L’antidoto romanzesco
di Massimo Rizzante
François Taillandier è nato a Clermont-Ferrand nel 1955. Gli inizi della carriera lo vedono intraprendere un’attività giornalistica piuttosto intensa (collaborazioni con La Montagne, un quotidiano regionale, e con Livres-Hebdo, a Parigi). Nello stesso tempo comincia a pubblicare i suoi primi romanzi: Personnages de la rue du Couteau (1984), Tott (1985), Benoît ou les contemporains obscurs (1986).
Terminato con la fine degli anni ‘80 quello che si potrebbe definire il suo apprendistato artistico, nel 1990 pubblica Les clandestins (Editions de Fallois) che gli vale immediatamente il premio Jean-Freustié e nel 1992 Les nuits Racine (Editions de Fallois) che vince il premio Roger-Nimier e con il quale entra a far parte di quella ristretta cerchia di romanzieri contemporanei capace di rinnovare la scena artistica francese degli anni ‘90 (vicino al nome di François Taillandier si potrebbero annotare, tra gli altri, quelli di Benoît Dutertre e i suoi romanzi Tout doit disparaître, Drôle de temps e il recentissimo Le Voyage en France, Philippe Muray e il suo On ferme, Michel Houellebecq, Richard Millet e François Salvaing).
Questi primi romanzi rivelano ciò che diventerà una delle caratteristiche costanti della sua opera: un crescente desiderio di descrivere, sotto l’impulso di un’originale rilettura dell’opera di Balzac, la società odierna in modo critico o interrogativo (si è parlato in Francia, infatti, di “realismo critico”). La critica e l’interrogazione sono spesso il frutto di una forte volontà, non nostalgica e lucidamente rivolta a render conto di ciò che sta scomparendo, di non abbandonare i paesaggi naturali e urbani del passato, una volontà in grado di aprire continuamente delle finestre su ciò che è stato. Esplorare la vita dei personaggi significa per Taillandier rivelare la loro radicale e relativa appartenenza storica ad un momento preciso di un’epoca: romanzo, quindi, come antidoto contro la dilagante presentificazione, grazie alla quale ogni conservazione è colpevole, ogni sguardo genealogico è un tradimento.
Dopo una parentesi dedicata alla stesura di un romanzo propriamente storico come Mémoires de Monte-Cristo, pubblicato nel 1994 (Editions de Fallois), l’autore pubblica nel 1997 Des hommes qui s’éloignent (Fayard), accentuando la sua scelta di un romanzo “realista”, profondamente scettico nei confronti delle sirene del presente, che, come dice Lakis Proguidis nel numero della rivista letteraria “L’Atelier du roman” (24, La Table ronde, Paris, 2000), dedicato all’opera di Taillandier, “si sono messe a squalificare in blocco ciò che è stato” e dove l’avvenire, per la prima volta, non “promette più nulla agli esseri umani”, soprattutto a quelli che non riescono “a far eclissare in fretta dalle loro anime le tare del passato”.
Taillandier è un romanziere molto francese che intrattiene stretti rapporti sia con la grande ville che con la provincia profonda. E’ inoltre un attento osservatore dei costumi linguistici, delle loro rivoluzioni come delle loro involuzioni, tanto che nei suoi libri è spesso presente un’analisi minuziosa e corrosiva della lingua quotidiana che oggi non trova più la sua fucina nel popolo, ma nel linguaggio della comunicazione e della pubblicità. Nella sua prosa, perciò, la lingua letteraria della ricca tradizione francese (bisogna fare almeno i nomi di Racine e Corneille, ma anche di Diderot. “J’aime faire voisiner la langue classique avec les créations linguistiques les plus démodables”, ha affermato una volta l’autore) e registri linguistici regionali, arcaici e orali si mescolano singolarmente, dando vita ad un amalgama originale e sempre segnato dalla ricerca di una distanza ironica nei confronti della realtà storica descritta.
Taillandier, sebbene non voglia assolutamente rinunciare alle sue origini, è uno scrittore europeo. E per due ragioni.
La prima deriva dal fatto che egli è perfettamente consapevole che in arte non esiste nessuna universalità senza un profondo radicamento storico e temporale nella propria provincia esistenziale: sia essa quella di un quartiere parigino chiamato Saint-Lazare, con le sue stazioni, i suoi supermercati, i suoi bistrots, sia che si tratti di una Parigi con annesse periferie viste e raccontate da Anielka, una ragazza nata nel 1964, figlia di emigrati polacchi, impegnata a sfuggire a tutte le seduzioni del presente, sia infine quella di una città piemontese chiamata Torino dove un generoso ed eroico pompiere (protagonista dell’ultimo romanzo di Taillandier, Le cas Gentile, uscito nel 2001), a causa di un’assurda infrazione, diventa improvvisamente un enigma per se stesso e per tutti coloro che lo circondano.
La seconda nasce, credo, dall’aver autenticamente assimilato la lezione kunderiana presente nell’Arte del romanzo (uscito in Francia, e in francese, nel 1986): “La storia del romanzo europeo è la successione delle scoperte (e non la somma di quel che è stato scritto). Solo in questo contesto sovranazionale può essere colto e capito appieno il valore di un’opera (ossia la portata della sua scoperta)”. Non è stata ancora scritta la storia della ricezione critica dell’opera di Kundera da parte degli scrittori francesi nel corso dell’ultimo ventennio. Di certo per Taillandier l’arte del romanzo, la sua storia plurisecolare come le sue scoperte, sono irriducibili alle radici nazionali della singola opera romanzesca.
Un altro autore importante della famiglia estetica di Taillandier è Louis Aragon, a cui l’autore ha consacrato nel 1997 un saggio personalissimo intitolato Aragon – Quel est celui qu’on prend pour moi? (Il libro gli è valso il Premio della Critica dell’Accademia Francese, istituzione che nel 1999 gli ha conferito il Gran Premio del Romanzo per il suo penultimo romanzo, Anielka) a testimonianza del fatto che il suo attaccamento a certe radici classiche della tradizione non esclude per nulla un attraversamento anticonformista (“Je n’ai pas encore bien compris pourquoi l’abandon au rêve ou à l’incoscient serait plus fondamentalement humain que l’exercice de la raison”) e un amore sincero per la presunta difficoltà dei grandi modernisti (difficoltà che coincide con la bellezza dell’arte moderna).
Taillandier ha pubblicato negli ultimi anni alcuni libri di cronache e di viaggio: Tous les secrets de l’avenir (1996), Journal de Marseille (1998) e ultimamente N6, la route de l’Italie (2000), sorta di taccuino o vademecum del romanziere in apparente vacanza dalle sue ossessioni, ma sempre rivolto lucidamente, per scorci e dettagli, a scoprire e a salvare luoghi, gesti e comportamenti di un’epoca. In altri termini ad immortalare l’unicità irripetibile del suo passaggio storico su questa terra.
Il romanzo – lo dice l’etimologia – è sempre stato, fin dalle sue origini, “roturier”, legato ai livelli più bassi della lingua, ma anche “routinier”, legato all’epoca storica e all’esplorazione di quel territorio così apparentemente conosciuto e così inafferrabile che è la vita quotidiana, ripetitiva, banale, ma imperscrutabile senza le domande di quei “compagnons de route” immaginari che sono i personaggi.
Spero che le opere di François Taillandier, così legate alla storia francese e alla storia sovranzionale del romanzo, possano, come credo sia tempo, prendere finalmente la strada del nostro paese. Diventare presto nostre compagne di strada…