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Scusi, è qui l’Europa?

di Helena Janeczek

europa-02-ob-08.jpg Il 15 febbraio 2003 l’Europa sembrava qualcosa che stava per nascere, per nascere letteralmente, un fiume sgorgato da tutte gambe che si univano in manifestazione, una fioritura che si schiudeva nelle bandiere arcobaleno che comparivano persino alle finestre dei palazzi patrizi, delle villette isolate, dei casermoni periferici.

Rivendicavano presenza e partecipazione dove mai si sarebbe soffermato lo sguardo, rendevano belle le parti più brutte delle città, belle di una bellezza infantile che non si addiceva a quei luoghi e soprattutto strideva con il disincanto che aveva accomunato i popoli di questo continente chiamato vecchio. Stavamo cercando di fermare una guerra con le bandiere che piacciono ai bambini, con canti e palloncini: con buona pace di Donald Rumsfeld, non eravamo più vecchi per niente.
Dov’è finita quella forza, adesso, a poco più di un anno, dopo aver contato i morti di Madrid, temendo che saremo noi i prossimi, mentre aspettiamo se ci rilasciano gli ostaggi di cui uno ci teneva a morire da eroe italiano. Da un lato cercano di sedare la nostra paura ormai fisica e la nostra ripugnanza per quella guerra con l’ansiolitico euforizzante del patriottismo, dall’altro forse significa qualcosa se un uomo che non era né soldato (infatti non era preparato a farlo), né in altri modi servitore dello stato, ma solo un simpatizzante della destra nazionale, esprime poi davvero in extremis l’appartenenza a un popolo e a un paese.
E’ già finita, siamo di nuovo soltanto italiani, francesi, tedeschi? Cittadini del mondo globalizzato, esseri umani contemplati dalla carta dei diritti umani, o col termine che si sta sempre più radicando “occidentali”? Esistono solo gli “occidentali” fra i quali a volte finiscono anche i giapponesi?
Hanno scritto che l’11 marzo madrileno è stato l’11 settembre europeo. Per la ragione più ovvia: da quel momento in poi era certo che gli attentati avrebbero riguardato anche altri paesi europei, in prima linea quelli intervenuti in Iraq. Se è così, se è soltanto così, vuol dire che l’Europa – non parlo di quella politica, ma di quella del sentire comune – la fanno gli altri, soltanto gli altri.
Vuol dire che ci unificano le bombe, il rifiuto dei governi che ci hanno trascinati in una guerra che non volevamo, il risentimento per la strapotenza militare, economica e anche culturale degli Stati Uniti.
“Né con Bush, né con Bin Laden” è uno slogan efficace. Peccato che George W. Bush impersoni nella maniera più esemplare tutto l’immaginario europeo del pistolero ignorante e sbruffone, peccato che molti comincino a intravedere Bin Laden in ogni marocchino, complici non solo la Fallacci, ma forse anche quello stato francese che dopo aver girato le spalle agli Usa, ha deciso di affrontare i problemi di integrazione vietando alle musulmane di presentarsi velate in luoghi pubblici (e ogni altro simbolo di appartenenza religiosa), riaffermazione reattiva di una laicità che rischia di involvere anch’essa in senso fondamentalista. Non ci resta che diventare più europei diventando più antiamericani e/o –islamici, due alternative che non escludono la possibilità di abbracciarle moderatamente entrambe, piazzandosi fra i moderati al centro?

Nel campo della cultura in senso stretto sembra ormai da tempo non esistere altro metro se non la concorrenza americana, al limite anglosassone. Polemiche come quelle iniziate da Mauro Covacich che sosteneva la maggiore debolezza della letteratura italiana rispetto a quella americana esistono analoghe in altri paesi del vecchio continente. Mai che ci venisse in mente di guardare a come si presenta la letteratura italiana rispetto a quella tedesca o francese anche perché della letteratura tedesca e francese conosciamo davvero poco. E’ un circolo vizioso: se ne traduce poca, perché interessa a pochi lettori, dunque l’offerta è così scarsa e sparpagliata che i lettori potenziali rischiano di non vederla.

L’unica cosa europea che finora ci abbia avvicinati, ma sempre in negativo, è la nostra moneta unica e il suo coincidere con la crisi economica, il nostro progressivo impoverimento.

Un francese, un tedesco e un italiano si trovano al bar.
– Da noi, con sta storia dell’Euro hanno raddoppiato i prezzi -.
– Da noi pure.-
– No, guarda da noi di più, soprattutto sugli alimentari-.
– Da noi, pensa, lo chiamiamo persino «Teuro»: viene da «teuer», caro.-
– Da noi è raddoppiato il pane.-
– E le sigarette, vogliamo parlare delle sigarette? –
Non c’è battuta, non c’è nulla che distingue il tedesco, il francese e l’italiano.

A fine marzo ho fatto una trasferta di tre giorni negli Stati Uniti. Le cose più interessanti mi sono capitate in viaggio. All’andata ho conosciuto un giovane americano arrivato in ritardo da Parigi, al quale il personale della compagnia aerea non sapeva dire fino all’ultimo se avrebbe trovato posto sull’aereo per New York. Era nervoso, doveva rientrare per un matrimonio e poi tornare in Francia. Si rivolgeva in due lingue alle persone che rispondevano in un inglese peggiore del suo italiano. Era vestito in modo sportivo ricercato, aveva capelli biondi ricci tagliati bene e una montatura di occhiali molto leggera. Del resto, che doveva trattarsi di uomo con qualche ruolo di rilievo in un contesto internazionale, lo si era intuito anche solo dal fatto che parlasse l’italiano.
Era un manager di “Decathlon”, proprietà della più ricca famiglia francese – la decima al mondo mi diceva – incaricato di introdurre la catena negli Usa, dove non esistevano negozi analoghi. Il problema non era dunque il mercato, ma il diverso modo di affrontarlo. Sosteneva che i francesi era più facile inquadrarli, quel che gli dici fanno, mentre gli americani vogliono sempre dimostrare nella gestione delle cose il loro spirito d’iniziativa. Per questo c’era bisogno di una persona come lui, capace di mediare fra le culture.
– Sei di origine europea? -, gli ho chiesto allora.
– No, cubana. –
– Oh, that’s nice. –
Per poco non dicevo una frase del genere. Il fatto che avesse la pelle chiara e cappelli, appunto, biondi, non giustificava la dismisura della mia sorpresa implicitamente razzista.
Senza che si fosse parlato di questo, senza che avesse usato la parola, poco dopo mi confidò che da quando girava per l’Europa – aveva anche avuto una fidanzata a Firenze – non gli era mai capitato di incontrare un figlio di immigrati in una posizione analoga alla sua, neanche di un pezzo inferiore.
– There’s no integration in Europe -, concludeva, – no real chance. –
Dopo mi sono venuti in mente tutti gli Esposito, Chung, Shah e Rodriguez morti nelle Torri Gemelle.

Al ritorno mi ha accompagnato all’aeroporto un tassista molto nero con un accento africano che si rivelava del Togo.
– Je habite le Bronx -, spiegava quando eravamo ormai passati al francese, aggiungendo che aveva studiato ad Annency. C’è l’aveva a morte con la Francia, rea di tutti i disastri postcoloniali e, con ragioni simili a quelle del manager cubano, dichiarava che era molto meglio vivere negli Stati Uniti, New York si intende, non posti pieni di “red-neck vraiment mechants, vraiment racistes”, facendo ruotare la sua erre africana. Però suo figlio per il momento preferiva che vivesse in Svizzera, piuttosto che “dans le Bronx” dove non gli piaceva l’inevitabile influenza dei “black americains”, gente scoppiata di pur sacrosanta ira nei confronti degli ex-schiavisti bianchi.

La Svizzera. L’Europa a immagine e somiglianza della Svizzera: agiata, priva di slancio, incapace di accoglienza, però tranquilla, un bel giardinetto recintato dove far crescere un figlio, fosse anche nero come il carbone. L’avrebbe mai detto, il saggista neocon Robert Kagan, che la sua visione dell’Europa come paradiso degli ignavi sarebbe stata sostenuta da un tassista africano forse persino non in regola con la “Green Card” – “qui se non fai niente di criminale”, sosteneva, “nessuno viene a romperti le scatole” – nonché arrabbiatissimo con tutto il primo mondo prevaricatore, occupatori dell’Iraq inclusi?

Spero non sia così. Spero che persino in Svizzera ci sia dell’altro, un po’ dell’Europa che sembrava muovere i primi passi il 15 febbraio 2003. Non è colpa nostra se siamo costretti a reagire. Solo che a reagire, a reagire e basta, si rischia di diventare reazionari.

pubblicato su “Letture”, giugno/luglio 2004.

1 COMMENT

  1. Interessante quest’articolo (a proposito, bentornata Helena!).
    Gli Americani prima di diventare così buoni e cari con le minoranze (soprattutto con un buon conto in banca) il loro colonialismo se lo sono fatto e consumato in casa. Loro non andavano a occupare il Togo, erano gli altri che venivano a farsi occupare (o disoccupare) in casa loro. Ad un certo punto, all’incirca una sessantina d’anni fa, hanno deciso di bombardare un pò di Europa, insomma di andare per una volta tanto in trasferta: ne hanno spazzato via una buona fetta, verso il centro nord. In città come Dresda e Amburgo non se lo ricorda nessuno, o quasi…Centinaia di migliaia di morti non parlano. Poi, i nostri cari Liberatori (per carità, ci hanno liberato dal nazifascismo, ma quando finiremo di pagarne il prezzo?)hanno messo la “pietra sopra” Hiroshima e Nagasaki. E adesso, come va in Iraq?
    L’Europa unita s’ha da fare. Prima o poi. Dobbiamo crederci. Per farlo, dobbiamo, secondo me, essere orgogliosi del nostro passato, della nostra vecchia Europa che non deve mollare. Si riprendano i loro hamburger e la loro democrazia a senso unico!

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