Omosessualità e identità italiana
di Tommaso Giartosio
[Le pagine seguenti sono tratte dal cap. 8 del mio Perché non possiamo non dirci. Letteratura, omosessualità, mondo, pubblicato a giugno da Feltrinelli. Ringrazio l’editore per avere autorizzato la pubblicazione in rete.]
[…] Hai parlato del Risorgimento come di un momento importante di elaborazione dell’identità maschile, omosessualità inclusa. Ma questa è un’affermazione gravida di conseguenze. Non significa, in ultima analisi, che l’omosessualità svolge un ruolo particolare in quella che potremmo chiamare “l’identità italiana”?
Fai bene a esprimerti con cautela. I teoremi sull’identità nazionale hanno un valore limitato. Non li si può considerare né “veri” né “falsi”; non li si può mai applicare a tutti i cittadini; descrivono sempre un passato che è in parte sconfessato dal presente; disegnano come un singolo, autonomo identikit quella che forse è solo l’area di sovrapposizione di insiemi diversi; e puzzano di nazionalismo e razzismo. Con tutto ciò, “cosa significa essere italiano?” non è una domanda priva di senso.
Una domanda “debole ma non insensata”?
Esatto. E poi della dimensione sessuale, in questi anni di rinnovate riflessioni sull’”identità italiana”, non si è parlato molto (con una eccezione che poi ti dirò). Possiamo provare a farlo noi, anche se temo che come al solito avrò più da dire sul lato maschile della questione.
Io so solo che non ho mai parlato tanto di nazione e di tradizione. Mi sembra di essere uno di questi Rosmini Papini Prezzolini Mussolini Follini Frattini Fini…
Io mi terrei a Mazzini, Pertini, soprattutto Zavattini. E magari Pasolini. Ma hai ragione, è davvero poco più che un gioco.
E proviamo a giocare!
Allora per rispondere alla tua domanda devo partire da un’osservazione. Tra gli aspetti della nostra identità – o fascio di identità, o groviglio di appartenenze – ce n’è uno cruciale. E’ frutto di componenti antiche: il familismo, il cattolicesimo, il campanilismo, la tradizione mediterranea; componenti diffuse appunto in tutte le culture del Mediterraneo, ma attenuate, negli altri paesi, da diversi fattori – qui una religione iconoclasta, lì una unificazione precoce, altrove un urbanesimo più deciso o una cultura più aperta all’influsso razionalista – e solo da noi intrecciate in modo compatto a formare l’elemento di cui parlo. E’ un elemento presente in Petrarca e Boccaccio come in Gadda e Calvino, come anche nella nostra esperienza quotidiana. E’ il senso della forma.
Puoi definirlo meglio?
Diciamo: il senso dell’opposizione, spesso dolorosa, tra sostanza e apparenza. E dei privilegi dell’apparenza, che impone una forma addirittura al dolore di doversi piegare a essa. Tutta la novella di Federigo degli Alberighi nel Decameron è la prova di come la cortesia, quando strazia, diventa più bella.
Un buon esempio. Però è abbastanza universale, il senso della forma.
Eppure è anche qualcosa di molto italiano – tanto italiano che nel parlarne rischio, lo so, di ricadere nei luoghi comuni. Ma credo davvero che la storia del nostro paese stia anche in una catenella di parole (in buona parte tanto italiane da essere difficili da tradurre): cortesia, sprezzatura, maniera, bella figura, affettazione, rispetti umani, garbo, riguardo, urbanità, perbenismo, omertà, formalità, conformismo, consociativismo… E poi pensa a ciò che abbiamo detto sulla lingua italiana “spettrale”, sulla tensione tra il linguaggio formale e quello parlato… In conclusione: mi sembra che l’italiano e l’italiana abbiano sempre situato la propria vita nello spazio tra apparenza e sostanza, entrambe necessarie e inevitabili.
Mi fai tornare in mente il tuo ritrattino di Brunetto come “sodomita rispettabile”.
Sì, quello è un modo di caratterizzare la polarità di cui parlo, ma ce ne sono tanti altri. “Forma” può essere un compromesso rassicurante, ma anche una convenzione di cui beffarsi, o ancora un archetipo amoroso seducente e pietrificante; “sostanza” può essere la verità scandalosa affermata da Machiavelli o Galilei o Leopardi, ma anche il senso di colpa di Petrarca, o l’”anello che non tiene” di Montale… Un comun denominatore però c’è: l’organizzazione della propria realtà mentale attorno a questi due poli ontologicamente distinti, che non possono in nessun caso venire saldati.
Sì, questo è un grande tema della cultura italiana. Ma la lista di termini che hai snocciolato prima suggerisce che questa dialettica (una dialettica priva di sintesi, da quel che dici) si collochi prima di tutto a livello sociale e antropologico.
E’ vero: è su questo piano che l’opposizione di cui parlo si mostra chiaramente radicata nel nostro paese. Gli italiani spesso non hanno creduto nella possibilità che la dimensione collettiva (la famiglia, la società, lo stato, la religione, la rivoluzione?) li rappresentasse in modo davvero adeguato; hanno sentito con estrema acutezza l’oggettiva difficoltà di essere semplicemente se stessi in uno spazio pubblico (quando lo sono stati, non lo sono stati semplicemente); si sono mossi tra il polo del “profeta” e dell’”apostolo” e quello dell’osservatore disincantato, diffidente, fatalista, individualista; sono stati soprattutto, sia nella retorica patriottarda che nella vergogna delle patrie cose, incapaci di presentarsi – e dal fascismo in poi l’Italia è senz’altro un “paese che non osa dire il suo nome”.
Questo mi ricorda qualcosa…
L’”amore che non osa dire il suo nome”: l’omosessualità. Se rifletti su ciò che abbiamo detto fin qui, ti renderai conto che noi italiani siamo vissuti per secoli in un regime semiotico che ha la stessa struttura del segreto omosessuale. Non sarebbe poi strano se l’omosessualità avesse davvero un particolare radicamento nel nostro paese, come per secoli hanno sostenuto (limitandosi a quella maschile) i viaggiatori stranieri.
Hai tentazioni egemoniche, vedo!
Non dico che questa dimensione sia in assoluto quella predominante: dico che c’è. E che conta. In effetti: dov’è che, nella nostra cultura, l’antitesi tra forma e sostanza risulta più radicale? In alcune figure e situazioni mitiche dell’immaginario italiano: tra le principali, il tradimento, la beffa, il carnevale, la chiacchiera di paese, e il frocio. Per secoli hanno costituito dei momenti di prova dell’equilibrio tra l’apparire e l’essere, hanno fornito occasioni in cui autodefinirsi personalmente e socialmente, e hanno anche vegliato sulla creazione di testi archetipici: non si può pensare il tradimento senza Dante, la beffa senza Boccaccio, il carnevale senza Goldoni, la diceria senza Pirandello. Quanto alla pederastia, sembra quasi che non sia stata raccontata: invece è sorprendente come quasi tutti i classici ne scrivano prima o poi, in un modo o nell’altro.
Davvero? Chi?
Be’, è un po’ stupido fare una lista di nomi invece di analizzare i testi. Ma se ne vuoi qualcuno, così a memoria, e con tutti i limiti di un lettore non sistematico: mi è capitato di trovare il tema in Dante, Boccaccio, Ficino, Poliziano, Machiavelli, Ariosto, Castiglione, Aretino, Berni, Marino, Parini, Beccaria, Alfieri, Belli, Leopardi, D’Annunzio… e tralascio autori come Michelangelo o Tasso, che ne parlano in modo meno diretto.
Interessante. Però mi ha stupito poco fa sentirti usare la parola “pederastia”: è così violenta.
Ma in questo caso è appropriata. La storia delle diverse forme di omosessualità maschile praticate in Italia è ancora largamente congetturale, e quanto sto per dirti costituisce una rozza semplificazione: anche perché le persone, per fortuna, spesso non rientrano perfettamente in un astratto modello di relazione. Di fatto però alcuni di questi modelli si sono avvicendati, e in parte sono coesistiti (come accade tuttora). Ora, l’ipotesi che si va facendo strada tra alcuni studiosi è che da noi abbia resistito ben più a lungo che nell’Europa centro–settentrionale il modello pederastico, basato in primo luogo sulla differenza d’età (maschi adulti che hanno rapporti con maschi adolescenti) e praticato su larga scala (ricordi i dati su Firenze nel Quattrocento?). Proprio per questo il ben diverso modello dell’”omosessuale moderno” – che ha rapporti solo con altri gay, senza particolari barriere di età – da noi si sarebbe radicato tardi.
Hmm… Se questa ipotesi è vera, perché nessuno parla della centralità della pederastia nella nostra cultura, e quindi di un suo rapporto forte con l’identità nazionale?
Qualche accenno in questa direzione mi è capitato sotto gli occhi. Accenni frammentari, certamente molto discutibili, ma interessanti.
* * *
Si potrebbe partire da un dato. La penisola è stata a lungo sottomessa a popoli stranieri, e la nostra cultura ha spesso trattato questo tema attraverso metafore sessuali – pensa all’Italia “non donna di provincie, ma bordello” del Purgatorio. Nulla di sorprendente. Tuttavia, colpisce la frequenza con cui si è ricorsi a immagini di sottomissione omosessuale. Nel Risorgimento, per esempio, gli italiani sottomessi all’Austria sono descritti come “snervati” (Alfieri), “eunuchi” (Giusti), “bardassa” (Porta), e così via. Più di recente, Cesare Garboli…
Ancora Garboli! Certo che per essere uno che di omosessualità “non se ne intende”, ne parla di continuo.
Ma la sua posizione è di grande interesse. In un’intervista del 1997 (ora in Ricordi tristi e civili) parte proprio da Purgatorio VI, per declinarlo in senso pederastico: “Noi siamo stati il giardino dell’Impero, come diceva Dante. Siamo simili a un Efebo dentro al quale tutti gli altri Stati hanno desiderato stare, ammirati della sua bellezza. Quando abbiamo smesso di essere un bel ragazzo che l’ha preso nel sedere, abbiamo fatto la faccia feroce, per poi sbagliare tutto… La vocazione del nostro paese è una vocazione servile, nel bene e nel male.” Subito dopo ricollega questa ipotesi a un’idea che nello stesso anno – credo sia solo una coincidenza – è citata anche in un libro di Franco Cordelli, La democrazia magica, e che però ha le sue radici (come scrive Cordelli) addirittura in Manzoni: l’idea di Enea come “primo italiano”.
E rieccoci al Risorgimento. Ma in che senso Enea sarebbe un modello dell’identità italiana?
“Modello” è dire troppo. Si tratta di un fascio di spunti, di suggerimenti, che fanno perno sulla caratterizzazione di Enea come “eroe passivo”. Io li classificherei sotto l’etichetta della ricettività culturale, politica, sessuale. “Ricettività” qui è un termine–ombrello che adotto in mancanza di meglio. Comprende la passività, ma anche l’accoglienza, l’ecumenismo. Il provvidenzialismo, ma anche lo scetticismo e perfino il cinismo. L’apertura al nuovo, ma non la rivoluzione; l’indifferenza, ma anche la pietas, il senso del passato e dei valori depositati; e, direi, anche il “senso della forma” di cui parlavo prima. Infine la “passività” sessuale. Cordelli, ricordando come nell’Eneide il nemico di Enea, Turno, accusi l’eroe di essere un semivir, parla di “effeminatezza” – pensando però alla plasticità versatile del seduttore (che può anche sfociare nell’uccisione dei rivali) più che al ruolo del sodomita passivo. Garboli invece, come abbiamo visto, fa senz’altro riferimento alla pederastia.
Non sono molto convinto. Comunque c’è perlomeno una contraddizione nella tesi di Garboli. Se fossimo un popolo di efebi, chi sarebbero i nostri sodomizzatori?
Per risponderti bisogna andare a un terzo autore che ha affrontato questi temi, ma cinquant’anni prima: Umberto Saba. In uno dei primi appunti delle Scorciatoie, Saba scrive (riscrivendo, in realtà, Totem e tabù di Freud) che gli italiani non hanno mai fatto vere rivoluzioni, perché non vogliono abbattere il vecchio bensì il rivale: “Non sono parricidi; sono fratricidi… Vogliono darsi al padre, ed avere da lui, in cambio, il permesso di uccidere gli altri fratelli.” E’ una diagnosi che si applica bene a Enea: l’eroe che per raccogliere l’eredità paterna scatena una guerra fratricida. Ma Saba riporta un orizzonte culturale e politico – il familismo patriarcale, la gerontocrazia, la faida, il lato oscuro del tradizionalismo italiano – entro la dimensione psicoanalitica, costruendo un romanzo famigliare. Così questa versione della metafora pederastica risolve il dubbio che mi ponevi. I “sodomizzatori” per Saba sono gli italiani stessi. Obbedendo al maschio anziano autorevole – cioè al “padre” – imparano la reciproca vergogna del potere. Compiono un’esperienza di sodomizzato–che–sarà–sodomizzatore, la raccolgono da un sodomizzatore–che–è–stato–sodomizzato. Sono testimoni e complici della debolezza e resistenza del corpo maschile.
Questa specie di orgia, però, nell’Eneide non c’è!
Credevo fosse chiaro: il discorso che risulta da questo montaggio di testi “usa” Enea semplicemente come simbolo identitario. Detto questo, se nell’Eneide non è rappresentata la sodomia, c’è però la sottomissione maschile, c’è questo rapporto circolare ma fortemente ruolizzato con il potere. Anzi, nella scena finale del poema – il duello tra Enea e Turno, re dei Rutuli – questa esperienza ci viene mostrata nel suo momento di crisi.
Parlamene in breve: poi voglio tornare alla “ricettività”, e capire cosa ne pensi.
Certo. Ricordi? Alla fine Turno, sconfitto, chiede pietà, si sottomette. Enea sta per risparmiarlo, quando gli vede addosso il balteo che Turno ha strappato al cadavere di Pallante: allora lo uccide.
Mi sembra semplicemente una vendetta.
Ma non è una vendetta semplice. Pensa a Pallante. E’ il figlio del re italico Evandro, ma incarna anche un tipo letterario: l’efebo guerriero fedelmente legato a un combattente più anziano (Enea). La versione esemplare di questa stessa coppia è, sempre nell’Eneide, Eurialo e Niso, mentre il modello originale, benché lievemente diverso, è quello di Achille e Patroclo…
Un momento: sono coppie di guerrieri o di amanti?
Questo sarebbe un discorso lungo; diciamo che la componente erotica nel testo epico resta implicita, ma era ben presente già agli occhi degli antichi – e di qualsiasi lettore avvertito. Attorno a Pallante, però, ruotano diverse autorità amorevoli e patriarcali. Enea: che seppellirà il ragazzo avvolto in uno dei due drappi avuti da Didone (l’altro, Enea sembra tenerlo per sé – in queste esequie agisce una vera e propria mistica nuziale). Il padre Evandro: che ha adiunctus, “dato come compagno”, Pallante a Enea. E altri ancora: quando Ercole è afflitto per l’imminente morte del giovane (che secondo una leggenda è suo figlio), suo padre Giove gli ricorda di aver perso lui stesso un figlio a Troia, Sarpedone. Come vedi, è tutta una girandola di padri reali o figurati, comunque tenerissimi e potentissimi. Tra di loro però c’è anche un “padre” nero, re Turno, il lato oscuro dell’autorità militare–patriarcale–erotica, che ucciderà Pallante.
Ho capito: Enea punisce Turno perché ha ucciso un guerriero giovane, metaforicamente “figlio” di entrambi. Ma per spiegare l’uccisione di Turno non basta il fatto che Enea fosse legato a Pallante?
Però ragionare sui ruoli – sui “padri” e sui “figli” – permette di cogliere nella morte di Turno, nel suo come e nel suo perché, qualcosa di più profondo dei rapporti spiccioli tra i singoli personaggi. Vedi, la colpa di Turno non è solo l’aver ucciso un “figlio”, per giunta prediletto da Enea. Turno fa di peggio: incrina le gerarchie, intorbida le acque. Elimina il ragazzo dicendo: “A me solamente spetta Pallante; vorrei che vi fosse suo padre ad assistere.” Attraverso il figlio, colpisce un altro padre. Poi, una volta sconfitto da Enea, chiede pietà: e la chiede in nome della sofferenza che la sua morte darebbe al padre Dauno. Insomma, abdica, si dichiara figlio; e ricorda a Enea che anche lui è un figlio. Enea sul momento è confuso, esita. Poi gli balza agli occhi il segno tangibile, osceno, delle trasgressioni di Turno: il balteo – su cui è inciso un altro mostruoso rovesciamento, il mito delle Danaidi che uccidono i mariti. Il balteo di Pallante. Turno si è travestito da figlio. Al rivelarsi di questo paradosso Enea risponde con una mossa altrettanto paradossale: diventa, per un istante, anche lui figlio – proprio come voleva Turno, in fondo. Affondando la spada esclama: “Con questa ferita, Pallante t’immola.” Il verbo non è scelto a caso: si tratta propriamente di un momento rituale. Il sovrapporsi di padri e figli, l’avvicendarsi di potere e sottomissione negli stessi corpi, è un mistero sacro – un tabù.
Tutto questo, però, ha a che fare con la cultura latina più che con quella italiana.
Sì, è la cultura del maschio adulto onnipotente su donne e maschi giovani: ciò che la storica Eva Cantarella, seguendo Paul Veyne, ha chiamato una sessualità “di stupro”, che pure in Virgilio e negli augustei acquista nuove sfumature sentimentali. Ma la coppia Enea–Pallante, o se vuoi Niso–Eurialo, è stata ripresa spessissimo nella letteratura italiana. Pensa a Cloridano e Medoro nell’Orlando Furioso, Solimano e Lesbino nella Gerusalemme liberata, addirittura il Tapiro amato dall’Elefante negli Animali parlanti di Casti…
D’accordo. Ma in conclusione, sii onesto: il paradigma pederastico dell’identità italiana, così come si profila nelle pagine di Saba e Garboli, ti sembra credibile?
Per definizione, un’identità nazionale non è qualcosa in cui “credere”, ma qualcosa che va cambiato: chi non vuole farlo è un fascista, proprio in senso tecnico. Sul sito web “Nazione indiana”, nei giorni della strage di Nassiriya, Antonio Piotti si chiedeva quale immagine dell’identità nazionale si esprimesse nella presenza italiana in Iraq (e la sua risposta, interessante ma piuttosto lunga da riferire, aveva diversi punti di contatto con le tesi di Garboli). Andrea Inglese ha commentato: “Ma io mi interrogherei su questo immaginario. Esso è inattaccabile, fatale, rimarrà eternamente radicato in noi come una maledizione (o una benedizione)? Dobbiamo confermarlo questo immaginario ancora una volta? Anche dopo averlo smontato? O possiamo provare ad immaginarci diversamente?”
D’accordo, d’accordo… Però non mi hai risposto.
Io direi che il mosaico che ti ho assemblato compone un ritratto… alla Dorian Gray: per certi versi molto acuto e rivelatore, per altri del tutto falso e irreale (benché irreale in modo significativo). Forse il motivo è che mette in gioco, sia pure in forma sofisticata, degli stereotipi.
Quali sono, per cominciare, gli aspetti che ti convincono?
Te ne dirò solo uno. Credo che un fattore importante – tutt’altro che esclusivo, ma importante – nella psicologia italiana, soprattutto considerata come palinsesto storico, sia l’esperienza della sottomissione al potere. Potere politico, patriarcale, e sessuale. Una dimensione psicologica “pederastica” esiste davvero, e non è priva di peso – anche se non vorrei certo farne “l’identità italiana” tout court.
Anche perché questa dimensione, se c’è stata, appartiene al passato…
In parte sì. E in parte perdura in forma simbolica. Del resto, è proprio nei rapporti di potere che la forma è importante: il giovane lupo deve esporre la gola alle zanne del capobranco – non occorre che si faccia sbranare. E poi il patriarcato non è certo scomparso, e se sta scomparendo lo fa alla velocità di un ghiacciaio: vedrai, sputerà i nostri corpi tra quarant’anni.
E gli aspetti che invece non ti convincono?
In primo luogo due. Il primo è quello che ti accennavo un attimo fa: entro questa visione la sottomissione al potere diventa il denominatore unico. E’ una prospettiva tutta verticale, claustrofobica. E’ vero che la nostra identità storica si fonda più sulle associazioni coatte (la famiglia d’origine, l’ufficio) che su quelle elettive (partiti, sindacati): l’epica USA del comitato civico non ha mai preso molto piede in Italia. Però è anche vero che una certa capacità associativa e rivendicativa l’abbiamo dimostrata. Alla fin fine, abbiamo avuto partiti e sindacati tra i più grandi dell’Occidente. Oppure pensa alla Resistenza, che è stata per un verso l’occasione di una lotta fratricida come quella evocata da Saba, ma per un altro verso è nata dall’alleanza tra fratelli anche politicamente molto distanti, uniti nel CLN – e in questo modo ha fatto molto per inaugurare una diversa immagine dell’Italia… Il secondo aspetto che non condivido, poi, è che questa concezione, pur dissacrando qualcuno dei miti della virilità, in realtà mostra chiaramente il suo taglio misogino. Ignora in modo totale e brutale la dimensione femminile e quella materna: si parla solo di maschi e padri. E ciò falsa gravamente i conti.
Questa poi! Senti chi parla! Se fin dal discorso su Dante e Brunetto non hai fatto altro che parlare di padri, padri, padri, metaforici o reali – e non hai citato una sola madre…
Ma stavano nelle pagine che abbiamo discusso! Non è colpa mia se i libri che ho preso in esame con te parlano di padri!
Li hai scelti tu i libri! Se ti soffermavi di più su Saba, in Ernesto trovavi una madre grande così!
Hmm… Ci dai giù duro. Be’, d’accordo, diciamo che sono stato complice di un silenzio. Tutti i discorsi sulla tradizione e sull’identità rischiano queste ellissi. Quindi accetto la tua critica, ma continuo a pensare che discorsi di questo tipo non possano venire semplicemente elusi.
Scusatemi, la butto così, in un post a caso… (senza alcun riferimento ad Omosessualità e identità italiana)
ma cosa è successo a Nazione Indiana?
marzo-aprile scorso passavo le ore a leggere interventi e risposte…
da un paio di mesi, poco o nulla
è solo una impressione mia? Il calo, quantomeno dal punto di vista quantitativo, mi sembra evidente.
no?
Le vacanze fanno male ai neuroni!
Gran bel pezzo. Si riflette finalmente sulla questione omosessuale in letteratura senza immergersi nella retorica psicoanalitica. Giartosio l’ho scoperto come un talento della nuova critica letteraria. L’avevo già apprezzata con l’alfieriano romanzo uscito per Fazi. Bene!
Interessantissimo e benvenuto, questo dialogo immaginario sull’identità di genere italiano:). Leggerò di sicuro il libro. Grazie.
Omosessualità e identità. Sulle questioni in oggetto condivido le posizioni dello psichiatra Massimo Fagioli (http://www.quaderniradicali.it/agenzia/index.php?op=read&nid=587). Sono certo che Nazioneindiana trarrà nuova linfa vitale da questa dichiarazione di intenti, in un verso o nell’altro. Saluti, Paolo Izzo
Oggi esce “Matrimoni” di Piergiorgio Paterlini, Einaudi.
grazie a roberto, grazie a gina. nessun grazie a massimo fagioli.