Immagini

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di Giorgio Mascitelli

L’immagine del prigioniero iracheno incappucciato e con i fili elettrici legati agli arti e le braccia aperte, un truce manichino privato anche della compostezza, è un’immagine che resterà nella memoria, sempre entro i limiti della labile memoria mediatizzata del nostro tempo, e magari avrà anche un effetto nel respingere l’involuzione bellicista che sta sempre di più avendo diritto di cittadinanza nei mezzi di comunicazione e dunque tra la gente. Probabilmente sarà considerata uno scacco per l’amministrazione Bush che dovrà porvi rimedio con altre immagini, anche se credo che il vero scacco dell’amministrazione Bush sia il record dei prezzi del petrolio dopo un anno di occupazione dell’Iraq.

Certo molti oppositori della guerra hanno trovato in questa e nelle altre immagini di tortura una triste conferma dei loro timori e la possibilità di riassumere tangibilmente l’orrore del conflitto, ma non credo che sul lungo periodo questa immagine o meglio l’uso che ne viene fatto renderà un buon servizio al movimento per la pace. Dico l’uso di questa immagine, perché naturalmente essa ha un valore oggettivo di testimonianza delle atrocità commesse da un esercito di occupazione per di più ufficialmente lì per portare democrazia e diritti civili, ma l’uso mediatico ha trasformato questa immagine in un’icona, tanto emotivamente potente da prendere tutto lo spazio mentale di chi la osserva e nel contempo da essere completamente vuota dal punto di vista della comprensione.

Per esempio un ipotetico manifesto che ricorra a quella fotografia potrebbe tranquillamente accompagnarsi a slogan differenti se non opposti tra loro: “No alla guerra, sempre e comunque”, “Sì alla guerra agli infedeli”, “Quando sbagliamo, sappiamo riparare e non tolleriamo mele marce tra di noi”, “Ecco i diritti civili del petrolio” e “Mai più guerre senza l’approvazione dell’ONU”. Dal mio punto di vista questi slogan non esprimono lo stesso grado di verità storica e politica e anzi alcuni sono del tutto falsi, ma ciascuno di questi può vantare indiscutibilmente una sua via di relazione con quell’immagine. Ora questo particolare relativismo nell’uso di quell’immagine, per chi detiene il controllo dell’apparato mediatico e ha con la verità un rapporto utilitaristico, per cui essa coincide di volta in volta con quanto avvantaggia in quel momento gli interessi dominanti nella società, è positivo, mentre è rovinoso per chi, come il movimento per la pace, perlomeno cerca di fissare alcuni criteri di convivenza civile se non universali, almeno che non cambino alla prima schizzata in alto o in basso del barile di petrolio sui mercati di Londra o Hong Kong.

Non vorrei che il lettore prendesse queste considerazioni come delle elucubrazioni del solito intellettuale rompiballe abituato a spaccare il capello in quattro (anche se sociologicamente è ineccepibile che io sia il solito intellettuale rompiballe abituato a spaccare il capello in quattro) perché esse hanno una ricaduta pratica soprattutto per spiegare perché una guerra che non gode di molto favore popolare verrà combattuta ancora a lungo senza particolare danno per i governi che la fanno, a meno di qualche spettacolare baggianata dei governanti ( tipo le dichiarazioni del governo spagnolo subito dopo l’attentato di Madrid) o della scoperta da parte degli interessi dominanti che si perdono troppi soldi continuando così.

Una guerra, infatti, è per sua natura un accumulo di crudeltà, dalle quali si possono trarre altre immagini indubbiamente toccanti e fin qui la cosa è scontata, nell’epoca moderna accanto alla guerra guerreggiata è sempre esistita una propaganda che testimoniava le efferatezze del nemico. Ma è proprio l’uso emotivo, cioè mediatico, delle immagini che per il suo relativismo rende queste automaticamente al servizio degli interessi di chi detiene il controllo dell’apparato mediatico, che di solito è alleato o nei paesi più ingenui coincide con chi conduce la guerra. Infatti un’immagine crudele pone brutalmente ai suoi spettatori l’imperativo “impediamo tutto questo, che cessi subito, non importa come purché cessi”, ma è sul come e sul subito che chiunque può intervenire piegando l’emotività dell’immagine a qualsiasi linea politica. In questa prospettiva l’immagine del prigioniero iracheno che a me, come a molti, ha fatto dire “che le forze occupanti se ne vadano da lì”, può dar luogo ad altre reazioni di segno differente. E naturalmente un’immagine altrettanto efferata, come lo sgozzamento di un prigioniero americano, produrrà la medesima emotività a cui si reagirà con altre indignazioni e così di emozione in emozione la guerrà farà il suo corso.

Solo l’argomentazione, e dunque l’analisi politica del prima e del dopo, cioè il contesto di quell’immagine, può costituire la base di un consenso reale per il movimento per la pace, solo la creazione di un tessuto culturale che ridia spessore etico all’esperienza del mondo ( etico perché l’emozione totale di fronte all’immagine è segno di un assenza di interrogazione sul mondo e sul posto occupato da ciascuno, interrogazione che è alla base di qualsiasi etica) può far crescere un movimento per la pace. Il favorire la crescita di un tessuto di questo genere è un compito politico: negli ultimi tredici anni l’Italia è stata coinvolta, sia pure liminarmente, sia pure per peacekepping, in almeno cinque o sei spedizioni militari, una frequenza che non ha pari nella storia del nostro paese nemmeno nel periodo coloniale, e d’altronde ci è stato detto che la guerra sarà lunga e continua. Pertanto ci saranno ancora molte fotografie, ma neanche una che ritraesse lo zio Sam con il pollice alzato sul cadavere di un iracheno torturato servirà a favorire una presa di coscienza, se, come vuole il potere, il dettaglio prevarrà sul contesto e le ragioni di una politica di pace saranno delegate a un’emotività magari anche lodevole, ma del tutto occasionale.

(Pubblico con un po’ di ritardo un pezzo che mi è stato inviato a fine maggio. Non credo questo cambi nulla. Non siamo vincolati, come i giornalisti, al cinismo della “pura attualità”. A. I.)

(immagine di Barbara Kruger)

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Andrea Inglese (1967) originario di Milano, vive nei pressi di Parigi. È uno scrittore e traduttore. È stato docente di filosofia al liceo e ha insegnato per alcuni anni letteratura e lingua italiana all’Università di Paris III. Ha pubblicato uno studio di teoria del romanzo L’eroe segreto. Il personaggio nella modernità dalla confessione al solipsismo (2003) e la raccolta di saggi La confusione è ancella della menzogna per l’editore digitale Quintadicopertina (2012). Ha scritto saggi di teoria e critica letteraria, due libri di prose per La Camera Verde (Prati / Pelouses, 2007 e Quando Kubrick inventò la fantascienza, 2011) e sette libri di poesia, l’ultimo dei quali, Lettere alla Reinserzione Culturale del Disoccupato, è apparso in edizione italiana (Italic Pequod, 2013), francese (NOUS, 2013) e inglese (Patrician Press, 2017). Nel 2016, ha pubblicato per Ponte alle Grazie il suo primo romanzo, Parigi è un desiderio (Premio Bridge 2017). Nella collana “Autoriale”, curata da Biagio Cepollaro, è uscita Un’autoantologia Poesie e prose 1998-2016 (Dot.Com Press, 2017). Ha curato l’antologia del poeta francese Jean-Jacques Viton, Il commento definitivo. Poesie 1984-2008 (Metauro, 2009). È uno dei membri fondatori del blog letterario Nazione Indiana. È nel comitato di redazione di alfabeta2. È il curatore del progetto Descrizione del mondo (www.descrizionedelmondo.it), per un’installazione collettiva di testi, suoni & immagini.