Assalto finale alle ultime sacche di esistenza
di Sergio Baratto
Falluja, novembre 2004.
Laggiù la chiamano la città delle mille moschee. Dopo la caduta del regime di Saddam Hussein, la città era stata pacificamente occupata dalle truppe americane. Il comando militare alloggiava nella vecchia sede del partito baathista e i capitribù avevano eletto un sindaco convinto sostenitore della coalizione. Finché una manifestazione di protesta contro la presenza statunitense (200 persone) non è stata soffocata nel sangue (una quindicina di morti).
350.000 abitanti. Centinaia di migliaia di sfollati, migliaia di persone rimaste senza casa, prigioniere in una città assediata, bombardata e poi attaccata con carri armati e artiglieria pesante. L’inverno in arrivo porta il freddo anche a quelle latitudini, non si creda che in Arabia il sole scotti sempre con la medesima intensità di una bomba all’uranio.
Gli americani sono rientrati in città con il vigore e la prepotenza virile che si esigono dalle truppe mitologiche dei kolossal d’azione, benché senza colonna sonora e con gli occhi azzurri a testimoniare la loro difformità dai mongoli antichi dell’Orda. Sono entrati dopo il tramonto, all’ora in cui si ricomincia a bere e mangiare in tempo di ramadan: apprezzabile gesto di cortesia, non fosse per la generale scarsità di acqua e cibo.
Hanno occupato con facilità burrosa cinque ospedali, nonostante la vile propaganda dei fatti continui a sostenere che a Falluja ne sia sempre esistito soltanto uno. Da giorni si combatte strada per strada.
Nessuno conta i saraceni morti, come vorrebbero le norme internazionali. Non è tempo di onanismi contabili, bisogna catturare Al Zarqawi. Oh, accidenti, è scomparso! Pazienza, vorrà dire che lo riacciufferemo a Mosul.
Nel frattempo, che a nessuno passi per la testa di riandare col pensiero a Srebrenica o a Sarajevo. Sarebbe storicamente sbagliato e di cattivo gusto.
I convogli della Mezzaluna Rossa non hanno il permesso di entrare in città. Camion e ambulanze cariche di cibo, tavolette per purificare l’acqua, medicine e biancheria. Persino le mutande evidentemente non possono passare. I feriti muoiono dissanguati senza poter ricevere alcun tipo di soccorso e una volta cadaveri vanno a ingombrare le strade. Ce ne sono a centinaia, dicono, i tank statunitensi li maciullano passandoci sopra con i cingoli (per fortuna da morti non si avverte più alcun dolore). Nessuno sa quanti civili sono caduti sotto i colpi della necessità o – meno eroicamente – sotto il tetto delle proprie case. Poiché non è permesso ad alcun estraneo affacciarsi alla porta del macello, possiamo conservare in cuor nostro la speranza che nessuno di loro sia rimasto colpito e che tutto si giochi virtuosamente tra giubbe blu e tagliatori di teste.
Quanto a questi ultimi (riprendo dalla Reuters): “Sono piuttosto duri a morire [che protervia!]. Queste persone non sparano a caso [che malvagità!], ma attendono che le loro difese li raggiungano alle loro basi. È in quel momento che aprono il fuoco [astuti come serpenti!]”. Il demenziale sketch è del colonnello Mike Shupp, un idiota che in un mondo normale sarebbe inabile persino a condurre un programma di Telepadania.
Ancora dalla Reuters: “‘Non abbiamo cibo o acqua. I miei sette bambini soffrono tutti di diarrea grave. Uno dei miei figli è stato ferito da una scheggia la notte scorsa e sanguina, ma non posso fare niente per aiutarlo’, ha raccontato l’uomo, che ha detto di chiamarsi Abu Mustafa. ‘Ci sono dei corpi in strada’”.
Ma davvero vogliamo fidarci di uno che si chiama Abu Mustafa? Perché, secondo il comando militare statunitense, non c’è alcun bisogno di un’operazione di emergenza sanitaria per portare soccorso alla popolazione civile a Falluja. “Non ci dovrebbero essere rimasti civili intrappolati dai combattimenti nella città”. La battuta, naturalmente, è ancora del colonnello Shupp.
Questo accade oggi, domenica 14 novembre, nel totale silenzio della comunità internazionale. Chissà, m’interrogo mentre fumo una sigaretta alla finestra, forse invece Kofi Annan avrà detto qualcosa, forse l’Unione Europea avrà diramato qualche comunicato e io per distrazione non me ne sono accorto. Indubbiamente qualche parlamentare di sinistra qui da noi avrà presentato una mozione urgente. Strano a dirsi, ma questa certezza non mi provoca il benché minimo fremito al sacco scrotale.
Il governo italiano si trova là, al fianco dei carri armati americani. Se non fisicamente, con tutta la forza della comunanza d’ideali. La storia è questa: per quanto la si possa rigirare, il governo che ci rappresenta partecipa al massacro di Falluja.
Questo accade oggi, senza che in apparenza nessuno perda sul serio lucidità di ragionamento, equilibrio, buona creanza; senza che nessuno provi un impulso irrefrenabile a scendere per strada (una strada qualsiasi, la prima che capita a portata di piedi), gridando o al limite soltanto vomitando insulti, come i matti sul metrò di sera. Vergogna, orrore.
La mattanza continua, il campionato anche. Forza Lecce e merda al bollo dell’auto. Evviva la democrazia e abbasso il carovita.
Per quanto possiamo sbattercene i coglioni, siamo per sempre coinvolti.
Fortunatamente qualcuno si ricorda che la sezione allarmi non è in cima alla lista solo per un ordine alfabetico. E qui l’allarme è per un orrore che è diventato cosa normale.
Si doveva festeggiare. Forza Lecce.
Essì, se la sono preparata proprio bene, nessun occhio indiscreto.
Segnalo, a chi non se ne sbatte i coglioni, la feature in home su indy, e un pezzo di fontana su megachip, che si conclude così
“La guerra dilaga a pochi giorni dalla conferenza sull’Iraq che si terrà in Egitto il 22 e 23 novembre. In quella occasione occidentali ed arabi dovrebbero accordarsi sui futuri impegni in Iraq. In vista di questo appuntamento le grandi potenze mantengono un «basso profilo» sulla vicenda di Falluja. La Cina ha espresso ieri «preoccupazione», mentre la Russia ribadisce di non credere nella soluzione militare, gli europei, e l’Italia soprattutto, tacciono” (www.megachip.info/modules.php?name=News&file=article&sid=177)
La notizia l’ho appena letta:
11:06 Usa impediscono entrata Croce Rossa a ospedale Falluja.
Un convoglio di aiuti della Croce Rossa irachena è stato bloccato dagli americani a Falluja. Quattro camion con bandiera bianca, tre ambulanze e un minibus che trasportava pane, riso, acqua e medicinali non sono stati fatti entrare nell’ospedale della città sunnita e ora si dirigerà ora verso i villagi.
Ho paura. Molta paura.
– riandare col pensiero a Srebrenica
ma qualcuno ha davvero voglia di ricordare come si sono svolti quei fatti?
e non è che Serajevo c’azzecchi granché
perché poi non ricordare il ghetto di Varsavia? o la strage degli innocenti? perchè mantenersi così sul sobrio?
Sergio Baratto,
molto bellino il gioco di parole del titolo (sacche di resistenza/sacche di esistenza). Ma al di là del pur condivisibilissimo pistolotto, hai qualche idea su come ci si potrebbe muovere nel concreto?
Che palle ‘sta guerra a spizzichi e bocconi, anzi che palle ‘sta “liberazione” degli iraqeni… si dice che oggi gli americani ne han liberati solo 1200, tra i militari… ma i civili liberati saran molti di più, meno male. settimana scorsa un’inchiesta americana diceva che facendo un calcolo approssimativo, considerando anche falluja (dove è difficile fare stime precise), i liberati erano intorno ai 200.000. pochini. in questi giorni ne abbiamo aggiunti qualche migliaio, ma se si calcola il rapporto tra i liberati e la popolazione totale iraqena, circa 24 milioni di persone, risulta che la liberazione è avvenuta solo all’uno per cento circa. di questo passo ci metteremo molti anni a liberarli tutti… non si potrebbe passare a metodi più risoluti? eccheccazzo!
caro Sergio questa guerra giorno per giorno ha realizzato tutte le sue peggiori promesse: l’avevano venduta come la migliore: necessaria, giusta, breve, salutata in modo unanime dal popolo vittima della dittaura; alcuni di noi sapevano che non era necessaria, che non era giusta, e immaginavano che non fosse breve né risolutrice.
Detto questo, in quanto singoli, la nostra impotenza è totale. O quasi. Cio’ che rimane in nostro potere, forse l’unica cosa, è quello di sollecitare le persone che stanno vicine a noi, quelle che hanno giustificato e che giustificano ancora, a rivelare giorno per giorno il loro più incrollabile cinismo. E neppure questo è un compito cosi facile. Venite cinici, venite. Faremo fronte al vostro sarcasmo. Presentate ancora una volta il vostro buon senso spietato. Quel buon senso che conta i morti solo da una parte. Detto questo, credo che la realtà politica dell’Iraq sia oggi talmente devastata, che nessuna soluzione sarà a breve termine giusta e indolore. Ma neppure questo giustifica la strage di civili fatta in nome della democrazia.
I No Global, qui a Venezia, sono andati a cena da Cipriani all’Harry’s Bar (vestiti bene) e alla fine se la sono svignata lasciando il biglietto “PAGA LA NATO”.
Se non è lotta dura questa!
c’è anche un cinismo “oggettivo”, in cui tutti, in quanto spettatori di orrori a debita distanza, siamo immersi; dal nostro mondo ancora abbastanza sicuro, ancora abbastanza svagato, guardiamo gli altrui baratri, e poi si va a fare l’amore, a mangiarsi una carbonara, a bersi una birra. E qui siamo tutti. Non solo. Ma questa distanza sappiamo che ci salva anche. E sulla condizione di spettatore, che denuncia o meno, indignato o meno, alcune cose importanti sono state scritte. Eppure il discorso non finisce qui: in un’assoluzione o colpevolezza generalizzata. Io comincerei invece da qui con un punto: capire, cercare di capire quello che si vede, malgrado la distanza (malgrado il fatto di volerla conservare questa distanza). E quindi voler vedere di più, per capire meglio. Non basta, ma da qui si parte, da qui forse si comincia ad uscire dal cinismo.