Qui: appunti dal presente 1#

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Qui. Appunti dal presente è una rivista strana, è tenacemente cartacea, eppure funziona per certi aspetti come un blog ed è presente in rete. Non è una rivista specializzata, e in questo rifiuto consiste il suo rischio e la sua forza maggiore, la sua capacità di operare uno spostamento importante rispetto a qualsiasi rivista letteraria, o legata ad un’area disciplinare (politica, filosofia, psicanalisi, ecc.). Qui è giunta oggi al numero 9. Il suo ideatore e regista, Massimo Parizzi, la immagina come un diario collettivo, corale, che però necessita di essere sollecitato e guidato (o deviato virtuosamente).

Ardua impresa, parrebbe. Eppure da questa tensione tra scritture non specializzate (o non finalizzate) e montaggio accurato di esse, nascono occasioni di sguardi lucidi e concentrati sul nostro modo di essere situati, malgrado tutto, qui. In un nostro spazio-tempo non facilmente sfumabile o riscattabile dai mille altrove che ci sono offerti in qualità di sedativi o eccitanti. (A.I.)

(Presento il pezzo introduttivo e “d’innesco” del n°9)

Proposta
di Massimo Parizzi

davanti al dolore degli altri
Ho letto un libro, Davanti al dolore degli altri, di Susan Sontag (Mondadori, Milano 2003). Gli ‘altri’ cui si riferisce sono soprattutto le vittime di guerra. Al centro del libro sono la storia, i sensi, gli effetti delle immagini di guerra. Ma molte delle osservazioni di Sontag, molte delle domande che si pone e delle risposte che tenta, dei dubbi che esprime, sono riferibili anche (muovendosi dal particolare al generale, o dal parvum al magnum) a:

quello che abbiamo cercato di fare, nell’ultimo numero di “Qui”, con la colonna dal titolo “Un consuntivo”;
quello che abbiamo cercato di fare, in generale, con l’ultimo numero di “Qui”;
quello che comportano i tentativi di rendere più presente alla coscienza (di chi vive in pace) una guerra tramite la scrittura;
la nostra condizione di spettatori “davanti al dolore degli altri”.

Riporto qui i nodi affrontati o appena accennati da Sontag su cui vorrei invitare lettori e collaboratori di “Qui” a riflettere e scrivere, componendo così il prossimo numero della rivista.

1. Davanti al dolore degli altri inizia richiamandosi a un libro del 1938 di Virginia Woolf, Le tre ghinee, in cui “Woolf sostiene di credere che lo shock prodotto da tali immagini [di “corpi privi di vita”, di “case in macerie”] non possa non affratellare le persone di buona volontà”. “Ma è davvero così?” si chiede Sontag (p. 5). Lei ne dubita: “Non si dovrebbe mai dare un ‘noi’ per scontato quando si tratta di guardare il dolore degli altri. Chi sono i ‘noi’ a cui queste immagini scioccanti sono indirizzate?” (p. 6).

2. Ma c’è dell’altro. “Leggere in quelle immagini, come fa Woolf, soltanto la conferma di una generica avversione per la guerra” continua Sontag “significa liquidare la politica. La guerra per Woolf, come per molti polemisti che vi si oppongono, è generica e le immagini da lei descritte mostrano vittime anonime, generiche. […] Le argomentazioni contro la guerra non si fondano su informazioni relative al chi, al quando e al dove; l’arbitrarietà dell’inesorabile massacro è considerata prova sufficiente. Per quanti credono fermamente che il diritto stia da una parte e l’oppressione e l’ingiustizia dall’altra, e che la lotta debba continuare, ciò che conta è invece proprio chi viene ucciso e da chi.” (p.8)

3. Come ai precedenti, anche all’ultimo numero di “Qui”, e persino alla colonna “Un consuntivo”, abbiamo cercato di imprimere una ‘forma’. Sacrificando addirittura, a volte, la ‘realtà’ (cioè attribuendo ad alcune pagine del diario un’altra data, rispetto a quella reale, per poterle inserire in un punto piuttosto che in un altro dell’insieme). Il montaggio degli interventi, e i tagli e le modifiche apportati a molti di essi, sono stati guidati, anche, dalla ricerca di ritmi, rapporti tonali, contrappunti… ‘Forme’, insomma. La rappresentazione della ‘realtà’ non può farne a meno, visto che è una rappresentazione. E forse non deve farne a meno, perché mancherebbe al suo compito, di sottrarre la realtà al rischio dell’informe, del precario, dell’insignificante. “Le immagini di Goya sono una sintesi. Dicono: cose simili a queste sono accadute” scrive Susan Sontag (e il corsivo è suo) a proposito della serie di acqueforti I disastri della guerra (p. 40). Ma più avanti (e nel leggere queste righe forse si possono sostituire mentalmente le parole ‘bello’ e ‘bellezza’ con ‘dotato di una forma’ e ‘forma’):
“L’idea che una scena di battaglia cruenta possa essere bella […] è un luogo comune, se riferita alle immagini di guerra create dagli artisti. […] Ma riconoscere la bellezza nelle fotografie delle rovine del World Trade Center nei mesi successivi all’attentato sembrava frivolo, sacrilego. […] Molte di esse, però, erano davvero belle. […] Il luogo in sé, il cimitero di massa battezzato ‘Ground Zero’, era ovviamente tutt’altro che bello. […] Sotto forma di immagine una cosa può apparire bella – o terrificante, insopportabile o tollerabile – come non è nella vita reale. L’arte trasforma per definizione, ma le fotografie che documentano eventi disastrosi e deprecabili vengono aspramente criticate se appaiono ‘estetiche’.” (pp. 66-67)

4. La rappresentazione, per immagini o parole, della sofferenza, e la visione di questa rappresentazione: Sontag solleva altri problemi, al riguardo.
Uno è: “Forse le sole persone che hanno il diritto di guardare immagini di sofferenze reali così estreme sono quelle che potrebbero fare qualcosa per alleviarle […] o che da questa immagine potrebbero imparare qualcosa. Noialtri, che lo vogliamo o no, siamo tutti voyeur […] meri spettatori o vigliacchi, incapaci di guardare” (pp. 36-37). “Che significa protestare contro la sofferenza rispetto al semplice prenderne atto?” (p. 35)
Un altro è il problema posto “dalla strumentalizzazione dei sentimenti (pietà, compassione, indignazione) nella fotografia di guerra e dagli automatismi messi in atto nel suscitare emozioni” (p. 70).
Un altro ancora è il problema di “che cosa fare delle emozioni così suscitate, delle informazioni così trasmesse. Se pensiamo che ‘noi’ non possiamo fare niente […] allora cominciamo ad annoiarci, a diventare cinici, apatici”. “La compassione è un’emozione instabile. Ha bisogno di essere tradotta in azione, altrimenti inaridisce.” (p. 88) Inoltre: “Fino a quando proviamo compassione, ci sembra di non essere complici di ciò che ha causato la sofferenza. La compassione ci proclama innocenti, oltre che impotenti” (p. 89).
Un quarto: perché alcune immagini, scrive Sontag, o descrizioni, si può aggiungere, possano “rendere più profondo il senso della realtà”, occorrerebbe uno spazio “dedicato alla meditazione, in cui poterle guardare. Ma è difficile imbattersi in uno spazio dedicato alla serietà nella società moderna”. Come, se è possibile, “garantire le condizioni appropriate in cui guardare tali immagini e reagire pienamente a ciò che ci mostrano”?

5. Infine: “Si ritiene che ci sia qualcosa di moralmente sbagliato nel compendio di realtà offertoci dalla fotografia; che non si abbia alcun diritto di fare esperienza a distanza della sofferenza degli altri, privata della sua cruda forza; che si paghi un prezzo umano (o morale) troppo alto per quelle qualità della visione […] che, consentendoci di prendere le distanze dall’aggressività del mondo, ci rendono liberi di osservare e, se vogliamo, di prestare attenzione. Ma così non facciamo che descrivere il funzionamento della mente stessa. Non c’è nulla di male nel fare un passo indietro e pensare” (p. 102). “Forse attribuiamo troppo valore alla memoria, e non abbastanza al pensiero.” (p. 100)

Troppa, come si dice, ‘carne al fuoco’? Probabilmente. Ma ognuno, se lo desidera, parta anche soltanto da uno dei punti proposti. Vedremo poi se e come le varie riflessioni si legano. Poi e man mano. Sarebbe bene, infatti, che gli interventi mi venissero mandati appena scritti (fossero anche appunti, frammenti). Così potrò farli circolare (ma solo fra chi collabora al numero). E i testi successivi potranno partire anche da essi.

(www.quiappuntidalpresente.it)

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andrea inglese
andrea inglese
Andrea Inglese (1967) originario di Milano, vive nei pressi di Parigi. È uno scrittore e traduttore. È stato docente di filosofia al liceo e ha insegnato per alcuni anni letteratura e lingua italiana all’Università di Paris III. Ha pubblicato uno studio di teoria del romanzo L’eroe segreto. Il personaggio nella modernità dalla confessione al solipsismo (2003) e la raccolta di saggi La confusione è ancella della menzogna per l’editore digitale Quintadicopertina (2012). Ha scritto saggi di teoria e critica letteraria, due libri di prose per La Camera Verde (Prati / Pelouses, 2007 e Quando Kubrick inventò la fantascienza, 2011) e sette libri di poesia, l’ultimo dei quali, Lettere alla Reinserzione Culturale del Disoccupato, è apparso in edizione italiana (Italic Pequod, 2013), francese (NOUS, 2013) e inglese (Patrician Press, 2017). Nel 2016, ha pubblicato per Ponte alle Grazie il suo primo romanzo, Parigi è un desiderio (Premio Bridge 2017). Nella collana “Autoriale”, curata da Biagio Cepollaro, è uscita Un’autoantologia Poesie e prose 1998-2016 (Dot.Com Press, 2017). Ha curato l’antologia del poeta francese Jean-Jacques Viton, Il commento definitivo. Poesie 1984-2008 (Metauro, 2009). È uno dei membri fondatori del blog letterario Nazione Indiana. È nel comitato di redazione di alfabeta2. È il curatore del progetto Descrizione del mondo (www.descrizionedelmondo.it), per un’installazione collettiva di testi, suoni & immagini.