Ponti e pontefici
Sono contrario alla costruzione del Ponte sullo Stretto.
Ci sono molti motivi per esserlo, a cominciare dalla puzza di Opera di Regime che emana (obiezione politica), proseguendo per i costi immensi a fronte dei benefici modesti, per la priorità detenuta da altre opere più urgenti (obiezioni economiche), per la tecnologia incerta, forse arrogante (obiezione tecnica), per la Mafia che già si lecca i baffi (obiezione criminologica?), eccetera.
Infine sono contrario per il vulnus, non solo visivo, che porta al “paesaggio” dello Stretto (obiezione ambientale): quest’ultimo punto è più importante degli altri.
Ciò è tanto più vero quanto più ci si allontana dal concetto generico e forse un po’ vuoto (ma non tanto) di “paesaggio”, per introdurre nel ragionamento l’idea di Luogo: fisico, mitico, geografico, tettonico, storico, eccetera.
Dunque non c’è solo un’obiezione ambientale, c’è una forte obiezione culturale.
Un’opera del genere crea paesaggio.
A causa della sua mole è essa stessa elemento e figura primaria di ogni scenario, come dimostrano ponti di dimensioni analoghe realizzati altrove: il Brooklyn Bridge, il Golden Gate, il Verrazzano, eccetera.
Anita Seppilli pubblicò con Sellerio, nel 1977, un libro intitolato Sacralità dell’acqua e sacrilegio dei ponti.
Il breve saggio di Georg Simmel, Ponte e porta è anteriore di molti decenni ed è famosissimo (G. Simmel, Saggi di estetica, Liviana Editrice, Padova, 1970).
Quello che scriverò qui di seguito proviene essenzialmente dalla lontana lettura di questi due testi, per me fondamentali.
Seppilli afferma che ogni entità equorea, sia essa un fiume o uno stretto, fu considerata in antico un’istituzione sacra, al punto che per costruire un ponte erano necessari complessi rituali propiziatori che potevano anche comportare sacrifici umani.
La carica di sovrintendente alla manutenzione del ponte, il pontifex, era anche e soprattutto una carica religiosa.
Il Papa, in quanto “Sommo Pontefice”, ancora se ne fregia: sommo costruttore di ponti.
Se il Ponte sullo Stretto si farà, anche l’attuale triste & deleterio Presidente del Consiglio dei ministri potrà un giorno dirsi pontefice.
“Ogni discontinuo della terra, (…), è carico di sacralità”, eccetera, ogni azione che abbia come obbiettivo l’annullamento del discontinuo, è virtualmente empia, scrive Seppilli.
Ciò che gli dei hanno separato, l’uomo non unisca.
Tutto questo innanzi tutto per dire semplicemente che la costruzione di un ponte non è un’operazione neutra, cioè puramente tecnico-estetica, ma richiama e coinvolge significati più profondi, afferenti il rapporto degli umani con il mondo dato.
Il saggio di Simmel condensa in pochissime pagine un ragionamento serrato e molto fecondo, di cui cito soltanto: “Il ponte diventa un valore estetico, quando esso porta a compimento l’unione del separato, non solo nella effettualità e per la soddisfazione di fini pratici, ma la rende anche immediatamente visibile” (pag. 4).
Dunque un ponte fonda la sua estetica per rapporto alle due sponde tra le quali è costruito.
Il ponte è un segno che completa e integra il paesaggio, connette ciò che vediamo come separato, ne misura e ne rende evidente al tempo stesso la distanza e infine crea un luogo con la sua stessa presenza.
Ma ciò può accadere solo se lo spazio che separa le due rive possiede dimensioni e caratteristiche tali da farcele percepire come “separate”, altrimenti il ponte – come dimostra per esempio il Brooklyn Bridge – si pone esso stesso come oggetto geografico terzo, assumendo dimensioni geologiche di rango confrontabile col dato naturale.
A questo punto, cioè varcato questo limite dimensionale, le due sponde, già troppo lontane per essere percepite come la frattura di un continuum, cominciano una vita nuova e perversa, esistendo per noi solo in funzione del ponte.
È il caso del Ponte sullo Stretto, che non unisce ciò che percepiamo come separato, ma lo aggioga, lo sottomette, lo cancella, riducendolo a pretesto per la propria soverchiante esistenza politica, per il dispiegamento della sua essenziale utilitas mediatica.
Da spazio servito, che richiede il pedaggio del trasbordo (carico di poesia), lo Stretto diviene uno spazio servente, che paga un tributo altissimo di figura ad un’opera soverchiante.
Il
Le due sponde della Stretto sono il margine di due mondi diversi, sono approdi che si fronteggiano dai lati opposti di un meraviglioso, azzurro, braccio di mare.
La profanazione e il “sacrilegio” impliciti in ogni ponte – e forse in ogni opera che modifichi i dati geografici del mondo, così come pensiamo di averlo trovato (anche se questa formulazione non ha senso) – viene compensata non solo dall’utilitas dell’opera, dalla bellezza e dall’arditezza del manufatto, ma anche dalla venustas insita nello svelamento della separatezza delle due sponde e nella loro ri-unificazione (Simmel).
Però, e qui sta il punto fondamentale dell’obiezione filosofica, le sponde dello Stretto di Messina non sono “separate” dall’acqua, sono parte integrante di quel mare, ne costituiscono il confine e i limiti.
Quella non è terra attraversata e divisa dall’acqua, si tratta invece di due diverse Entità geografiche che si fronteggiano di qua e di là di un breve ma profondo tratto di mare, di una vera frattura del continuum geologico, di un’autentica antichissima istituzione storico-geografica.
Il Ponte costituirà la profanazione berlusconiana dello Stretto, unirà due mondi diversi e lontani tra loro, annullando qualsiasi fatica nel passaggio dall’uno all’altro, portandovi l’incultura pre-agonica e mass-mediatica di questa tremenda stagione politica.
Con la sua mole ne ucciderà non solo l’autonomia fisica e la singolarità mitica, ma anche l’unicità estetica.
Una cultura insediata, che non sia terminale come la nostra, dovrebbe saper riconoscere e rispettare le istituzioni geografiche, come parte integrante del proprio corpo fisico.
[immagine tratta da www.terrelibere.org/noponte]
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Come l’avessi scritto io, Tash.
Di tutte le cose che sono state dette, tra l’altro, l’unica che pare disinteressare tutti è la qualità estetica del progetto presentato. Come se una cosa di un impatto di tale veemenza sia indifferente se sia anche brutta o bella.
Ma il discoro è lungo. Di certo le ragioni economiche sono talmente soverchianti che costruirlo è un vero suicidio. Con quei soldi si rimetterebbeo a posto TUTTE le strade e i nodi infrastrutturali del Sud Italia. E avanzarebbero anche dei soldi.
Non capisco l’esordio del commento di Biondillo, comunque:
Penso che questo pezzo di Pecoraro/Tashtego sia un bell’esempio di come si possa praticare una scrittura impegnata, riflessiva e colta su un problema cogente ma strumentalizzato e banalizzato all’estremo (fino cioè a diventare una chiacchiera da parrucchiere, un mito propagandistico, un luogo comune), senza rimanere confinati entro quel mero discorso politico d’attualità che rende mediocre e caduca tanta prosa pseudo-letteraria e giornalistica corrente. Pecoraro affronta il problema “in grande”, lo eleva in un orizzonte storico, intellettuale, etico ed estetico più ampio dell’eterno presente telecratico e, in questo modo, ridesta tanto più l’indignazione nel lettore sensibile.
Ma quanti ne sono rimasti, di lettori sensibili?
Nel senso, Zangrando, che sottoscrivo ogni parola, ogni virgola, come se l’avessi scritto io.
Sono, in pratica, d’accordo con te. E’ un bel pezzo, questo.
sono un fan della Seppilli e quindi apprezzo enormemente l’argomentazione sul sacrilegio dei ponti. E poi:
Così per lo stretto navigammo gemendo,
da una parte era Scilla, dall’altra la divina Cariddi,
paurosamente ingoiava l’acqua salsa del mare;
ma quando la vomitava, come su grande fuoco caldaia,
tutta rigorgogliava sconvolta: dall’alto la schiuma
pioveva giù, sulle cime d’entrambi gli scogli.
E quando ancora ingoiava l’acqua salsa del mare,
tutta sembrava rimescolarsi di dentro, e la roccia
rombava terribile; in fondo la terra s’apriva,
nereggiante di sabbia. Verde spavento prese i compagni.
Guardavamo Cariddi, paventando la fine,
e proprio in quel punto Scilla ghermì dalla concava nave
sei compagni, i più vigorosi per la forza del braccio.
… … … … … … … … … …
(Odissea, XII, vv. 234 sgg.
Bravo, Sparzani! E grazie, Biondillo: tutto chiaro.
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