Il documentario come ortopedia dello spirito 2

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Di Andrea Inglese

(In agosto è apparso un pezzo con lo stesso titolo, dove raccoglievo qualche riflessione sull’arte del documentario. Ora martellerò soprattutto su Fahrenheit 9/11. A. I.)

Appena uscito nella sale italiane, il documentario di Michael Moore ha provocato, a sinistra, due autorevoli anatemi: quello del professor Cacciari, su “Repubblica” del 25 agosto, e quello di Luca Sofri, su “Vanity Fair” del 26 agosto. Di certo, non si tratterà degli unici anatemi contro Moore, né forse dei più convincenti. Ma non riesco ad ignorarli del tutto, avendo avviato qui una riflessione sul documentario, proprio alla luce di Fahrenheit 9/11.

Avevo previsto reazioni pregiudiziali a Moore, da sinistra, all’insegna dello snobismo. E non credo di essermi sbagliato del tutto. Vedo dello snobismo nel venerando Cacciari, e nel giovane Luca Sofri. Non mi riesco a spiegare, altrimenti, questo improvviso rigorismo estetico o dottrinario, pronto a spezzare il capello in quattro nei confronti di una requisitoria contro la guerra, che ha il merito di aver ottenuto negli stessi Stati Uniti la diffusione di un film di cassetta.

A dire il vero molte delle osservazioni di Cacciari su Fahrenheit 9/11 sono condivisibili. Il professore si chiede: “Che cosa spiega la svolta neoimperiale della politica estera americana? Questo, che è il vero interrogativo, non trova nel film che risposte approssimative e contraddittorie.” Moore non dà ovviamente tutte le risposte. Ma è anche chiaro che solo un ampio saggio di geopolitica, pubblicato su Limes, avrebbe saputo inquadrare in modo più netto e preciso “la svolta neoimperiale della politica estera americana”. Certo, ma chi se li legge questi saggi? E soprattutto, quanti sono i lettori? Non voglio io sprezzare analisi approfondite di geopolitica, ma valutare nel modo adeguato la capacità di Moore di rendere pubblico, attraverso un media altamente popolare, un messaggio urgente ed estremamente scomodo. Chi fosse ancora convinto che la denuncia contro la guerra, contenuta in Fahrenheit 9/11, sia un fatto assodato e condiviso da tutta la sinistra, qui o negli USA, si guardi un po’ in giro. Il caos iracheno, che cresce esponenzialmente di giorno in giorno, rende le opposizioni di sinistra, tanto italiane quanto statunitensi, estremamente timide. E non riesco a spiegare questa timidezza, se non attribuendola anche ad una mancanza di argomenti, ossia di prospettive critiche sull’esistente. Il vantaggio di chi ha ormai innescato una guerra, anche la più nefanda ed ingiusta, sta nel fatto che può sempre dire: “ma sono gli altri che mi sparano addosso”.

Per questo motivo, nonostante tutti i suoi limiti, il film di Moore costituisce un documento indispensabile nel dibattito che riguarda la guerra. Esso espone, senza mezzi termini e sfumature tattiche, una serie di potenti obiezioni alla legittimità politica, militare e morale dell’attacco statunitense all’Iraq. E lo fa rivolgendosi principalmente ad un pubblico nordamericano. Che poi gli argomenti di Fahrenheit 9/11 siano in parte conosciuti, o debbano essere integrati da altri e approfonditi, mi sembra del tutto naturale. Vorrebbe forse Cacciari che Moore facesse lui da solo tutto il lavoro per gli altri, intellettuali con cattedre universitarie, dirigenti di partito, specialisti di geopolitica?

Riguardo alle critiche di Luca Sofri, mi sento più in imbarazzo. Non conosco il personaggio, né seguo quanto abitualmente dice o scrive. Posso solo riferirmi all’articolo apparso su “Vanity Fair” e riportato sul suo blog. Ho l’impressione che qualcosa di fondamentale del suo discorso mi sfugga del tutto. Delle due l’una, o sono io ottuso nel cogliere il sovrasenso che aleggia tra le righe del suo pezzo, oppure quel sovrasenso è davvero etereo e sfuggente. La tesi principale di Luca Sofri è la seguente:

“Penso che [Moore] sia un demagogo, bugiardo, violento, scorretto e trombone. Penso che in lui abbia trovato sintesi la sinistra per cui non solo il fine giustifica i mezzi, ma che ha addirittura perso del tutto di vista il valore e il significato dei mezzi. Penso che esistano due sinistre, oggi. Hanno intenti simili, spesso. Ma una ha a cuore le sue ragioni, i suoi principi, i suoi valori, i suoi criteri di diversità dalla destra, e pensa che il loro mantenimento sia il suo primo obiettivo e senso. Comportarsi bene, fare cose di sinistra. È la sinistra diversa.” Con un esordio così, il suo discorso non poteva non intrigarmi. E lo dico senza ironia. Il problema è che malgrado la tesi sia attraente, rimane inspiegabilmente astratta e generica. Poi c’è un’altra sinistra per cui invece conta innanzitutto la vittoria, anzi più ancora conta la sconfitta dell’avversario. A qualsiasi costo. À la guerre comme à la guerre, senza andare troppo per il sottile e facendosene un vanto. A costo persino di non distinguersi più dalla destra. A costo di diventare – svuotate le sue presunzioni di ‘diveristà antropologica’ – una sinistra ‘uguale’.”

Che si possa accusare Moore di essere “demagogo” lo capisco anch’io e non chiedo a Luca Sofri di rendermene conto. Che Moore, invece, riempia i suoi documentari di menzogne, vorrei averne qualche prova tangibile. Sofri forse le possiede, ma dà per scontato che le si possieda anche noi. (Ci parla di siti internet di destra e sinistra, che smascherano Moore, senza neppure fornircene l’indirizzo.) Anche sul “violento”, avrei voluto avere qualche spiegazione in più. (Forse Moore è un tipo che alza la voce…) Ma credo che il punto più importante sia un altro e riguarda l’esistenza di queste due fantomatiche sinistre. Esse hanno gli stessi intenti, ma stili diversi. Una ha uno stile “beneducato”, rispetta le regole. L’altra ha uno stile “maleducato” e fa come la destra, trasgredisce le regole. Si potrebbe parlare di “sinistra con regole” e “sinistra senza regole”. Forse il discorso si farebbe più chiaro. Fatto sta, che quelli che amano Moore, fanno automaticamente parte della sinistra cinica e maleducata.

La sinistra “buona” è dunque ridotta al rispetto delle regole: una sinistra “svizzera”, insomma. Di contro c’è la sinistra “sudamericana”, indistinguibile dalla destra. Il manicheismo delle regole potrebbe forse essere utile per introdurre nuove forme di divisione nella sinistra “totale”. Ma il problema mi sembra ingarbugliarsi tremendamente dal momento che esistono regole e regole, oltre che legislatori e legislatori. Il problema non è certo semplice, per una sinistra che ha tra l’altro un’ininterrotta tradizione di “maleducazione”, dai gulag stalinisti ai picchiatori del movimento studentesco. Ma se è sacrosanta un’attenzione allo stile concreto dei comportamenti, oltre che ai sempre immacolati principi, è pur vero che la differenza tra destra e sinistra passa proprio, tra le altre cose, per la definizione di ciò si deve riconoscere come regola. Alcune battaglie fondamentali della sinistra, vertono proprio sulla ridefinizione delle regole, contestando legislazioni che, si sarebbe detto una volta, rispondono a interessi di classe, e non a quelli dell’intera società.

Per concludere vorrei ricordare l’esistenza di un documentario intitolato Le monde selon Bush, prodotto in Francia nel 2004. Il regista è uno statunitense, William Karel, coadiuvato da un giornalista francese Eric Laurent, autore di un libro sulla dinastia Bush. L’argomento è ancora una volta la guerra in Iraq, retroscena, premesse politiche e ideologiche, ruolo della propaganda, ecc. In realtà, sia Karel che Moore ci propongono dei documentari che parlano degli Stati Uniti, del rapporto tra governanti e governati, degli interessi degli uni in relazione agli interessi degli altri. La guerra in Iraq non è altro che lo specchio del rapporto di forza che esiste tra la volontà di una minoranza ricca e potente nei confronti di una maggioranza impotente. I fatti esposti da Karel concordano per l’essenziale con quelli esposti da Moore. (Se sono bugiardi, si sono dovuti mettere d’accordo per bene.) Karel ha il merito però di ampliare l’analisi, seguendo più dettagliatamente l’intreccio d’interessi della famiglia Bush e degli uomini che le ruotano intorno. C’è infatti tutto un gruppo di personaggi che giocano a cavallo tra stato ed imprese private, ora ricoprendo ruoli nei ministeri importanti ora nelle multinazionali che di quei ministeri sono clienti privilegiati. Sono persone ricchissime, ed esse determinano, alla lucede del sole, le scelte di politica estera statunitense. Nessun complotto, solo banali e giganteschi conflitti d’interesse.

Karel evidenzia aspetti a volte trascurati nel film di Moore. Si parla del nonno di G. W. Bush, tale Prescott Bush, che ha fatto i soldi sostenendo le imprese naziste, dopo l’ascesa al potere di Hitler in Germania. Si parla di come l’amministrazione statunitense abbia diffamato Hans Blix, pur timido e cauto ispettore in Iraq per conto dell’ONU. Soprattutto si sottolinea il legame tra Bush e le lobby evangeliche di area repubblicana, con particolare attenzione per i cristiano-sionisti. La dottrina escatologica di questi fondamentalisti cristiani sostiene che il Messia ritornerà sul territorio d’Israele e sarà universalmente riconosciuto (anche dai fedeli della religione ebraica). Da qui l’appoggio incondizionato al programma di colonizzazione della Palestina promosso dalla destra israeliana, con relative conseguenze sull’intera area mediorientale.

Quello di Karel è un documentario canonico: ne sono protagonisti esclusivamente analisti politici, funzionari della CIA, storici, direttori d’importanti testate giornalistiche, uomini politici, dirigenti d’azienda, consulenti del governo, ecc. Sono presentate varie posizioni, con l’intento però di rilevare contraddizioni e reticenze. Il montaggio non presenta sorprese, e oltre che i primi piani degli intervistati, non si vede molto altro. I punti di forza rispetto a Moore sono evidenti. Cacciari apprezzerebbe la sobrietà e la maggiore completezza del lavoro di Karel. Ciò nonostante, Moore compiendo un lavoro sulla forma del documentario e rompendo alcuni schemi fissi del genere, ottiene conseguenze sia sul piano dei contenuti sia, soprattutto, su quello della ricezione.

È importante sottolineare l’occorrenza della forma, in un genere che, comunemente, ne sarebbe alieno. E tutto ciò ricordando che Moore fa un uso apertamente politico del documentario. Ciò che diventa interessante è proprio questo gioco che tenta di tenere insieme più piani simultaneamente: il genere documentario, la rottura dei suoi canoni formali, e l’obiettivo politico che guida tutta l’operazione. Una tensione simile in Italia, in tempi recenti, l’ho riscontrata solo nelle messe in scene di Marco Paolini (penso in particolar modo agli “spettacoli” sul Vajont e su Ustica).

Perché questo interesse formale nei confronti di un genere che trae la sua forza e la sua legittimità dall’agire in funzione dei dati reali? Non si tratta, certo, di limitarsi ad una rivalutazione, sotto il profilo estetico, dell’inchiesta giornalistica o del reportage. Quello che vorrei evidenziare è semmai la grande rilevanza politica, che può acquisire un tipo di messaggio, capace di articolare dati e concetti in un determinato modo. Chiarisco subito. Fahrenheit 9/11 ha come referente la guerra propagandata e realizzata dal governo Bush contro l’Iraq. L’accumulo d’informazioni irrelate che i media ci propongono spinge alla conclusione che questa guerra, come forse tutte le altre, sia insensata: “è una guerra assurda…” si finisce prima o poi col dire. Contro questo abbandonarsi ad una sottrazione di senso, Moore lavora per la restituzione del senso. Più precisamente; Moore si impegna a mostrare il carattere iperdeterminato della guerra. Non solo la guerra non è assurda, non solo non è priva di motivi e di cause, ma questi motivi e queste cause sono molteplici, stratificati, e coinvolgono tanto il presidente degli Stati Uniti quanto il disoccupato di Flint, ovviamente secondo gradi di responsabilità diversa.

La lettura di Moore non è né monocausale né dogmatica. Che Bush sia smascherato come “un pericoloso deficiente” è un piccolo aspetto della questione, seppure assai sintomatico. Come è possibile che una figura così debole di presidente (incompetente nelle azioni e pure nell’oratoria!), sia riuscito a trascinare il proprio paese in una disastrosa guerra in Medio Oriente? Ovviamente non bastano le multinazionali del petrolio, le conoscenze del padre, i favori del fratello, e la potenza di manipolazione di un agguerrito clan di affaristi per rispondere alla domanda. Moore non insiste, ma in una frase inchioda i “democratici” alle loro responsabilità: essi hanno “incomprensibilmente” lasciato fare. Non solo, i media hanno ampiamente collaborato al diffondersi della menzogna (da quelli meno autonomi a quelli più autonomi). E, da ultimo, le condizioni di povertà di un non piccolo strato della popolazione statunitense hanno reso possibile che la guerra diventasse una fonte di guadagno. In tutto ciò l’ignoranza dei cittadini ha un ruolo assai importante. Ma questa ignoranza è fatta da gente che legge quotidianamente i giornali e guarda la televisione. È un’ignoranza satura d’informazioni incomplete o disorganizzate. Ma protagonista del documentario è anche questo mondo nel mondo, che è la narrazione giornalistica, con le sue figure retoriche, i suoi ossimori, le sue esortazioni contraddittorie e psicologicamente nocive.

Possiamo non apprezzare la forma convulsa e accelerata che Moore utilizza, sostenendo che essa è mutuata da quello stesso sistema dell’informazioni che egli vuole combattere. La vera rottura con il mondo dell’informazione-spettacolo implicherebbe l’acquisizione di una forma altra, davvero alternativa di visione della realtà. Moore non fa questo: non rivoluziona il documentario. Lo rende però tremendamente efficace, basato su un duplice movimento, quello distruttivo, volto a smascherare la povertà e la falsità dell’informazione vigente, e quello costruttivo, che aggiunge tassello a tassello, per offrire una visione globale dell’evento. Confondere le procedure di straniamento alla quale Moore sottopone i materiali televisivi più anodini (il girato prima della “messa in onda”) con le tecniche della TV trash significa confondere un’opera di decondizionamento con quella di propaganda.

In questi casi, forse, non è sufficiente guardare solo la forma del messaggio, ma anche, banalmente, a chi il messaggio è indirizzato e chi sono i soggetti che se ne avvantaggiano. Per l’industria dell’informazione, i destinatari del messaggio siamo noi, il grande pubblico dei lettori, dal più favorito socialmente a quello più sfavorito. Ma coloro che se ne avvantaggiano sempre e comunque, sono i proprietari dell’industria stessa. E spesso i vantaggi degli uni non corrispondono ai vantaggi degli altri. Nel messaggio di Moore, il destinatario del messaggio è anche colui che ne trae vantaggio. È il popolo statunitense di tutti coloro che sono tagliati fuori dai diritti elementari come casa, sanità, istruzione e lavoro, che può avvantaggiarsi, vedendo Fahrenheit 9/11. Essi hanno la possibilità di capire che non è giusto rischiare la vita o le proprie gambe, per ottenere la possibilità di frequentare un’università. Soprattutto quando la guerra che vanno a fare non è necessaria, è un sacrificio non indispensabile. E che sul loro sacrificio di nervi, di arti, di cervelli, alcuni traggono enormi profitti, senza correre nessun rischio.

Accogliendo tra le altre testimonianze, quelle dei giovanissimi soldati, consenzienti o disgustati, della madre che ha perso il figlio in guerra, dei giovani proletari di Flint, Moore ci ricorda che gli attori della politica non sono costituiti solo dalle fasce alte e privilegiate della società, da coloro che siedono nei ministeri, negli uffici dell’esercito o delle fabbriche d’armi. E non sono neppure solo i testimoni autorevoli di questa politica, analisti universitari o giornalisti importanti. Ma tutti. Tutti quelli che, avendo il diritto di voto, hanno anche il diritto di capire che cosa decideranno, per il loro destino, i governanti che li rappresentano. Sembra semplice, ma negli Stati Uniti, la più ricca e potente democrazia dell’Occidente, non lo è. E forse neppure da noi, europei scafati, è così semplice.

(immagine: marcia contro Bush, 29-09-04, New York)

39 COMMENTS

  1. Andrea,
    sono d’accordo, in modo addirittura imbarazzante, con tutto quello che dici. Ma proprio tutto!
    ;-) G.

  2. perché non ho il suo indirizzo email o il suo cellulare, se no non disturberei la tua lettura, così densa e seriosa.

  3. a me ne frega, Gianni; e l’accordo non mi imbarazza, visto che non sono snob; anzi, mi fa incazzare che non ci sia un compatto consenso, almeno a sinistra sull’utilità del documentario di Moore; quanto ad aggiungere… chi aggiunge qualcosa (a che cosa?), scagli la prima pietra (o la prima aggiunta)!

  4. Premetto che il film mi è piaciuto, ma che non lo considero un capolavoro rivoluzionario quanto a forma e contenuto. E’ un film elettorale che giustamente mira a portare quanti più americani possibile alle urne , e a votare in un certo modo, anyone but bush.
    Il fatto che kerry, e anche il financial times:) prospettino ora un graduale ritiro delle truppe dall’iraq fa ben sperare chi a questa guerra si è sempre opposto. E va bene. Ma non è finita qui, almeno io credo. Le differenze, all’interno della “sinistra”, si giocano proprio su questo punto. Segnalo, a tal proposito, un saggio di Robert Jensen, “Fahreneit 9/11 è uno stupido film bianco”. Jensen è professore di giornalismo all’università del Texas di Austin e autore di “Citizens of the Empire: The Struggle to Claim Our Humanity” [Cittadini dell’impero: la battaglia per affermare la nostra umanità] della City Lights Books. Il saggio è lunghissimo e lo trovate qui http://www.zmag.org/Italy/jensen-stupidofilm.htm.
    Qui sotto lo attacco in parte. ciao

    Ho difeso “Fahrenheit 9/11” di Michael Moore dalle critiche dei circoli istituzionali e conservatori secondo cui il film è propaganda di sinistra. Ciò non potrebbe essere più lontano dalla verità; c’è molta poca critica di sinistra nel film. In realtà, è difficile trovare nel film un qualsivoglia tipo di critica coerente.
    La triste realtà è che “Fahrenheit 9/11” è un brutto film, ma non per la ragione per cui viene attaccato dalla cultura dominante. In certi momenti è un film razzista. E l’analisi che sorregge i principali argomenti politici del film è sia pericolosamente incompleta, sia virtualmente incoerente.Ma, ben più importante, è un film conservatore che finisce con l’approvare una delle menzogne cruciali degli Stati Uniti, il che dovrebbe scaldare il cuore a quelle persone di destra che condannano Moore. E il vero problema è che molta gente di sinistra, liberale o progressista, sta tessendo le lodi del film, il che dovrebbe dirci qualcosa sulla natura impoverita della sinistra in questo paese…

    Sottile razzismo
    Come posso descrivere razzista un film che mette il luce la privazione del diritto di voto degli elettori neri, e che denuncia il modo in cui viene data la caccia ai giovani appartenenti alle minoranze a basso reddito per reclutarli nell’esercito? La mia affermazione non è che Moore sia apertamente razzista, ma che il film inconsciamente replica un razzismo più sottile, del tipo che tutti dovremmo combattere per resistere.
    Per prima cosa, c’è una sequenza in cui viene invocato il peggior tipo di detestabile sciovinismo americano, in cui Moore mette in ridicolo la “coalizione dei volonterosi” dell’amministrazione Bush, cioè le nazioni schierate per appoggiare l’invasione dell’Iraq. A parte l’Inghilterra, non c’è stato un sostegno militare significativo da parte di altre nazioni, e dunque non una vera coalizione, cosa che Moore ha ragione di far notare. Ma quando elenca i paesi della cosiddetta coalizione, usa immagini che hanno sfumature razziste. Per descrivere la Repubblica di Palau (una piccola isola del Pacifico), Moore sceglie un immagine stereotipata di una danza indigena, mentre la Costa Rica è rappresentata da un uomo su un carro trainato da animali. Sullo schermo appaiono immagini di scimmie che saltellano durante un discussione su una presunta offerta del Marocco di mandare scimmie a ripulire le mine terrestri. Per mettere in ridicolo la propaganda di Bush su questo argomento, Moore usa queste immagini e un esagerata voce fuori campo, ed essenzialmente il suo messaggio è: “Che razza di coalizione è, con dei paesi tanto arretrati?”. Moore potrebbe argomentare che non era questa la sua intenzione, ma non è solo questione di intenzione; siamo tutti responsabili di come incappiamo in questo tipo di stereotipi.
    Più sottile ed importante è il riferimento di Moore ad un razzismo in cui si prospetta una solidarietà tra gruppi dominanti bianchi e non, in patria, attraverso la demonizzazione del “nemico” straniero, che di questi tempi ha un volto arabo e sud asiatico. Per esempio, nella sequenza sull’infiltrazione di gruppi pacifisti da parte di tutori dell’ordine, la videocamera passa quasi esclusivamente sui volti bianchi (ho notato un uomo asiatico nella scena) del gruppo pacifista Fresno, e chiede come si possa immaginare che tra questa gente vi siano dei terroristi. Non c’è considerazione del fatto che gruppi Arabi o Musulmani che si dedicano ugualmente al pacifismo sono normalmente perseguitati e devono costantemente dimostrare di non essere terroristi, proprio perché non bianchi.
    L’altro esempio di repressione politica che viene offerto da “Fahrenheit 9/11” è la storia di Barry Reingold, che è stato ispezionato da agenti dell’FBI dopo aver fatto delle osservazioni critiche su Bush e sulla guerra, mentre si allenava in una palestra in Oakland. Reingold, un telefonista bianco in pensione, non è stato arrestato ne accusato di nessun crimine. Gli agenti l’hanno interrogato e poi l’hanno rilasciato. Questo è il simbolo della repressione? In un paese dove centinaia di arabi, sud asiatici e musulmani sono stati scaraventati in detenzione segreta dopo l’11 Settembre, questo è l’esempio che Moore sceglie di mettere in evidenza? Il solo riferimento nel film a quegli arresti del dopo 11 Settembre è un’intervista ad un ex agente dell’FBI a proposito di alcuni sauditi a cui era stato permesso di lasciare gli Stati Uniti subito dopo l’11 Settembre, e sembra che Moore faccia menzione di questi arresti solo per evidenziare il contrasto con il trattamento privilegiato presumibilmente riservato ai cittadini sauditi.
    Quando ho fatto questa osservazione ad un amico, lui ha difeso Moore dicendo che l’intenzione era quella di raggiungere un pubblico ampio, che probabilmente è in gran parte bianco, e che probabilmente voleva usare esempi che questa gente potesse aver presenti. Dunque, è accettabile assecondare un’audience bianca e drammatizzare esageratamente i suoi rischi limitati, ignorando i danni realmente gravi perpetrati sui non bianchi? Un regista di talento non avrebbe potuto raccontare storie di gravi persecuzioni, in modo che anche non arabi, non sud asiatici, non musulmani, potessero provare empatia?…

    Un film conservatore
    L’affermazione secondo cui “Fahrenheit 9/11” è un film conservatore potrebbe suonare in qualche modo ridicola. Ma il film approva una delle bugie cruciali che gli Americani si raccontano, cioè che l’esercito statunitense combatte per la nostra libertà. Questa rappresentazione dell’esercito come forza difensiva nasconde la dura realtà secondo cui l’esercito è usato per proiettare il potere statunitense in tutto in mondo e per assicurargli il dominio, non per difendere la libertà di chicchessia, in patria o all’estero.
    Invece di affrontare questa favola, Moore la usa nel finale del film. Sottolinea, accuratamente, l’ironia del fatto che chi beneficia in minima parte del sistema statunitense – i poveri cronici e chi appartiene alle minoranze – è la stessa gente che si arruola nell’esercito. “Si offrono di dare la loro vita per la nostra libertà” dice Moore, e tutto ciò che chiedono in cambio è di non essere messi in pericolo a meno che non sia necessario. Dopo la guerra in Iraq, si domanda, “avranno ancora fiducia in noi?”.
    E’ indubbiamente vero che molti che si arruolano nell’esercito credono che andranno a combattere per la libertà. Ma dobbiamo distinguere tra la mitologia che molti interiorizzano e a cui possono credere sinceramente, dalla realtà del ruolo dell’esercito statunitense. Il film include alcuni commenti di soldati che mettono in dubbio questa stessa affermazione, ma la narrazione di Moore implica che in qualche modo una gloriosa tradizione di impegno profuso dall’esercito statunitense nel proteggere la libertà, è stata ora infangata dalla guerra in Iraq.
    Il problema non è solo che la guerra in Iraq è stata fondamentalmente illegale ed immorale. L’intero corrotto progetto di costruzione di un impero è stato illegale ed immorale – ed è stato un progetto tanto dei Democratici che dei Repubblicani. I milioni di morti in tutto il mondo – in America Latina, in Africa, nel Medio Oriente, nel sud est asiatico – come conseguenza delle azioni dell’esercito statunitense e delle guerre per delega, non si curano di quale partito statunitense stava muovendo le pedine e premendo il grilletto quando sono stati ammazzati. E’ vero che gran parte del mondo odia Bush. E’ anche vero che gran parte del mondo odia tutti i presidenti statunitensi dopo la seconda guerra mondiale. E per buone ragioni.
    Una cosa è esprimere solidarietà per la gente obbligata dalle condizioni economiche ad arruolarsi. Un’altra è assecondare le bugie che questo paese dice a se stesso sull’esercito. A dire il vero, non si tratta di irriverenza nei confronti di chi si arruola. Si tratta del nostro obbligo di cercare di prevenire guerre future in cui la gente sia mandata a morire non per la libertà, ma per il potere e per il profitto. E’ difficile capire come possiamo farlo ripetendo le bugie della gente che pianifica queste guerre e ne trae beneficio…….

    Strategia politica
    La difesa più comune che ho sentito dai liberali e dai progressisti a questo tipo di critiche a “Fahrenheit 9/11” è che, qualunque siano i suoi difetti, il film sprona la gente all’azione politica. Una riposta è ovvia: non c’è ragione per cui un film non possa spronare all’azione politica pur contenendo analisi intelligenti e difendibili e senza essere sottilmente razzista.
    Ma a parte questo, non è completamente chiaro se l’azione politica che questo film sprona vada molto al di là del votare contro Bush. Sul sito di Moore, il link “cosa posso fare?” suggerisce quattro azioni, tutte e quattro che mirano a capovolgere l’esito del voto. Queste risorse sul voto sono ben organizzate e utili. Ma non ci sono link ad organizzazioni di base che sono contro non solo il regime di Bush, ma anche contro l’impero americano più in generale.
    Concordo con il fatto che Bush dovrebbe essere cacciato dalla Casa Bianca, e se vivessi in uno stato strategico per l’esito del voto, considererei l’idea di votare democratico. Ma non credo che abbia senso a meno non nasca negli Stati Uniti un significativo movimento contro l’impero. In altre parole, anche se sconfiggiamo Bush e torniamo alla “normalità”, siamo ancora nei guai. Normalità è la costruzione di un impero. Normalità è la dominazione statunitense, economica e militare, e la sofferenza che i popoli deboli in tutto il mondo patiranno di conseguenza. Questo non significa che gli elettori non possano giudicare un particolare uomo politico dedito alla costruzione di un impero più pericoloso di un altro. Non significa che qualche volta non dobbiamo fare delle scelte strategiche che ci portino a votare per qualcuno contro qualcun’altro. Significa semplicemente che dovremmo fare tali scelte con gli occhi aperti e senza illusioni. Questo appare particolarmente importante quando il probabile candidato presidenziale Democratico cerca di essere ancora più falco di Bush nell’appoggiare Israele, si impegna a continuare l’occupazione dell’Iraq, e non dice nulla sul rovesciare l’andamento generale della politica estera.
    Ad avere questa impressione, non sono il solo. Ironicamente, Barry Reingold – l’uomo dell’Oakland perquisito dall’FBI – è critico verso ciò che vede come messaggio principale del film. Come riportato dal San Francisco Chronicle, dice: “Penso che il proposito di Micheal Moore sia sbarazzarsi di Bush, ma io penso che si tratti di qualcosa di più di Bush. Penso che si tratti del sistema capitalista, che è iniquo.” Ha continuato criticando Bush e Kerry: “Penso che siano entrambi pessimi. Io penso che in realtà Kerry è peggio perché dà l’illusione che farà molto di più. Bush non ha mai dato quell’illusione. La gente sa che è un amico dei grandi imprenditori.”
    Nulla di ciò che ho detto in questo articolo è un argomento contro il proposito di raggiungere un pubblico più ampio e di cercare di politicizzare più gente. Questo è proprio ciò che provo a fare con il mio lavoro che consiste nello scrivere e nell’organizzarmi localmente, come fanno un gran numero di altri attivisti. La questione non è se raggiungere un pubblico ampio, ma con che tipo di analisi e di argomenti. Il suscitare emozioni e l’umorismo hanno il loro posto; gli attivisti con cui lavoro li usano. La questione è, queste emozioni suscitate, dove portano la gente?
    E’ ovvio che “Fahrenheit 9/11” sfrutta molte paure e/o rabbie degli americani nei confronti di Bush e della sua banda di delinquenti. Questi sentimenti sono comprensibili, e li condivido. Ma i sentimenti non sono analisi, e l’analisi del film sfortunatamente non va molto oltre la sensazione che si esprime nel “è tutta colpa di Bush”. Questo può piacere alla gente, ma è sbagliato. Ed è difficile immaginare come un movimento contro l’impero in grado di raggiungere degli obiettivi possa essere costruito sulla base dell’analisi di questo film, a meno che non la si contesti. Da qui la ragione di questo mio saggio.
    Il potenziale valore del film di Moore sarebbe realizzato solo qualora il film venisse discusso e criticato onestamente. E’ vero, il film è sotto attacco da parte della destra, per motivi molto diversi da quelli che ho sollevato. Ma quegli attacchi non dovrebbero fermare chi si considera di sinistra, progressista, liberale, contro la guerra, contro l’impero, o chi semplicemente ne ha le scatole piene, dal criticare i difetti e i limiti del film. Io credo che la mia critica del film sia accurata e rilevante. Altri possono essere in disaccordo. Il dibattito dovrebbe essere incentrato sulle tematiche sollevate, con un occhio verso la questione della costruzione di un movimento contro l’impero. Stringersi attorno al film potrebbe portare troppo facilmente a stringersi intorno ad una brutta analisi. Stringiamoci invece intorno alla battaglia per un mondo migliore, la battaglia per smantellare l’impero americano.

  5. Ne parliamo forse un po’ in ritardo, ma va bene lo stesso. Ho visto Fahrenheit 9/11 una volta e mezzo. La prima volta a metà agosto mi sono quasi addormentato, ho riprovato due settimane dopo quando il film era uscito in Italia e il dibattito infervorava.
    A parte il mio primo episodio letargico il film anche in seconda battuta non mi è piaciuto. E concordo con Luca Sofri (del quale anch’io non ho mai letto niente) che Moore ha un problema di stile. Ora non so con precisione come la intendesse lui (so solo quanto dice Andrea Inglese), ma io mi sono “sorbito” Stupid white man, ho visto Bowling for Colombine e ho avuto delle reazioni di insofferenza, nei confronti di Moore a volte e molto di più nei confronti della sua recezione.
    Per quanto riguarda lo stile, non mi dispiace che alcune cose vadano dette con forza e alle volte con “maleducazione”, ma devono avere un loro peso politico; a me la sua teoria del bianco terrorizzato dagli abitanti di colore ed influenzato dai media suona abbastanza superficiale, la polemica continua sul falso elettorale non la reggo più e le teorie delle lobbies invisibili che governano il mondo non m’interessa proprio.
    Tematicamente condivido molto di ciò che il professor Robert Jensen scrive nel suo articolo.
    Per quanto riguarda il pubblico, devo dire che Moore potrà fare bene agli americani in America, ma rende un pessimo servizio alle sinistre europee. In Germania ad esempio si è sviluppato un diffuso e becero antiamericanismo, che l’estrema destra ha raccolto a braccia aperte (più o meno sul tono:quelle merde di gringos che hanno sconfitto i nostri papà nazi). E l’antiamericanismo in Italia ha indirizzato addirittura a manifestazioni di pseudoappoggio alla resistenza (o al terrorismo?) in Iraq, con i risultati tristissimi della situazione odierna.
    Moore va difeso dalle accuse della destra, a mio avviso, con decisione, ma da sinistra lo si può massacrare di critiche, anche perché da quando i guru, i capi spirituali e i dogmi sono una cosa di sinistra?

    P.S. Rispetto alla maleducazione e all’alzare la voce mi viene in mente una scena molto bella de “I 100 passi” che invita a fare il contrario: dopo che Peppino ha occupato la radio, un fricchettone lo aspetta davanti al portone per dirgli che chi urla fa capire agli altri che sta male.

    P.S (2). Ciao Gianni, tu mi saluti da una parte e io ti rispondo dall’altra…

  6. Grazie infinite a Gina. Jensen pone l’accento sul nodo centrale. Io ho l’impressione che Moore sia un guitto di notevole talento che serve alla “sinistra” USA per vincere le elezioni. Semplice e chiaro. E’ un propagansista anti-Bush. Quindi pro-Kerry, non si scappa. Anche perchè non pone alternative. Non propone “terze vie”.
    Ora, Kerry è un losco figuro. D’altra parte anche il tanto amato (dalle famiglie e dai bravi sindaci italiani) J.F.K. era l’antitesi del santo. Non basta chiamarsi democratici per essere democratici. Kerry è legato ancor più a filo doppio di Bush & Compagni con Israele, e a meno che Sharon non chiuda il suo mandato, ne vedremo ancora della belle. E’ tutt’altro che un pacifista. Fossi americano lo voterei per liberarmi di Bush, ma, come dice Jensen, senza illusioni. Ma astenersi, la in USA ancor più che qui da noi, sarebbe ugualmente un delitto.
    Vins, ariciao! I guru sono di sinistra per antonomasia.

  7. non riesco davvero a capire come si possa definire il film di Moore della “propaganda”. E non sei il solo Franz, a sostenere questa idea. Stiamo davvero perdendo un lessico comune.

  8. Caro Andrea, c’è propaganda e propaganda. Il sistema di liberismo selvaggio fa propaganda anche senza una volontà strenuamente propagandistica che “miri” sull’obiettivo. Qual’è l’obiettivo? Far soldi. E Moore è ANCHE una macchina da soldi. Non c’è niente da fare, non se ne esce. Io apprezzo e ammiro gli idealisti; lo sono anch’io, ma allo stesso tempo mi rendo conto, con ragionevole freddezza, che il sistema (avvolgente) è quello della “vendita”. Personalmente, poi, non ho nulla contro la vendita. Nel senso che un’opera dell’ingegno ha tutto il diritto di essere venduta. Ha un valore aggiunto anche in termini di vile pecunia, si. Cioè, Moore ha anche il diritto di far soldi. Nel sistema, dunque, ci sta per forza di cose che – se il “prodotto” come si dice tira – esso diventa automaticamente strumento di propaganda. E la parte avversa a Bush, nel caso specifico, non fa certo nulla per non avvalersi di questo aiuto.

  9. Andrea, il tuo pezzo è splendido, una boccata d’aria dopo la strozza che m’è venuta a sentire da sinistra – dalla mia parte – tutti questi giudizi snobistici (e in verità, mi pare, più che altro risentiti) sul film di Moore.
    Ho letto ciò che scrive Jensen. Non so se sia più irritante o più sconfortante. Arrivato in fondo, il primo pensiero è stato “Speriamo che questa generazione di intellettuali radical scompaia in fretta e liberi il posto a qualcosa di meglio, di più fresco e meno cadaverico”. Tutto il pezzo gronda di una political correctness da far letteralmente cadere le palle. L’accusa di sottile razzismo, oltre che determinata dal tic politicamente corretto, mi pare penosamente pretestuosa. E poi, in nome di dio, dove mai il film “sfortunatamente non va molto oltre la sensazione che si esprime nel ‘è tutta colpa di Bush’”? Sono io che ho le traveggole? Quando mostra tutti quegli zombie capitalisti intenti a spartirsi il flusso di petrolio e capitali tra una tartina di paté di marines e un calicino di iraqiblood non fa proprio il contrario? E le parole dette verso la fine, sulla guerra come strumento di conservazione del potere e sulla necessità di una presa di coscienza da parte della carne da macello che di tale sistema è strumento e vittima, scusate, quelle le ho sentite solo io? Ho dei deliri mistici in cui odo la voce di Carletto Marx, o nel film vengono dette davvero?
    Allora le mie impressioni, avendo letto Jensen, Cacciari, Rossanda e sentito una vagonata di amici e bloggers tutti rigorosamente di sinistra, tutti rigorosamente entusiasti del (meno bello) “Bowling a Columbine” e ora tutti rigorosamente ipercritici su “Fahrenheit”, sono queste:
    (1) Moore dà fastidio perché arriva dall’America ed è tutto dentro la logica yankee. Sarebbero disposti a perdonarlo solo se cadesse in ginocchio e dicesse “Sì, noi America siamo una merda totale”. Non lo fa, giustamente (ci mancherebbe: perché dovrebbe farlo?), anzi, dice “Noi America siamo un grande paese” (ha ragione – l’America è un grande paese: nel bene e nel male). Imperdonabile.
    (2) Siamo di fronte a una sinistra svizzera travestita da sinistra radicale. Sì, perché, non diversamente dai moderati apertamente elvetizzati, ama soprattutto il bon ton. Chi alza troppo la voce e bypassa ogni regola galateale è brutto e cattivo. In quest’ottica qual è, coerentemente, il massimo obbrobrio? La mancanza di stile!
    (3) Moore dà fastidio perché arriva da fuori, brutto e cattivo, e mette il muso in un’area riservata. Proprietà privata, divieto d’accesso ai non autorizzati! Siamo noi gli unici sacerdoti depositari della critica radicale al sistema! Come si permette quel tamarro senza background deleuziano di fare un documentario di denuncia, perdipiù riuscendo ad arrivare a milioni di spettatori che “non andranno tanto più il là, casomai, del votare Kerry” (almen la fuss vera, direbbe mia madre)? Ci ruba il lavoro! E lo fa con la scure! Calpesta i nostri ceselli professionali!
    (4) Moore dà fastidio perché è il tipico americano grasso, non mette in discussione apertamente il sistema, eppure ci ha scavalcato a sinistra. Ora, per un semplice ragionamento geometrico euclideo, se un moderato mi scavalca a sinistra, anche se mi credevo più a sinistra di lui devo ammettere che sono scivolato più a destra. Siccome la cosa brucia, allora si va di bizantinismi e sofismi autoprotettivi, per convincersi ai propri occhi che non è vero.
    (5) Moore crea ansia da prestazione: “Ah, io ‘ste cose le sapevo già”, “niente di nuovo”, “cose che si sanno”… Guai a far anche solo balenare il sospetto che non la si sappia (più) lunga. Ma non è vero! Anche se mi leggo tutto l’archivio di Zmag e tutto il parco libri di NuoviMondiMedia, per esempio, io non li avrei visti/sentiti in faccia/voce, ‘sti marines decerebrati che vanno di napalm per la gloria della civilisation! Non l’avrei mai visto, lo spot sull’arruolamento “nazist-videogame style”!
    Mai mostrare di essere stupiti, sconvolti: fa più figo dire “che noia, mi sono addormentato”. Anche nella scena in cui la poveretta irachena scoppiava in un pianto disperato (a mio avviso una delle scene più dolorose di tutto il film)?
    (6) La sinistra è passata dal realismo socialista al suo opposto speculare: l’orfismo radicale privé. Una volta si attaccavano gli intellettuali troppo ermetici, non-pedagogici, che si sottraevano al dovere della massima comprensibilità e fruibilità. Adesso si attaccano se sono capaci di raggiungere un ampio pubblico (no, dice Jensen, bisogna fare come me, che mi faccio leggere da cinque persone ma preservo la mia purezza rivoluzionaria), si dice con tono sprezzante “Che ovvove, il film di Muuv è pvpvio solo un pvodotto mainstream”. Cos’è quest’atteggiamento? Di sinistra?
    (7) “Kerry è come Bush o addirittura peggio”. Quante volte negli ultimi mesi ho sentito questa frase (oltretutto la stessa cosa girava ai tempi di Gore/Bush)? Kerry è un losco miliardario capitalista, sono d’accordo. Non mi faccio illusioni (non ho mai creduto al mito ipocrita di un imperialismo dialogante, “clintoniano” e buono, in contrapposizione all’imperialismo militarista “bushiano” e cattivo – lo specifico qui a scanso d’equivoci). Ma siccome non ha ancora avuto la possibilità di fare quello che sta facendo Bush, diamogli almeno il beneficio del dubbio. Gore si sarebbe comportato nella stessa maniera dell’attuale amministrazione americana? Avrebbe attaccato l’Iraq? Chi può dirlo con certezza?
    A margine, mi chiedo come reagirebbe un iracheno che avesse perso famiglia e gambe sotto le bombe di Bush, se una di queste anime belle andasse a dirgli (magari con lo stesso tono compreso e ispirato con cui è stato detto a me, una sera di happy hour lungo i navigli felici): “Guarda che comunque Bush e Kerry pari sono”. Mi chiedo come reagirebbe chiunque di noi in quella situazione. Annuiremmo costernati o preferiremmo tutto sommato le bombe aleatorie a quelle reali?

    P.S. per Vins Gallo: sì, ma alla fine quello che è stato ammazzato era Peppino, non il fricchettone.

  10. caro sergio mi dispiace solo che il tuo pezzo sia poco in vista, nei commenti, perché mi sembra che integri ed amplifichi molto bene quanto io ho provato a dire. Ma è importante riaffermarle queste cose. Benché a volte ci sembrino ovvie, non lo sono. E lo dimostrano tante idee confuse. E tale confusione fà danno. Anche in Francia, hanno messo in piedi la stessa storia. E l’altra sera mi battevo vanamente con uno definiva il film di Moore un lavoro di propaganda. La conclusione di Andrea Raos: “non sapeva il significato del termine propaganda”. Mi spiace Franz, ma bisogna ricominciare dai glossari. Poi discutiamo.

  11. Vorrei fare alcune brevi riflessioni sui commenti precedenti, avvalendomi anch’io di una scaletta.
    1) rispetto al “lessico comune” cito De Mauro che alla voce propaganda scrive: attività volta alla diffusione di concetti, teorie o posizioni ideologiche, politiche, religiose e sim., al fine di condizionare o influenzare il comportamento e la psicologia collettiva di un vasto pubblico: esempio, p. contro l’energia nucleare.
    Moore non gira documentari e non c’è niente di male, anzi tanto di cappello, fa film di propaganda (in certi tratti anche molto brillanti), perché “diffondono una posizione ideologica”.
    2) Di quanto grasso è Moore, non me importa granché, ma non credo che la filosofia dei suoi film sia il manifesto dell’America vista come un grande paese (mentre concordo con Sergio che lo sia), in “Bowling FOR Colombine” anzi a mio giudizio c’è la descrizione dell’americano bianco mediamente coglione che ha paura delle persone di colore per colpa della televisione. Moore è un “antiamericano” e non penso sia la mia sola interpretazione, se no non si capisce perché anche all’ESTREMA destra (di tradizione antiamerica) piaccia così tanto Moore.
    3) Rispetto all’eventuale politica di Kerry, vorrei soltanto ricordare quanto la “pseudo-sinistra” europea ha fatto rispetto al pacifismo: vedi Kosovo, ma anche Iraq. Mo’ siamo seri, l’Ulivo voleva fare le marce per la pace, ma in parlamento non ha mosso nessuna opposizione alla guerra.
    E in GB chi governa? E in Germania? Qual è la sinistra elvetica, radicalchic? Dov’è il confine fra questo tipo di sinistra e quella più radicale?
    Se vogliamo dire di “essere di sinistra” alla buona, beh, allora becchiamoci Moore, Gore, Kerry e compagnia bella, ma il senso della sinistra è a mio avviso un altro, è la contestazione radicale all’oppressione, secondo principi di razionalità (v. l’illuminismo: tutto l’opposto dell’orfismo) e non il gridare allo scandalo starnazzando. La protesta dura, decisa, maleducata, “emancipata” è una delle basi della sinistra, ma a protestare PRO Kerry io non me la sento. La maleducazione la riservo per altre cose dove mi è “politicamente” molto più utile.
    Ad esempio me la sento di essere maleducato con tutti coloro che sono contro la guerra, per il ritiro delle truppe e compagnia bella, ma quando arrivano i profughi sui barconi, allora è un altro discorso, quello interessa di meno, anche se casomai fuggono da guerre provocate dalle “pseudosinistre”… Contro quelli che erano favorevoli alla guerra quasi non vale: sono già contro a priori!

  12. E’ una bella discussione, ho detto a sergio che aspettavo il suo commento, e non mi ha deluso:).
    Non sto a ripetere che il film mi è piaciuto, soprattutto perchè è efficace. E spingo quanta più gente possibile ad andare a vederlo. Segnalando il pezzo di Jensen, ho inteso semplicemente ampliare il discorso, cioè contestualizzare fahrenheit all’interno di una realtà, quella dell’ABB, dell’anyone but bush, che a mio avviso NON DEVE essere ridotta, cioè girare attorno a un film. Gli attivisti americani stanno facendo un gran lavoro. Tutti. E tutti insieme hanno reso possibile la più grande manifestazione che si sia mai svolta negli Stati Uniti contro un presidente in carica, quella di NY in occasione della convention repubblicana. Moore era in prima fila, dietro c’erano quattrocentomila persone. E tutte in seconda fila. E’ un lavoro che dura da anni, iniziato prima di moore, e che andrà avanti, si spera, anche dopo moore, se per caso dovessero venirgli mattane alla wesley clark. Ci sono dentro soros, quelli di moove on, i biciclisti della critical mass arrestati in massa, femministe,queer gay lesbiche minoranze, corpi anarchici e democratici, reverendi e tette contro bush, snob politically correct come jensen disoccupati giocolieri veterani e mamme di figli morti in guerra. Americani. Gente semplice e gente complicata. Grassi e magri: POPOLO. All’interno di questo contesto, che si è sviluppato enormenente grazie al web e al milione e mezzo di poveri che l’america di bush si ritrova in più rispetto all’anno scorso è fondamentale che kerry, vertiginoso beneficiario di cotanta manna, sappia bene che ok la strategia, ma che dopo toccherà a lui. Ed è bene che tutto ciò lo sappia anche la sinistra europea. Concludo con le parole di mooore, che dopo aver annunciato di non concorrere all’oscar con la speranza di passare in tv prima delle elezioni ha ringraziato tutti per il sostegno, invitando tutti questi tutti ad andare a vedere Super Size Me, Control Room, The Corporation, Orwell Rolls Over in His Grave, Bush’s Brain, i film di Robert Greenwald e l’imminente Yes Men.
    Ed io ci aggiungo anche Hijacking Catastrophe, che contiene tra gli altri anche l’intervento di Jensen e Chomsky:))

  13. Serhio ci è andato giù duro e ha fatto bene. Il suo intervento da sinistra mi ha fatto capire ancor meglio di prima che la stessa non è certamente un’entità (come la vedono a volte da destra)e che di sinistre ce ne sono tante e spesso in aspra contraddizione tra loro; e che la maggior parte dei commentatori di sinistra ha le idee confuse. Però, Andrea, io ho fatto un ragionamento se vuoi cinico, magari scontato, pero’ onesto. Tutto ciò non inficia il lavoro di Moore, ma alla fine quale sarà il risultato? E’ vero, come dice Sergio: aspettiamo a fare bilanci su un possibile presidente (Kerry) prima che sia stato eletto. Ma una mezza idea possiamo già averla. Soprattutto perchè nel suo programma elettorale non è prevista alcuna flessione circa l’intervento in Iraq.
    I radical chic li detesto da sempre. I contestatori con la erre moscia. I compagni in Rolls Royce. Dunque io vi sono vicino (Andrea, Sergio) più di quanto possiate immaginare. Che quella di Moore sia propaganda è talmente chiaro, però, che negarlo mi sembra fare un cattivo servizio alla comprensione. Non per cattiva volontà (Andrea, anche se a distanza ti stimo molto anche se politicamente sono lontanissimo)ma per eccessiva fiducia in Moore e in quelli come lui. Che rimane uno scrittore satirico per immagini. Di successo. Di consenso. E sul consenso i politici basano la loro sopravvivenza. Sui glossari, infine, ha già risposto Vins Gallico. C’è propaganda e propaganda, si: perchè Moore non è dell’Istituto Luce o della UFA (grazie a Dio), ma difende (attaccando) una posizione ideologica. Dimostratemi il contrario e offro una birra a tutti.

  14. Io Moore non l’ho ancora visto. Ma ho la sensazione che gli si rimproveri proprio il successo. Cioè la capacità di veicolare la sua propaganda a più persone possibili.
    E’ propaganda? Sì.
    E’ di successo? Sì.
    E allora?
    Se solo il 10 % di quello che dice passasse sui nostri programmi televisivi avremmo un’opinione pubblica ben diversa.
    Io me ne sbatto di quei compagni che sanno già tutto, che la sanno lunga, che parlano dai loro casolari in pietra immersi nei loro campi di ulivi nel Chiantishire, accoccolati nei loro cashemire.
    Io sto immezzo alla gente, alle persone, ai muratori, alle sciure, ai salumieri, in metropolitana, sull’autobus. One ma one vote. Ve lo ricordate? Beh, ve lo voglio ricordare ancora: ci sono più sciure o salumieri o muratori, di radical chic in Italia. Anche solo per questo Moore è importante.
    Che poi si debba e possa aumentare la qualità della critica (non so, parlo per dire, ripeto che non l’ho visto) bene, sono contento. Ma non buttiamo insieme all’acqua sporca anche il bambino.

  15. Esatto. E’ un propagandista che dice cose importanti soprattutto in questo momento. Lo fa con il grimaldello della satira, ma va proprio oltre. Io non sono un compagno ma anch’io sto in mezzo alla gente, ecc.
    E conosco i glossari. Dunque, Andrea I. & Raos, niente “poi discutiamo”. Perchè è già da un pezzo che discutiamo; ma ciò che importa è: se Moore è un propaganista o no, oppure se Moore apre – a modo suo, certo- squarci importanti di verità?

  16. ringrazio inglese di avermi tirato in ballo, perché l’argomento mi preme, molto. si puo’ distinguere fra propaganda e retorica? per me quello di moore è un film retorico (nel senso più neutro e più semplice del termine: è un discorso strutturato – “voglio andare da a a b e vi spiego come” – al fine di convincere l’auditorio); nel termine “propaganda” io percepisco invece un’eco di coercizione, o di malafede, che non ho trovato in moore. riconosco che la frontiera puo’ essere labile – soprattutto se si vuole che lo sia. ripeto che quest’eco la sento io: sono in leggero disaccordo con inglese sul fidarsi sempre dei dizionarî (ma è il punto meno importante).
    è propaganda “il caso mattei”? o – qui provoco un po’ – “alexander nievski”?
    l’immagine ha un potere coercitivo molto più forte della parola. al potere dell’immagine, moore al tempo stesso resiste e cede. il non nascondere questa attrazione-repulsione – che non è di moore, ma di tutti noi – è un segno di grande sincerità del film, di grande pedagogia, direbbe inglese.
    vorrei anche rassicurare sergio baratto: la formidabile tirata neomarxista del finale – frasi dall’oltrespazio, letteralmente – non l’ha sentita solo lui.
    *
    quindi i discorsi sono due: uno strettamente politico – bush e l’irak – e uno formale, sui limiti dell’immagine filmica e sulla nostra percezione della stessa. che moore renda cio’ comprensibile anche a me e a tutti i casalinghi – i tempi cambiano… – di voghera come me, non mi sembra poco.

  17. Certo che Alexander Nevskij è propaganda. Il caso Mattei è un’indagine su di un citadino NON al di sopra di ogni sospetto (sempre citando un altro grande regista italiano, cioè Elio Petri). Tutti e due sono film di fiction che si basano su fatti reali. Il primo caso: un film di chiara e netta propaganda staliniana. Il secondo: un caso di propaganda occulta. Che Rosi fosse attaccato mani e piedi al PCI è cosa nota. Il secondo caso, a mio parere, puo’ somigliare in questo a Fahrenheit 9/11. Ora ci si potrebbe chiedere? Qual’è la linea di demarcazione che separa un film di fiction basata su fatti reali e un documentario innovativo come quello di Moore? Io una risposta al momento non ce l’ho.

  18. con la menata dei dizionari me la sono cercata… Vins e Franz… avete ragione voi, il lessico dice cosi’, benissimo. Io pero’ voglio allora difendere un lessico di minoranza (o semplicemente complicare quello esistente).
    La definizione di “propaganda” come messaggio atto a persuadere un vasto pubblico, è troppo generica per esserci utile in un discorso del genere. Quella definizione non tiene conto di cose che ci interessano molto.

    A parità di messaggi con intenti persuasivi: alcuni di essi sono prodotti da gruppi di potere che controllano(direttamente o indirettamente) anche la maggioranza dei media esistenti; altri, sono prodotti da gruppi sprovvisti di un potere eguale o soltanto simile. A parità di messaggi persuasivi: alcuni spingono la gente persuasa ad andare contro i propri interessi; altri spingono la gente a focalizzare i propri interessi.

    Non mi dilungo. Solo un brano di Simon Weil, che nel 1943, rifugiata a Londra, si pone il problema di come sia possibile “ispirare” un popolo. Infondergli coraggio e forza, motivi per agire bene, ecc. (Il popolo in questione è quello francese, oppresso dall’invasore nazista.) La Weil si chiede se la propaganda c’entra con l’ispirazione di un popolo. Risposta:

    “Ai nostri giorni, si è studiato e penetrato il probelma della propaganda. Hitler specialmente a fornito a riguardo un contributo durevole al patrimonio del pensiero umano. Ma è un problema di tutt’altro tipo. La propaganda non ha come obettivo di suscitare un’ispirazione. ; ella chiude, condanna tutti gli orifizi attraverso i quali un’ispirazione potrebbe passare; essa gonfia l’anima interamente di fanatismo.”

    Ecco una riposta. Moore fa propaganda? Si, a patto che si dica che esiste una propaganda che “occlude”, riduce il campo di visuale, l’estensione della propria consapevolezza. Ed esiste una propaganda che libera, apre i pori, aiuta a comprendere di più se stessi e il mondo. Allora se le cose stanno cosi, inutile avvicinare con una stessa parola due pratiche che hanno conseguenze etiche, politiche, conoscitive opposte. Andiamo subito nel conflitto. Prendiamo parte, e posizione.

  19. accidenti, ho maschilizzato la Weil (“Simon”) gli strali antifallocentrici si abbatteranno su di me…

  20. Nota a margine: Andrea, se ti può “consolare” su De Mauro c’è una seconda definizione del termine propaganda: estens., insieme di idee e informazioni poco attendibili o distorte, diffuse di proposito per fini particolari: es. l’hanno rovinato con una cattiva p., non è altro che subdola p.!

    P.S. Ho riletto gli interventi, mi sono reso conto di aver parlato della ricezione di Moore con poca accuratezza. Moore (da antiamericano) fa bene alla sinistra americana, è al pubblico europeo che a mio avviso fa male… (e non per questioni di mainstream, ma sulla questione della diffusione ne parleremo probabilmente sul topic di sergio “sull’orfismo” che è apparso in testa)

  21. “Ed esiste una propaganda che libera, apre i pori, aiuta a comprendere di più se stessi e il mondo. Allora se le cose stanno cosi, inutile avvicinare con una stessa parola due pratiche che hanno conseguenze etiche, politiche, conoscitive opposte. Andiamo subito nel conflitto. Prendiamo parte, e posizione.”
    (A.I.)
    Io con parole più semplici avevo detto la stessa cosa. E avevo anche aggiunto che, di riflesso, una certa parte del mondo politico USA di questa propaganda che “libera e apre i pori” avrebbe ricevuto un grande beneficio. A scopi elettorali. O di riffa o di raffa, insomma, la battaglia all’ultimo sangue non è tra propaganda buona e propaganda cattiva, ma tra Mr. Bush e Mr. Kerry. Le cose stanno così. Non ci sono santi e tantomeno madonne.

  22. le due sinistre.
    il tio articolo mi è piaciuto molto. voglio solo dare qui una pista di approfondimento sul tema delle due sinistre.
    luca sofri parla di due sinistre, ma non è il solo. è un pensiero che sta facendo strada e trova nei sofri, padre e figlio, nei radicali e in giornali come il riformista i suoi promulgatori. questa “nuova” sinistra disprezza il cosidetto movimento pacifista, è perbenista e borghese, amica degli americani, di fatto propensa a un capitalismo prchè trovino posto regole che ne smorzino gli effetti più inaccettabili. e sulle leggi “sulle regole” riferite ai media o alla riforma della costituzione è una sinistra che ascolta di più giuliano ferrara di…giovanni sartori! mi spiace che nel tuo articolo tu non abbia approfondito questo argomento perchè io ritengo che questa supposta sinistra sia di fatto più influente sulle scelte dell’alternativa di centrosinistra che propone prodi come candidato. verdi, pdci, Rc cercano un accordo con una sinistra che di fatto vorrebbe mettere a tacere le istanze del social forum che quei partiti cercano di rappresentare. è un tema complesso che merita approfondimento, non ti pare?
    lorenzo

  23. Delle due l’una; Galbiati: o scegliere le istanze del social forum e perdere un sacco di voti a sinistra, o cacciare il Cantante Confidenziale dal Palazzo.
    P.s.: sono ancora qui, con tantissimi altri, che “ringraziosentitamente” l’On. Bertinotti per il suo non allineamento, che – numeri alla mano, non parole – ha portato il Cantante Confidenziale a Palazzo Chigi…

  24. “Delle due l’una; Galbiati: o scegliere le istanze del social forum e perdere un sacco di voti a sinistra, o cacciare il Cantante Confidenziale dal Palazzo.”
    no,io non vedo questo bivio. il social forum è un movimento mondiale ke rappresenta la nuova sinistra. il fatto ke i suoi temi trovino poco spazio nelle sinistre parlamentari spiega piuttosto bene il motivo per il quale le sinistre europee non hanno più una visione del mondo da proporre.(in america i democratici hanno rinunciato a proporre candidati di “sinistra”, e si accontentano di essere moderati, dato che dall’altra parte ci sono integralisti “rinati in cristo”; se si guarda con la lente però si vede che esiste il green party, l’unica vera alternativa).
    se vuoi puoi chiamarmi massimalista, ma sei sicuro che berlusconi, fini, bossi siano dei moderati? persone di centro? o sono piuttosto degli estremisti?
    io sostengo che con berlusconi l’asse della politica italiana si è spostato di molto verso destra. i motivi? almeno due: la confusione in cui è piombata la sinistra dopo il 1989 e l’abilità come leader del berlusca (di certo supportata dal suo impero mediatico).berlusconi è un estremista che ha saputo creare consenso. Un vero leader crea, plasma consenso, non va a cercarlo, come fece d’alema, che voleva unire tutti, pure la lega, in una coalizione da opporre al Berlusca.
    berlusconi è un vero leader: ha sdoganato fini, ha saputo attrarre bossi e i cristiani conservatori, ha creato consenso su delle posizioni politiche non solo di destra, ma addirittura antidemocratiche e quasi eversive.
    Le idee del social forum su pace, agricoltura biologica e lotta agli OGM, ecotasse, ecc. sono molto più moderate. Manca una sinistra con gli attributi. Mancano persone coraggiose e oneste. E manca un leader.

  25. Sono d’accordo con tutto quello che scrivi, Galbiati. Sia sulla sinistra “moderata” che su Berlusconi, Bossi e Fini che sono, ciascuno a suo modo, degli estremisti. Tutto giusto. Ora vorrei sapere da te, se possibile, insomma se ne hai voglia, perchè non riesce a venir fuori un leader credibile, onesto e coraggioso dalle istanze del social forum. Qual’è il problema? Forse il controllo dei media e del potere politico da parte di una destra estremista e di una sinistra ufficiale che si accontenta di chiamarsi tale ma che poi scende a patti, che si “riforma” a parole, che in molte cose assomiglia alla destra?
    E Moore da che parte sta? Dalla parte di queste idee nuove, senz’altro. Ma perchè, poi, e qui vado a chiudere il cerchio (per il momento, attendo chiarimenti)di questo flusso mediatico se ne avvantaggerà quella sinistra asfittica, mezzo impotente di cui parlavamo prima? Come fare per trovare i leader con le palle? E’una questione soltanto di uomini o anche di idee?
    In Germania i neonazisti hanno preso un bel po’ di voti. E così i neo comunisti. (Non li metto nello stesso calderone, sia chiaro). Ma non è quello il bacino d’utenza per una “terza via” decisa? La disperazione, il malcontento, l’insicurezza dilaganti? Grazie fin d’ora.

  26. Il social forum è un movimento che, giustamente, non vuole esaurirsi in una istanza partitica. Sono i politici di sinistra che devono formulare i loro programmi basandosi sui nuclei portanti del social forum. Secondo me la sinistra alternativa, cioè Verdi, Pdci, Rc, e anche DiPietro, dovrebbe aprire una costituente insieme ai rappresentanti del SF e della lista della società civile che si richiama ai “girotondi”, per formulare il programma della sinistra radicale, da contrapporre e confrontare con quello dell’Ulivo.
    Purtroppo questo oggi sembra fantascienza. I Verdi sono un movimento europeo che non vuole perdere la sua identità e Rc, nonostante le ultime novità, è ancora troppo legata a schemi ideologici passati (il suo attaccamento a simboli desueti e ormai privi di significato nell’immaginario comune, come la falce il martello, nonchè il suo attaccamento a parole quali “comunismo” e “compagni” è davvero puerile) per poter rinunciare al richiamo al comunismo. Forse dovrebbe essere il SF ad agire per primo stilando una lista di priorità da porre all’esame di tutte le forze politiche, garantendo poi il voto dei suoi aderenti alla coalizione che sottoscrive quelle priorità. Da un’azione del genere potrebbe partire un confronto serrato tra partiti e società civile, come caldeggia da tempo Flores d’Arcais su Micromega. Se la sinistra alternativa fosse disponibile a tale confronto il SF e il movimento “dei girotondi” potrebbero innescare quel processo indispensabile alla formazione di una lista aperta nelle quale potrebbero candidarsi anche alcuni leader del SF (senza per questo esaurire nella politica l’impegno del movimento).
    Sto ipotizzando…sperando. Sia i partiti che i movimenti mancano del necessario realismo. E in questi gg pare che la sinistra alternativa si stia allineando sulle posizioni di Prodi. Colpa dei partiti o dei movimenti?
    Eppure, se ci pensi, se dalla società civile uscisse la candidatura di Gino Strada, ad es., non sarebbe tutta un’altra storia? Io credo che i leaders della nuova sinistra vadano cercati nella società civile, ma contemporaneamente i politici dovrebbero avere quell’apertura mentale tale da attuare una riforma “dal basso” delle strutture partitiche. Tutto questo, ripeto, oggi non è verosimile.
    Ecco perchè, in conclusione, io sono molto pessimista. Le idee da cui attingere ci sono; mancano persone pronte a interpretare questo nuovo periodo storico a livello politico, e mancano i leaders.
    E sull’America hai perfettamente ragione tu: M. Moore, che ha idee molto più simili a Nader piuttosto che a Kerry, si trova a sostenere quest’ultimo. Io confesso che se fossi americano voterei per Kerry se abitassi in uno stato “in bilico” e per Nader se abitassi in uno stato di sicura tradizione democratica.
    Ho tralasciato il discorso sul ruolo dell’informazione, ma per il resto spero di averti risposto.

  27. Grazie per aver spiegato in poche parole chiare dei concetti importanti, Galbiati. Anch’io voterei Nader, però così… finirei per fare il gioco di Bush, come è stato dimostrato nella battaglia Bush/Gore. Il leader deve venire dal basso, certo. E deve avere carisma, forza; dev’essere (e non è una bestemmia) quel tanto “violento” nelle argomentazioni, perchè dall’altra parte ci sono fior di picchiatori. Perlomeno D’Alema picchiava veramente duro; mentre i Rutelli, e i Fassino… ma lasciamo perdere, anche se lo sappiamo bene che la politica si fa anche con le facce di bronzo, con la grinta, con l’appeal e non solo con le buone idee e le buone maniere. Anzi, tutto si fa con la grinta e la faccia di bronzo.
    Mi hai risposto anche su Verdi e Pc: i Verdi non vogliono perdere la loro identità (bene, facciano pure, intanto le destre si rafforzano…) e il Pc continua a parlare di “compagni”, “comunismo” ecc. Con quale faccia? Ce lo ricordiamo il passato? E se si, perchè non gli diamo una bella cancellata e cerchiamo di proiettarci nel futuro?
    Ma sai che c’è? Questa gente, purtroppo, crede in quello che dice. E’ disastrosamente coerente.

  28. O insomma, ma la volete finire di dire stracazzate? andate su http://www.pornstargals.com e spippatevi un po’ come faccio io quando mi vengono stronzate da dire. Un bel rasponcino e via, tutto passa e niente coprofagie ulteriori. Eh, Inglese? Che ne dici? Eh?

  29. scusami arturo ma sto per dire altre cazzate, proprio non ce la faccio a vedere filmati hard sui siti porno… la connessione costa troppo!

    sono d’accordo con te, franz, le buone maniere nella politica di oggi sono deleterie. e lo dice uno che si considera nonviolento. io credo che si dovrebbe evitare l’insulto personale ma, a parte questo, i giudizi sulle opinioni e sugli atti commessi da questo governo di delinquenti (insulto? ok, ma non sono un politico!) dovrebbero essere netti, avere la violenza della verità e a volte della provocazione.
    Io ad es. se fossi un politico non avrei esitato a dire, quando morirono i carabinieri in Iraq: il ministro Martino, e con lui tutto il governo, è responsabile della morte dei nostri concittadini perchè aveva assicurato in Parlamento che le nostre truppe andavano a occupare zone sicure. O lui e il governo mentono, o mandano i nostri ragazzi a morire senza neanche accorgersi ecc…
    un’accusa netta, semplice che avrebbe il suo peso sull’opinione pubblica se fosse sostenuta da tutta la sinistra, ma la sinistra si divide sempre nei giudizi, parla con un lessico disuguale e questo impedisce di aver efficacia sulla gente. la destra invece è molto più compatta anche nel linguaggio che usa: quante volte accusano la sinistra di “strumentalizzazione”? e lo fanno tutti, da follini a bossi! e in questo modo il mesaggio acquista efficacia.
    ma il problema è che gli esponenti del centrosinistra non sono capaci di comunicare. anche se, ad essere sincero, come comunicatori bertinotti, diliberto e p.scanio mi sembrano molto meglio di fassino, prodi ecc. ciò nonostante resta nella sinitra radicale la miopia politica di cui abbiamo già detto.
    eppure quanta gente di sinistra vota DS scontenta o non vota? e, di fatto, è molto vicina alle posizioni dei comunisti? se ne accorgerebbe, forse, se questa parolina, “comunista” sparisse dalla bandiera di quel partito…e allora perchè non fare una semplice operazione sull’immagine, sul lessico?
    si torns alla conclusione, paradossale?, che la sinistra tiene di più alla forma che alla sostanza…

  30. eh no inglese. tu quoque tu non puoi scrivere che big tits, cumshot, sm, anal ecc annoiano.
    quoque tu che non si riesce a finire di leggere una tua proposizione senza dorm
    .

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Andrea Inglese (1967) originario di Milano, vive nei pressi di Parigi. È uno scrittore e traduttore. È stato docente di filosofia al liceo e ha insegnato per alcuni anni letteratura e lingua italiana all’Università di Paris III. Ha pubblicato uno studio di teoria del romanzo L’eroe segreto. Il personaggio nella modernità dalla confessione al solipsismo (2003) e la raccolta di saggi La confusione è ancella della menzogna per l’editore digitale Quintadicopertina (2012). Ha scritto saggi di teoria e critica letteraria, due libri di prose per La Camera Verde (Prati / Pelouses, 2007 e Quando Kubrick inventò la fantascienza, 2011) e sette libri di poesia, l’ultimo dei quali, Lettere alla Reinserzione Culturale del Disoccupato, è apparso in edizione italiana (Italic Pequod, 2013), francese (NOUS, 2013) e inglese (Patrician Press, 2017). Nel 2016, ha pubblicato per Ponte alle Grazie il suo primo romanzo, Parigi è un desiderio (Premio Bridge 2017). Nella collana “Autoriale”, curata da Biagio Cepollaro, è uscita Un’autoantologia Poesie e prose 1998-2016 (Dot.Com Press, 2017). Ha curato l’antologia del poeta francese Jean-Jacques Viton, Il commento definitivo. Poesie 1984-2008 (Metauro, 2009). È uno dei membri fondatori del blog letterario Nazione Indiana. È nel comitato di redazione di alfabeta2. È il curatore del progetto Descrizione del mondo (www.descrizionedelmondo.it), per un’installazione collettiva di testi, suoni & immagini.