lì è proprio un deficiente”.
Io li guardo in faccia, questi milanesi qui che sono venuti ad aspettarci alla stazione per confortarci. Sono facce normali, di quelle che incroci in cortile o per strada. Provo in silenzio una scalmana di gratitudine.
Saluto tutti. Resto solo. Vado a prendere il tram. La giornata è finita.
12.
Quella sera, tornando a casa dalla stazione, sono passato davanti all’Hollywood. L’Hollywood, per chi non lo sapesse, è un locale molto noto di Milano – una specie di discoteca molto à la page, frequentata da vip di ogni risma – o almeno questo è quello che si diceva una volta. Magari adesso non è più così, ma chissenefrega. Comunque sia, nel passarci davanti ho dovuto fendere un piccolo gruppetto di avventori che si erano assiepati sul marciapiede davanti all’ingresso. Parevano molto allegri, su di giri, un po’ cocainizzati. Di sicuro erano molto fighetti. Ridevano, chiacchieravano. Io gli sono passato in mezzo col ghiaccio in cuore, per tutto quello che era successo in quei due giorni di merda. Ho provato un senso atroce di estraneità. I nostri piedi stavano calcando il medesimo asfalto, ma appartenevamo a mondi separati, incomunicanti.
La strada, i binari del tram, i palazzi con le finestre illuminate. Un sabato sera di luglio apparentemente come tanti altri.
Sono salito sul Nove, mi sono seduto zitto zitto. Ho pensato.
Domani comincia una nuova storia.
Riporto dalla rete:
Scalzone: “Agnoletto& C., quanti errori”
L’ex leader di Potere Operaio critica duramente la filosofia e l’organizzazione della protesta dei Gsf e delle “tute bianche”: “Sono apprendisti stregoni che scaricano le colpe sui ‘cattivi'”
di Paolo Fior
NIZZA – “Via da Genova”. Lo aveva detto, come si usa dire, in tempi non sospetti, quando già molti organi d’informazione iniziavano a battere la grancassa rilanciando in un crescendo frastornante la guerriglia mediatica praticata dalle tute bianche e dai portavoce del movimento: “Violeremo la zona rossa”. Un can can teso a dipingere scenari apocalittici. Il 7 luglio in un intervento pubblicato su la Piccola Unità (il giornale prodotto dalla redazione di Frigidaire e diretto da Vincenzo Sparagna) scriveva: “Hanno disegnato una sagoma su uno specchio. Noi ci stiamo di fronte e che facciamo, andiamo a metterci al posto della sagoma? Il sangue non è pomodoro, o simulazione virtuale di pomodoro”. Andiamo altrove, magari prima, dopo o nelle stesse ore. Andiamo a ballare o a sfasciare, ma altrove: “Via da Genova”. Un appello rivolto alla parte più radicale del movimento antiglobalizzazione, quella parte che vuole rimettere in discussione le fondamenta stesse della società capitalistica e che ritiene illusorio e pericoloso credere che sia sufficiente un’endovena di etica nel sistema attuale per cambiare qualcosa. “Via da Genova – scriveva ancora – dove sinistri apprendisti stregoni mimano ridicolmente l’assalto al cielo, vanno dicendo che ‘impediranno il G8′, e si preparano a scaricare le colpe di quello che avverrà se ci scappano i morti su Anarchici, Autonomen, Black block e altri arrabbiati”.Oreste Scalzone (*), ex leader di Potere Operaio, rifiuta il ruolo di “Cassandra”, giudica con durezza la sinistra riformista – i Ds e i loro mal di pancia -, i “portavoce” del movimento – il gruppo Attac, gli Agnoletto e i Casarini -, i professionisti dello “Spettacolo della Contestazione”, i Vip, le star parlamentari, l’intellighentzsija degli ‘interpreti autorizzati’ dei controvertici, la linea seguita da giornali come il Manifesto, Le Monde Diplomatique, subalterna a quella espressa dall’alto di un organo come La Repubblica. Propone che si apra ora una riflessione profonda e a tutto campo sull’accaduto e sulle prospettive future.
Come giudica le giornate di Genova?
“E’ tutto così assurdamente auto-contraddittorio… Come si fa a partire dall’obiezione dell’esistente e poi pretendere sconti ferroviari, alberghi e servizi per andare a contestare? Come si fa a fare per settimane una «guerriglia mediatica » dicendo “Violeremo la zona rossa, sfonderemo”, usare simbologie ossessivamente militari, guerresche salvo poi precisare “naturalmente, tutto è metaforico, ludico, lasciateci fare, veniamo con le pistole ad acqua…”, e poi, a quelli che a sfondare ci vanno con le pietre, oppure, altrettanto simbolicamente, sfondano vetrine di banche o fanno riots, andare a dire che come minimo sono dei rozzi, che non capiscono i sottintesi, non hanno humour, e hanno rovinato tutto? In realtà si è andati molto oltre: un tumulto, una jacquerie, un rabbioso scatenarsi di sabotaggio a simboli e a a cose diventa l’ im-pen-sa-bi-le : talché, bisogna ‘fantasmare’, in un delirio di rilevanza clinica, su «provocazioni poliziesche» come unica spiegazione. Come si fa a protestare perché gli anarchici greci vengono bloccati e respinti ad Ancona, e poi imputare al governo e alle forze dell’ordine di non aver bloccato – cioé arrestato, dopo averli individuati – i casseurs ? Questo avrebbe richiesto più militarizzazione della città…Come si fa a dare dei teppisti e dei barbari a coloro che hanno lanciato pietre e sfasciato vetrine, e poi gestire tutti insieme la morte di Carlo Giuliani? Da vivo, col suo estintore in mano, Carlo chi era ? Se – come si precisa – non era di un settore specifico, vuol dire che a scontrarsi sono stati e state in migliaia ! Siamo al delirio…”
La questione della violenza e della non-violenza, dei contestatori “buoni” e di quelli “cattivi”, è al centro del dibattito in questi giorni. Qual è la sua opinione?
“La questione della violenza è un rivelatore: qui non c’è nessuno che ha l’etica o l’estetica della violenza. Io personalmente ho un grande rispetto della non-violenza, quella vera, quella che ha origine in Thoreau, in Ghandi, o anche dei Dolci o dei Capitini: essa è nata come una forma assai radicale di lotta, certamente non legalitaria, men che mai concordata. Trovo, più che ipocrita, assurdo il discorso di chi dipinge il mondo come lo dipinge, le genti sfruttate come le dipinge – come la gente nella stiva del Titanic – e poi quando si rompono le vetrine tira fuori l’etica. Una questione etica si può porre rispetto alla persona, o comunque al ‘vivente’, certo non rispetto al sabotaggio di merci, che magari uccidono… A Genova, agli scontri, alle «appropriazioni», hanno partecipato parecchie migliaia di persone e non i soli black block. Ora si dice che i black block erano in realtà poliziotti e carabinieri travestiti e per provarlo si tirano fuori foto demenziali. Da che mondo e mondo le forze dell’ordine si travestono e incitano anche all’azione, ad andare oltre, al fine di individuare le persone e arrestarle. Ci sono poliziotti in divisa, in borghese, ci saranno stati poliziotti travestiti da tute nere, bianche, da suore…Agnoletto, Casarini, il Manifesto invece vogliono far passare la tesi che gli scontri siano stati provocati solo da un’orda di barbari o peggio da provocatori infiltrati. Una menzogna inaccettabile che non deve passare. Non solo per una questione – questa sì, anche etica – sulla menzogna ; ma anche per le questioni di contenuto che questo delirio reca con sé… Come l’altra menzogna che tanti si raccontano da sé: e cioè che se al governo ci fosse stato il centrosinistra, tutto quello che è successo non sarebbe accaduto. A Genova hanno perso tutti, i Grandi a cui lo spettacolo del summit serviva come in epoche lontane servivano le incoronazioni degli imperatori: per il forte messaggio simbolico. Hanno perso i Ds il cui stato confusionale è sotto gli occhi di tutti. Ha perso Berlusconi che non può essere certo soddisfatto di quanto è accaduto. E ha perso anche il Genova social forum, checché ne dica Agnoletto ; nonché le « tute bianche»…”
In questi giorni, però, tra l’opinione pubblica c’è un senso di forte allarme. La brutalità delle forze dell’ordine ha riportato alla memoria di molti scene orribili e in tanti parlano di situazione cilena. Lei crede che sia possa arrivare a un giro di vite, che la libertà di dissentire e di manifestare sia a rischio?
“Personalmente reputo molto improbabile che in Italia oggi si possa arrivare a un vero giro di vite, che si possa arrivare nei fatti a una sospensione delle garanzie costituzionali, impedendo ad esempio ai lavoratori di scioperare o di scendere in piazza. Negli anni ’70 non credevo che si sarebbe arrivati in Italia all’instaurazione di un regime come quello dei colonnelli greci ; a maggior ragione non credo che oggi ci siano le condizioni per qualcosa del genere, nonostante la ricomposizione di ceti, rappresentanze e istituzioni capitalistico-borghesi di cui il governo Berlusconi appare sempre più chiaramente espressione (Berlusconi appare sempre di più come l’uomo al proscenio, inquadrato da garanti/tutori che incarnano l’establishement profondo, ‘classico’ del capitalismo, anche nella sua articolazione, per così dire, italiana)”.
Le sue critiche al Genova social forum sono durissime: lei non mette la sordina, subordinandole all’unità politica nell’attacco al governo di centrodestra e alle forze dell’ordine per quanto è accaduto a Genova…
“Eh beh, è un po’ come per i tifosi di calcio: quando la propria squadra perde ce la si prende con l’allenatore proprio, molto più che con quello avversario… Nella gestione delle forze di polizia c’è stato una sorta di compromesso storico: i capi operativi sono notoriamente di stretta osservanza ‘di-essina’, definiti correntemente di osservanza ‘violantiana’ ; i responsabili politici sono quelli del centrodestra. Il giudizio è scontato. La critica a chi ha gestito il movimento, invece, è necessaria. Essa è scevra di ogni processo alle intenzioni o risentimento. E’ una critica che potrà conoscere una pausa, essere archiviata, solo se c’è la volontà di ridiscutere tutto, di aprire un confronto davvero a tutto campo. Non bisogna rimpiangere la vecchia Sinistra – socialdemocratica, ‘socialista-reale’ o altro -, né cadere in riedizioni altrettanto pessime, quando non – in qualche caso – perfino peggiori. Bisogna separarsene. Occorre ripartire dal tema centrale del lavoro che ormai permea tutto il tempo di vita delle persone; che sembra ridurre la sua ‘presa’ sulla vita umana perché non se ne vedono più i contorni, dato che tende a diventare totale. Bisogna … Bisognerebbe riprendere… E’ un percorso lungo e difficile. Dobbiamo ancora scoprire nuove iniziative e forme di lotta, ripartire dalla base: cominciando col ripensare a cosa sarebbe l’equivalente attuale, a scala locale e planetaria, di quello che è stato il punto elementare di partenza e di forza rappresentato dallo sciopero. E’ sulla base dell’azione di lotta che possono emergere i contorni delle moltitudini sfruttate, proletarie dei nostri tempi… ”
* Oreste Scalzone vive in Francia da vent’anni. Arrestato il 7 aprile del ’79, rilasciato per gravi motivi di salute e successivamente condannato in via definitiva, in Italia, a nove anni di prigione per banda armata e associazione sovversiva, si è rifugiato a Parigi. Il governo francese ha negato l’estradizione.
(25 luglio 2001, ore 1915)
Grazie a Sergio per la cronaca di quelle ore, e a Elio per aver riportato l’intervista a Scalzone, che trovo molto lucida. In un mio libro anch’io ero arrivato alla soluzione “via da Genova”: ma molto più tardi di Scalzone, e soltanto grazie al comodo senno di poi!
In quei giorni comunque non andai a Genova perché percepivo e non potevo soffrire l’ambivalenza di quelle dichiarazioni di guerra: “violeremo la zona rossa” sarà stato anche un motto simbolico, ma ha dato l’autorizzazione simbolica (il simbolico è reale!) alla polizia a considerare pericolosi criminali centinaia di migliaia di cittadini pacifici. Per la prima volta da decenni la gente comune scendeva in strada a rivendicare non interessi di classe, ma UN MONDO MIGLIORE, e Casarini & C. con le loro “dichiarazioni ludiche” li hanno di fatto assimilati a sabotatori violenti.
Ammetto che è facile da parte mia dirlo DOPO, a bocce ferme e al calduccio: e comunque bisogna pur dirlo che fu un errore madornale.
Comunque ritengo che sia inaccettabile che oggi Casarini rischi il regime di sorveglianza speciale: non è ammissibile che non gli venga consentito di muoversi liberamente e continuare a fare politica come e dove meglio crede. Perciò, se volete, vi invito a dare un’occhiata all’appello che ho ricevuto e pubblicato in home page. Io l’ho già firmato mandando una mail all’indirizzo riportato.
No no aspetta Tiziano, quella che chiami “autorizzazione” non è venuta dai seguaci di Casarini, quelli li respingevano allegramente con gli idranti, le cariche delle forze dell’ordine, in cui massacravano gli inermi, i pacifici, i pensionati, i bambini ecc. furono “legittimate” (tra virgolette, perché era una legittimazione mediatica non certo della legge, che giustifica l’uso della forza e delle armi entro precisi limiti) da vera violenza, quella dei black blok, questi stavano in testa al corteo, provocavano e scappavano (potevano scappare tranquillamente, c’era una specie di contratto con le forze dell’ordine). Non sarebbe stato possibile fare quello che è stato fatto alla Diaz e a Bolzaneto senza la violenza vera, ma soprattutto straordinariamente mediatica dei black blok, le tute bianche erano solo ridicole coi loro vestiti di cartone e i caschi. Ridicole eccetto nel caso dell’assalto alla camionetta, ma lì furono caricati a freddo e senza motivo, in una zona di percorso autorizzato, dai carabinieri, carica coi “caroselli” delle camionette e più spesso con tentativi di investirli gettandosi sul gruppo a velocità demenziale. Credo che per quell’episodio in cui le tute bianche hanno assaltato la camionetta, effettivamente si possa parlare di difesa legittima o stato di necessità. Tra l’altro in quel caso i passeggeri della camionetta scapparono (questo la legge dice che devono fare) e furono lasciati scappare (le tute bianche non cercavano certo spargimenti di sangue).
Quindi la grande responsabilità di Agnoletto e di Casarini fu quella di non prevedere alcun servizio d’ordine delle tute bianche e di permettere che i black blok si infiltrassero nei cortei, alla testa dei cortei, per “legittimare” le cariche.
Quindi non confondiamo la discutibilissima “mitopoietica” (come disse Casarini alla commissione parlamentare) degli assalti alla zona rossa, con un contratto tra forze dell’ordine e black blok per legittimare qualunque azione.
Verissimo Andrea, grazie dell’intervento, ma ammetterai che prima delle giornate di Genova era della “mitopoietica” dell’assalto alla zona rossa che si parlava, e quella mitopoiesi ha creato un calderone dove, faziosamente, falsamente, nazisticamente, è stato omologato tutto, le persone inermi andate civilmente a manifestare e gli spaccatutto che agiscono negli stadi, nelle piazze, ovunque ci sia da far casino. E’ responsabilità di Casarini & C. aver creato questo alveo mitopoietico generalizzante che ha aperto la porta a una giustificazione (faziosa, orrenda, strumentale, è chiaro) delle violenze di polizia come reazione a una volontà indifferenziata di “violazione”. Le differenze fra i black block e la gente incazzata ma civile c’erano eccome! Ma la “mitopoiesi” di Casarini ha contribuito a occultare questa differenza. E’ stato uno sbaglio politico.