Viaggio in Argentina # 11
di Antonio Moresco
Còrdoba
Laura e Nic partono per Buenos Aires, io e Giovanni per Còrdoba. All’arrivo, ci viene a prendere all’aeroporto Esteban Nicotra. È una persona dolce. Ci porta a casa sua. Dopo un po’ arriva Silvia, sua moglie, che era andata a comperare delle bottiglie di cerveza ed era passata alla posta. Parliamo un po’. Lei ci mostra con desolazione la busta appena ritirata, lacerata in modo plateale da parte a parte, senza neanche salvare le apparenze. Esteban ci racconta di un suo lontano viaggio in Italia, dove ha vissuto di espedienti e ha fatto anche il bancarellaio. Era partito con un volo dell’Aeroflot russa, la compagnia meno cara. L’aereo aveva fatto scalo in moltissimi posti, per tirare su passeggeri, fermandosi, anche a lungo, in Brasile, nordamerica, Europa, forse anche Africa… Prima di atterrare in Italia si era fermato a Mosca. Esteban aveva addosso un numero incredibile di strati di vestiti, perché il bagaglio non doveva superare un certo peso. Così vestito, era costretto a scendere dall’aereo anche in posti dove si moriva dal caldo, fradicio di sudore e tutto infagottato come per una spedizione polare.
Silvia ci racconta della sua difficoltà ad avere la nazionalità italiana, delle discriminazioni tra la discendenza per linea maschile e femminile, delle continue nuove regole e intoppi frapposti dalle ambasciate italiane e dai consolati, nonostante siano espressione di un governo che si riempie la bocca con la demagogia sugli italiani all’estero. Esiste tutto un sistema di potere di consoli, ambasciatori, istituti italiani di cultura, coi loro giochi chiusi, le loro mafie politiche, personali, amicali, la loro separatezza, la loro mancanza di promozione reale della cultura italiana all’estero, particolarmente grave in un paese di origine italiana come è l’Argentina. Piccoli satrapi che operano una vera e propria strozzatura culturale. Scrittori e poeti italiani che vengono qui per incontri ufficiali foraggiati e per caroselli all’estero, a volte del tutto ignoti in Italia, che non hanno prodotto niente di significativo, che arrivano qui senza sapere niente dell’Argentina, con la loro piccola vanità, irresponsabilità. Quelli che presiedono gli istituti italiani di cultura vivono nei quartieri residenziali, mettono in tasca un sacco di soldi, moltiplicati ancora di più dal rapporto di cambio col peso argentino, non si mischiano con la vera vita di qui, sono pieni di disprezzo e superiorità e arroganza, si portano dietro servi e camerieri orientali dai loro precedenti incarichi all’estero…
Esteban ci regala un suo libro di poesie e un altro con delle traduzioni da Pasolini. Li invitiamo fuori a mangiare, a patto di offrire noi, perché sappiamo che sono poverissimi, nonostante insegnino tutti e due all’università.
Usciamo, la macchina parcheggiata al sole è rovente. Mentre andiamo verso il centro, passiamo di fronte a una casa dove ogni tanto abitava il Che da ragazzo. Lo mandavano qui vicino, in una zona più alta, per i suoi problemi di asma. Qui in Argentina non si parla quasi del Che, che pure è argentino. La casa dove abitava da ragazzo, ad Alta Gracia, è aperta al pubblico solo da poco e dopo lunga discussione, in cui alla fine ha prevalso il sì solo per la prospettiva di ricavarne un po’ di quattrini dai turisti. All’interno ci sono fotografie dell’infanzia, poche altre cose, non si capisce bene che cosa ha fatto dopo. Racconta Silvia che il Che faceva parte di una famiglia molto importante, che si era fidanzato con una ragazza di Còrdoba appartenente anche lei a una famiglia dell’élite bianca dell’Argentina, grandi ricchezze, palazzi che noi non riusciamo neanche ad immaginare. Questa donna vive ancora qui, è molto vecchia, ma nessuno si permette di parlare di questa brutta storia, che era stata fidanzata con un ragazzo che poi ha preso una cattiva strada ed è morto crivellato di colpi, disteso come un pezzente su un lavatoio in uno dei paesi più miserabili di questo continente.
Ci portano alla cattedrale. Ci indicano una piccola via di fianco, dove c’è la sede della polizia e dove durante la dittatura militare torturavano. Per anni non ci passava più nessuno per quella via, quelli che proprio dovevano farlo l’attraversavano di corsa e col cuore in gola, perché poteva succedere qualsiasi cosa prima di arrivare dall’altra parte. «Noi stessi non ci rendevamo conto delle vere dimensioni di quanto stava accadendo» dice Silvia. «Le persone sparivano, potevi venire arrestato in qualsiasi momento, senza nessuna ragione. Quante volte, a pensarci, abbiamo rischiato senza saperlo. Andavamo in macchina e mio padre, che non aveva peli sulla lingua, certe volte rispondeva incazzato ai poliziotti, ai posti di blocco, senza sapere che poteva succedere qualsiasi cosa, che potevamo finire nelle camere di tortura, sparire…»
Di fronte alla cattedrale c’è la piazza che è stata teatro di scontri violenti, alla fine degli anni Sessanta e anche dopo. Arrivavano notizie anche in Italia, in quegli anni. C’erano gli operai delle industrie automobilistiche, della Fiat, delle altre case straniere, concentrate qui a Còrdoba, la città industriale dell’Argentina. El cordobazo. Proprio qui, in questo punto, durante una manifestazione, sono venute avanti alcune donne con delle carrozzine. Si pensava che ci fossero dentro dei neonati. Invece erano piene di mitra. Li hanno tirati fuori. È cominciata una sparatoria tremenda, con morti, feriti. Adesso ci sono ancora delle lotte, in questa città, contro le privatizzazioni selvagge, dell’azienda dell’energia elettrica, per esempio, che fornisce luce anche alla capitale. Non ce l’hanno fatta a privatizzarla, come con quasi tutte le altre cose, trasporti, ferrovie, grandi parti del territorio nazionale, miniere d’oro della Patagonia abbandonate, svendute a canadesi e anche ad altri, bloccate in questo momento da un braccio di ferro tra ambientalisti e abitanti da una parte e nuovi proprietari dall’altra che ne esigono l’uso, a causa del cianuro che viene utilizzato nel processo di pulitura dell’oro e che si disperde nella falda freatica e nell’ambiente.
Giovanni fotografa Esteban, io lo fotografo mentre lo sta fotografando.
Al ritorno a Buenos Aires, solito spettacolo dell’aeroporto deserto come per il coprifuoco. Io sono completamente sordo, perché mi si sono chiuse dolorosamente le orecche durante il volo, forse a causa della cattiva pressurizzazione dell’aereo e del catarro che mi è cresciuto dentro la testa per tutto il sole che ho preso sulle Ande. Sento un dolore acuto alle orecchie e sotto le mascelle. I rumori sono attutiti, persino la voce di Giovanni la sento appena, come da molto lontano.
Finalmente, in piena notte, nella stanzetta del mio hotelito, a digiuno, comincio ad un tratto a starnutire, con fragore, una volta, due volte, cinque volte, dieci volte, venti volte, senza riuscire a fermarmi, mentre tutti dormono, nel silenzio. Comincio a soffiarmi il naso. Mi esce dalla testa una gran quantità di muco mischiato a sangue e io ricomincio come per incanto a sentire.
(Continua…)
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Pubblicato su “Fernandel” 1/2004 – gennaio/marzo 2004. La foto è di A. Moresco.