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Libertà letteraria e censura della tiratura

di Benedetta Centovalli

loadimage.cfm A vent’anni dalla morte si onora con i suoi film un grande regista, François Truffaut. Così mi è capitato di rivedere con curiosità e una punta di apprensione, per paura che il tempo avesse fatto giustizia del ricordo, uno dei suoi film più noti, Fahrenheit 451. Ma che diavolo manderebbero a memoria gli uomini-libro se Truffaut girasse adesso la sua pellicola? Il film, ispirato al romanzo di Ray Bradbury, poneva domande inquietanti sul valore e sul significato della lettura, sulla logica del potere volta al controllo e alla manipolazione della verità, domande di bruciante attualità.

“Un sistema il cui ideale sarebbe quello di fare del libro un prodotto derivato e dell’editoria un luogo di scambio di potere che si manifesta per cominciare con la capacità d’interdire mediante la cosiddetta censura del mercato la manifestazione e la diffusione di opinioni non conformi”, scriveva Alfredo Salsano, scomparso prematuramente pochi mesi fa, nella sua Presentazione all’edizione italiana di un libro importante e provocatorio: Editoria senza editori di André Schiffrin, pubblicato da Bollati Boringhieri all’inizio del 2000. Una denuncia lucida e coerente della deriva del mondo editoriale, stretto tra informazione e entertainment, stritolato appunto dalla logica del fast food, della planetarizzazione della cultura, dove pochi autori molto vendibili si impongono ovunque come la griffe di una potente multinazionale.

Figlio dell’ideatore della “Pléiade”, direttore fino al 1990 di una delle più prestigiose case editrici newyorkesi, la Pantheon Books, fondatore poi della sigla indipendente The New Press, Schiffrin racconta puntuale la mutazione genetica del pianeta editoriale avvenuta nell’ultimo decennio del secolo passato negli Stati Uniti, fotografia di ciò che sta accadendo in Europa e in Italia.

Da attività artigianale, quasi familiare, con profitti modesti e collegata alla vita intellettuale del paese, alle grandi concentrazioni editoriali internazionali che pretendono solo significativi obiettivi di profitto allineati agli altri business (giornali, televisione, cinema…). Con la conseguente trasformazione della catena editore-distributore-libraio, dove la piccola e media editoria di cultura e il libraio indipendente scompaiono insieme alla possibilità di orientare le scelte del lettore secondo riconoscibili percorsi. La dittatura del best seller regna nella confusione, desertifica e azzera le differenze, la capacità di selezionare.

Un’editoria senza editori e senza librai, afferma Schiffrin. Un’editoria senza progetto, senza cultura. Un’editoria dove l’omologazione delle proposte è totale, dove ci si nasconde dietro l’alibi della qualità declinata tiratura per tiratura, e non secondo criteri e valori identificabili, così come libro per libro si valuta la tenuta di una collana senza alcuna visione d’insieme, né orizzonte di crescita. Vogliamo provare a spiegare cosa significa qualità? In fondo la qualità non significa nulla per se stessa, ma solo in relazione a un contesto, solo se traduce una necessità in cui riconoscersi.

Raffaele La Capria in un’intervista recente motivava così quello che sta succedendo: “Semplicemente – diceva – tutti sanno scrivere un libro che sembra un libro scritto bene. Non c’è una divisione netta tra cattiva e buona letteratura, vi è una buona-cattiva letteratura che è quella che per lo più fanno gli editori oggi. Praticamente l’80% dei libri che escono, libri ritenuti pubblicabili e pubblicati, sono buona-cattiva letteratura. Libri scritti bene, con gli aggettivi al loro posto, il periodo ordinato e ben strutturati. Questi libri, però, non hanno l’anima, sono disanimati, è una letteratura disanimata, che però va per la maggiore perché è quella che si vende di più”.

La qualità tante volte evocata si disfa in cattiva qualità quando non derivi da scelte che generano appartenenza e che possono concorrere alla formazione di un’immagine decifrabile di editore.

Gian Carlo Ferretti nella prima parte della sua esaustiva Storia dell’editoria letteraria in Italia. 1945-2003 (Einaudi, Torino 2004) racconta l’epoca degli editori protagonisti (Mondadori, Rizzoli, Bompiani, Einaudi, Garzanti, Feltrinelli, Longanesi) e dei letterati editori (Vittorini, Pavese, Calvino, Debenedetti, Sereni, Bazlen, Bertolucci, Bassani, Sciascia) che operano nel nostro paese dagli anni Trenta e che accompagnano l’editoria libraria italiana dall’inizio artigianale o preindustriale all’affermazione di una vera e propria industria culturale fino alle soglie dell’attuale processo “concentrazionario”. All’epoca dei grandi editori c’era una “personalizzazione del progetto e della strategia”, si perseguiva una politica d’immagine fondata sulla politica d’autore, il lavoro editoriale era orientato alla definizione di una riconoscibile e forte identità di progetto e di catalogo, che in larga parte si realizzava nelle differenti collane. L’analisi circostanziata di Ferretti non produce solo una storia (e una puntigliosa geografia) dell’editoria italiana, ma offre come controtesto l’allarmata registrazione dei rischi e delle responsabilità del crescente potere dell’apparato, insomma quello che è successo negli Stati Uniti è accaduto anche in Italia e il volume di Ferretti ne è accurata e partecipe narrazione.

Oggi ogni libro deve essere redditizio per sé. Alla politica d’autore si è sostituita la politica di titolo o altrimenti detta politica della tiratura e come risultato un ventaglio di proposte dagli accostamenti a dir poco arditi, con divaricazioni e disaggregazioni pericolose e confuse.

Evocata da Schiffrin, la censura del mercato, domina incontrastata sovrana. Se si pensa che un libro venderà meno di un certo numero di copie (del primo libro di Kafka si stamparono 800 esemplari), si decide di non pubblicare quel libro e quell’autore, e questo colpisce soprattutto gli esordienti e gli autori ad alto tasso di letterarietà oppure la saggistica impegnata. Basata “sulla esistenza o no di un pubblico precostituito per ciascun libro”, la censura della tiratura rovescia un apparente metodo liberale in vera e propria minaccia all’accesso del sapere: “Di conseguenza, quel che si ricerca è l’autore noto, il tema di successo e i nuovi talenti o i punti di vista originali e critici difficilmente trovano il loro posto”.

Il rischio è di rinunciare al progetto, all’esercizio della critica, la fine della democrazia e della possibile formazione di un sentimento civile comune, relegando la ricerca culturale nella sfera dell’eccentricità o dello specialismo e dell’accademia. Quale editore può davvero fare a meno di utilizzare il rasoio settimanale delle classifiche dei best seller?

Alla fine del suo volume Ferretti dichiara di parteggiare per l’epoca degli editori protagonisti, “l’editoria fatta da chi pensava i libri piuttosto che limitarsi a fabbricarli” e affida alla piccola editoria il compito di tenere vivo il senso di questo mestiere. Allo stesso modo il pamphlet di Schiffrin si chiudeva su una nota positiva, l’anello che non tiene nella catena che imprigiona al mercato: pensare per paradosso nel mondo globalizzato che “certe forze arcaiche come il nazionalismo e il campanilismo” possano diventare utili alleati nella battaglia per una cultura indipendente. In entrambe le conclusioni un invito alla riflessione sul significato e sul valore dell’identità culturale, sulla libertà di espressione e su come difenderli.

Nel film di Truffaut i libri sono condannati al rogo in un paese dittatoriale del futuro (?). La temperatura a cui i libri prendono fuoco è 451° Fahrenheit. La temperatura a cui brucia la libertà. E’ questa la frase con cui Michael Moore ha lanciato il suo esplosivo documentario su Bush, sollevando un polverone sul rapporto tra informazione e potere, informazione e verità. E su queste parole è chiamato a riflettere ancora una volta chi oggi abbia a che fare con i libri.

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Parte della relazione tenuta al convegno “Avventure e disavventure del libro di letteratura”, Roma, 28-29 ottobre 2004, e pubblicata su “Il messaggero”, 30.10.2004

12 COMMENTS

  1. Non si scrive esaustivo, si scrive esauriente. Il buon gusto mi frena dal dire quello che penso di La Capria. Rimpiango il tempo in cui gli impiegati dell’editoria erano ignoranti e non scrivevano “esaustivo”.

  2. Gentili scienziati/lettori di NI, ignorate il mio post precedente. Trattasi di moto di malumore. Però l’affermazione di La Capria è da scorticarlo (vivo).

  3. bene, questa è la fotografia. Brutta, decisamente! Come facciamo a farne una bella, cara benedetta?

  4. Sull’affermazione di La Capria, sventolata spesso da intellettuali di ogni risma e in occasioni di ogni sorta. Che vuol dire “senza anima”? Quando non sanno più che pesci prendere, questi scrittori inutili si rifanno al misticismo, dove, si sa, nessuno può arrivare a chiedere spiegazioni, perché, appunto, l'”anima” tutti sanno che non si spiega, ovvero tutti sanno che cos’è. Cioè, “nulla”. (A differenza degli aggettivi messi al loro posto, che invece già costituiscono ottima argomentazione. Ma ormai gli scrittori inutili come La Capria argomenti non ne hanno più, perciò fanno ritorno all'”anima”)

  5. Non mi sembra il caso di stracciarsi le vesti: La Capria ha detto una cosa che tutti quanti constatiamo andando in liberia. L’editoria è un business e non potrebbe essere diversamente. L’editore deve pagare affitti e stipendi ed è logico che cerchi di pubblicare ciò che crede di poter vendere. I libri grandi, importanti, hanno quasi sempre fatto fatica a trovare un editore. E gli esempi di editoria svincolata dalla logica di mercato non mi pare che abbiano sfornato capolavori.

  6. “E gli esempi di editoria svincolata dalla logica di mercato non mi pare che abbiano sfornato capolavori” e infatti tu sei qui, Ferrazzi, sul sito dei pubblicati, degli Autorizzati che come ben dici non valgono un’acca. Bravo e auguri!

  7. E allora ? Perché dovrei aver scritto dei capolavori ? Io scrivo quello che riesco a scrivere, se mi pubblicano sono contento, se non mi pubblicano pazienza. E tu, grande e sconosciuto bravo! ?

  8. Allora: Ferrazzi è un romantico. Tardoromantico. Scrive da dio. E’ una persona onesta e dice le cose come stanno. Prende tutta la faccenda come si dovrebbe prendere. Io non ce la faccio a fare così.
    D’altra parte, però, quello che dice Tedoldi su La Capria (parlo del secondo suo intervento) mi piace. Come diceva un mio amico: “Lardo ai giovani”.

  9. Io tentavo solo di farvi rendere conto di che gente ci tocca ascoltare, oggi: La Capra… Gente citata e ricitata, discussa e ridiscussa, quando dice solo scempiaggini alla Susanna Tamaro: “senza anima”, “senza cuore”…

  10. Signori, può scappare a chiunque una frase infelice, ma Raffaele La Capria è l’autore del più felice romanzo sull’anima (già, anima) meridionale. Va bene che dobbiamo scannare i padri, ma insomma, un po’ di rispetto. Si legga (e si rilegga) piuttosto “Ferito a morte”. E si impari.

  11. Senti, Paoloni, qua i padri li scanniamo quando ce n’è bisogno. E con La Capra ce n’è biosgno, eccome!

  12. Volee fa er bravo, vatte a fa n’giro. Te do sto consiijo. Nun vorei datte n’sacco de botte e fa dispiacere a tu madre, poraccia.

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