Parola Plurale (2)
64 poeti italiani fra due secoli
a cura di Giancarlo Alfano, Alessandro Baldacci, Cecilia Bello Minciacchi, Andrea Cortellessa, Massimiliano Manganelli, Raffaella Scarpa, Fabio Zinelli e Paolo Zublena
7. Col gusto per la sintesi e la provocazione che lo contraddistingue, Sanguineti liquida la questione in maniera spiccia: «Dopo gli anni sessanta vengono a mancare due aspetti fondamentali: le tendenze e gli autori importanti». Tutte quelle seguìte alla neoavanguardia non sono che «proposte reazionarie» (Sanguineti 2004, 101).
Se avessimo solo il sospetto che si possa condividere quest’assunto, sarebbe stato assurdo fare questo libro. Invitare alla sua lettura, e a verificare di persona se davvero vi manchino autori importanti, dovrebbe poter bastare. Ma ci si riservi ancora qualche cenno all’ordinamento interno dell’antologia. La prima cosa che si deve dire è che non vi figurano, effettivamente, raggruppamenti per tendenza. Da questo punto di vista, crediamo definitivamente acquisita l’idea di Mengaldo, di una successione cronologica che dia conto (acquisendo come indicatori non le date di nascita dei poeti bensì le loro prime pubblicazioni di rilievo), oltre che della composizione, anche dell’evoluzione della lettura, cioè della ricezione, della
Ancora una volta per limiti di spazio, non abbiamo potuto documentare (come sarebbe stato evidentemente opportuno, dati questi presupposti) l’attività, in questo stesso periodo, dei poeti delle generazioni precedenti; confidando comunque che, nella lettura della nostra, precedenti antologie possano essere tenute presenti (s’intende dire, fisicamente presenti). Ma, proprio in considerazione della sostanziale sincronicità di differenti intertestualità, abbiamo voluto comunque scandire il «racconto» antologico in quattro capitoli, tali comunque da non far forza al generale ordinamento cronologico. Non si tratta di tendenze ma appunto di momenti: simultaneità di ricerche che appaiono, allo sguardo di dopo, casualmente o meno consentanee.
Il primo capitolo – sin dal cartellino che lo intitola – si riferisce al panorama disegnato dal Pubblico della poesia e, in misura minore, dalla Parola innamorata che, a cura di Giancarlo Pontiggia ed Enzo Di Mauro, come detto segue tre anni dopo: quest’ultima fa in tempo, infatti, ad accogliere il giovanissimo Magrelli due anni prima del suo esordio in volume (mentre al clima degli anni Settanta, a loro volta facendosi notare prima del “libro”, sono riconducibili autori, come D’Elia e Prestigiacomo, i cui esordi si collocano all’inizio del decennio seguente; e di Vivian Lamarque si parlava già nello Schedario del Pubblico della poesia: la cui – discutibile – revisione a trent’anni di distanza accoglie anche, infatti, suoi testi).
Se fino a questo punto, dunque, raccogliamo le fila di una narrazione in parte già sperimentata, le cose evidentemente si complicano nel “capitolo” seguente. Nel quale sono contenuti poeti i quali hanno tangibile consapevolezza di essere posteriori, rispetto a una soluzione di continuità. Il titolo del primo libro di Remo Pagnanelli (un autore che, anche come critico, si mostra il più pronto a riflettere, fortinianamente, sulla valenza simbolica di un nuovo inverno collettivo: cfr. Galaverni 2002, 103 sgg.), Dopo, parla – in questo senso – con chiarezza persino didascalica. È un fatto che siano autori, questi, per i quali si pone con una nuova essenzialità – e diciamo pure aporeticità –, appunto, il problema della forma. Al quale rispondono, certo, in maniere diversissime. Per un Beppe Salvia che adotta contenitori metrici e strofici della tradizione con intenti di restaurazione classica (o forse si dirà, meglio, “neoantica”), vagheggiando per questa e altre vie un impossibile ritorno allo stato d’innocenza (ed è in questo senso che, dopo la sua precoce scomparsa, l’ambiente romano ne mitizzerà la figura), quello che in apparenza è lo stesso gesto, di recupero e riciclaggio di una tradizione pre-moderna (a partire da un’autentica forma-feticcio, auraticamente connotatissima, come il sonetto), si colora di valenze assai diverse col luttuoso e vampiresco manierismo di Patrizia Valduga, irriducibile peraltro a qualsiasi possibile retorica “di gruppo”, e con lo straniamento violentemente sperimentale dei poeti riunitisi nel sodalizio K.B. (Durante, Frasca, Frixione e Ottonieri), attivi sin dai primi anni Ottanta, che non disdegnano il detournement di istituzioni formali date, cui avevano abituato certe pratiche neoavanguardistiche.
Altro che innocenza! Qui la forma feticizzata viene adottata, a viva forza, proprio in virtù della sua artificialità: che acquista un valore dichiaratamente contrastivo, di opposizione e resistenza nei confronti di una condizione storica nella quale conduzioni del linguaggio più disinvolte rispecchiano la disinvoltura con cui si deteriora, nello stesso volgere d’anni, il più generale tessuto dell’esistenza associata. Il più lucidamente politico di questi autori, Gabriele Frasca, cita Adorno e Beckett per tornare inopinatamente a parlare di stile: come «innanzitutto un’elezione etica» che non arretra di fronte alla minaccia di risultare sgradevole (in quegli anni, la più spaventosa delle onte): «tale sgradevolezza è solo il risultato di chi non vuole usare il cloroformio (quell’intronata piacevolezza che sortisce da un’indotta perdita di sensi); e le oscurità che gli si rimproverano sono le tenebre in cui sono stati confinati i suoi possibili lettori» (Frasca 1990, 145).
Proprio a pratiche di “recupero” di tradizioni diverse – sino alla parola d’ordine del «portmodernismo critico» – si appellano la maggior parte degli autori che, qualche anno dopo, accettano la sfida di nuovi movimenti d’avanguardia: dal gruppo della rivista «Baldus» a quello dei genovesi di «Altri luoghi» (che confluiscono nella sfortunatissima sigla «Gruppo 93»), sino a esperienze più isolate e residuali. Le quali si elaborano tutte a partire dai tardi anni Ottanta per proseguire, sempre più stancamente, sino alla seconda metà del decennio seguente (frutti tardivi, con libri d’esordio spiazzantemente fuori stagione, sono quelli di Durante e di Berisso). Cioè sino all’apparire della successiva voga anti-autoritaria e anti-istituzionale (contraddittoriamente confezionata, però, tutta all’interno dell’industria culturale): quella dei narratori cosiddetti “cannibali”. È la materia contenuta nel terzo – certo quello maggiormente sospettabile “di tendenza” – dei nostri “capitoli”. Abbiamo in effetti isolato dal continuum cronologico, fra le esperienze sincroniche che si annoverano negli anni in questione, questa che però è a tutti gli effetti una controtendenza: non tanto perché – alludendo a un’ottica appunto capovolta, rispetto a quella del Gruppo 63 – il Gruppo 93 prese il nome non dalla propria data di fondazione bensì da quella di programmatico scioglimento, quanto perché proprio nei confronti delle circostanze storiche, così radicalmente mutata dai primi anni Sessanta ai secondi Ottanta, a quell’altezza l’ottica avanguardistica non poteva più ritenere di assecondare, e men che meno indirizzare, un vettore della storia – una tendenza, appunto (come in effetti riconosciuto, a posteriori, dallo stesso Sanguineti). Semmai reagendo, con urticata e spesso non inefficace insofferenza, all’andazzo in corso.
Apparirà senz’altro manchevole di “tesi”, invece, il nostro “capitolo” conclusivo, che invoca al contrario il valore dell’apertura in varie direzioni, al momento ancora non del tutto decifrabili. Si noterà anzitutto un certo allargamento della soglia d’ingresso ai poeti delle ultime generazioni. Con questo s’intende non solo scommettere sul futuro (che è comunque ufficio non ultimo, crediamo, della critica che si continua a definire “militante”, com’è in ogni caso quella di chi metta assieme un’antologia), ma altresì reagire agli eccessi di cautela che mostrano anche le antologie più programmaticamente rivolte a documentare il presente. A differenza di tutte le altre, abbiamo dunque risolutamente evitato di fissare un terminus ante quem. L’ultimo esordio documentato data al 2002 di Massimo Sannelli, e l’ultima data di nascita, per una simmetria che si garantisce però casuale, al 1975 di Paolo Maccari. Come unica restrizione, s’è deciso di prendere in considerazione solo testi editi (in forma cartacea e/o elettronica) da autori che abbiano pubblicato almeno una raccolta in volume (cartaceo).
Non ci dovrebbe neppure essere bisogno di dire che prescindiamo, così, dall’ipocrita distinzione (di Cucchi-Giovanardi 2004, XLIV) fra «editori a diffusione nazionale» e «editori a pagamento, che stampano un centinaio di copie da distribuire ad amici e parenti» (chiunque abbia anche minima confidenza col mondo della poesia contemporanea sa bene come autori rispettati e riconosciuti abbiano scelto di restare fedeli a sigle editorialmente minori – come per esempio Crocetti e Marcos y Marcos o, più di recente, Zona, Oèdipus o d’If –, le quali sono com’è ovvio esattamente l’inverso della triste truffa in cui si traduce, il più delle volte, l’editoria a pagamento: fingere di non conoscere questa differenza, così insultando la passione disinteressata di chi anima queste benemerite realtà, non è semplice cattiva coscienza; ha qualcosa di protervo e persino inquietante). Questo criterio impedisce di ammettere autori dalla storia editoriale ancora insufficiente, sui quali però gli antologizzatori credono però ugualmente opportuno richiamare l’attenzione: è il caso di Alessandro Broggi, Pierluigi Cappello, Ivan Crico, Andrea De Alberti, Alessandro Di Prima, Michele Fianco, Sebastiano Gatto, Massimo Gezzi, Ermanno Guantini, Federico Italiano, Enzo Mansueto, Neil Novello, Vincenzo Ostuni, Laura Pugno, Andrea Raos, Elio Talon, Filippo Timi e Sara Ventroni.
8. Giunti al termine del nostro viaggio, se non proprio una “tesi”, non ci si esime dal suggerire, di tutta questa “storia”, almeno un “sugo”. L’Idea di Forma, s’è detto, è stata per qualche tempo messa in fuga. Diciamo che s’è presa una vacanza, e aggiungiamo che probabilmente ne aveva bisogno. L’ultimo trascorso è stato per lei un secolo, ancorché “breve”, sin troppo intenso. Giusto all’inizio di questo lungo periodo sabbatico diceva uno dei suoi massimi portabandiera, Andrea Zanzotto (scrivendo in un numero speciale del «verri», nel 1974), che se si sente di vivere un «“tempo di nessuno”» – così «come esiste una terra di nessuno» – non si devono per forza nutrire sentimenti catastrofici. È forse proprio un tempo come questo, invece, che consente alla poesia di avvenire «come avvengono, prima di una colpa o di un merito, le nascite». In tal modo si eviterà la sirena della deriva, e comunque «la poesia passerà avanti, e per lunghi capziosi viziosi (anche giri) arriverà ad essere “utile”, a servire a tutti nel modo più incerto ma fraterno, nel modo più dimesso ma vero, senza aver servito nessuno» (Zanzotto 1974, 1204).
In realtà, lungo tutti questi trent’anni, un’urgente interrogazione sulla forma – sul suo significato, sulla sua legittimazione, sul suo valore – non è mai mancata, crediamo, in nessuno degli autori qui presentati. C’è chi ha inteso liberarsi del problema confliggendo con essa (la soluzione indicata dal Pasolini estremo, e di chi l’ha seguito su questa strada), e c’è chi ostinatamente ne ha fatto un mandala separato dalla storia, che però ne rispecchiasse tutte le violenze (la soluzione di Zanzotto, appunto). C’è chi l’ha sacralizzata e chi ne ha celebrato le esequie. Ma le ultime generazioni hanno capito sino in fondo che la sua presenza è inaggirabile – seppure, al limite, in negativo. Per un Frasca o un De Signoribus che ne hanno fatto un’acuminata divisa etica ed esistenziale, ci sono autori non meno consapevoli (i primi che vengono in mente sono Stefano Dal Bianco e Umberto Fiori) che hanno sentito soprattutto l’insoddisfazione, la costrizione del suo apparato difensivo-distintivo. Ma anche chi ha dedicato tutte le sue energie alla costruzione di uno stile semplice sa benissimo, oggi, che anche quello (se non soprattutto quello, in un certo senso) è uno stile. Una scelta, cioè: e – dunque – un atto d’intransigente autoconsapevolezza.
Diceva Zanzotto, profetico: «la poesia sfugge, ma come “se volesse ritornare”» (ivi, 1201). Quello a cui assistiamo, così almeno ci pare, è davvero un nòstos: struggente come quello del mito. A dimostrare una volta di più, come sempre, che la poesia serve, eccome: serve a tutti, appunto senza servire nessuno. Negli ultimi trent’anni, ha costituito parte non esigua delle riserve di immaginario del nostro paese. S’è confrontata con la sua storia, passata e in corso. Ha sostenuto il governo della nostra lingua in un momento nel quale, nel mondo, essa è ridotta, per altri usi, a poco più che un dialetto. L’ha fatto mantenendo vivo il suo rapporto con la tradizione: proprio perché ha mantenuto sempre aperta l’ipotesi – la speranza – del nuovo.
Non sta a noi dirlo, si capisce, ma sia lecito almeno proporlo: l’effetto conclusivo di queste lunghe e travagliate stagioni di lettura e discussione è che l’ultima scrittura in versi si dimostra, allo stato attuale, la più viva che circoli oggi. Se le cose stanno davvero così, finiamo per sentirci un po’ più vivi tutti.
*
Parola plurale
Indice
Odissea della forma poetica, 1975-2005
I. Deriva di effetti
Io è un corpo, di Andrea Cortellessa
Il domestico che atterrisce. Tematizzazioni del quotidiano, di Paolo Zublena
Cesare Viviani [p. z.]
Giuseppe Conte [a. c.]
Maurizio Cucchi [a. b.]
Michelangelo Coviello [g. a.]
Vittorio Reta [c. b. m.]
Patrizia Cavalli [g. a.]
Milo De Angelis [p. z.]
Biancamaria Frabotta [a. b.]
Michele Sovente [g. a.]
Paolo Prestigiacomo [g. a.]
Vivian Lamarque [a. c.]
Gianni D’Elia [a. b.]
Valerio Magrelli [c. b. m.]
II. Ritorno alle forme
Il disprezzo del rimedio. (Ri)pensare il tragico, di Alessandro Baldacci
Stili semplici, di Raffaella Scarpa
Patrizia Valduga [a. c.]
Tommaso Ottonieri [m. m.]
Gabriele Frasca [g. a.]
Francesco Scarabicchi [g. a.]
Ferruccio Benzoni [p. z.]
Mario Benedetti [r. s.]
Beppe Salvia [g. a.]
Claudio Damiani [r. s.]
Dario Villa [a. b.]
Remo Pagnanelli [p. z.]
Riccardo Held [g. a.]
Fabio Pusterla [a. c.]
Umberto Fiori [a. c.]
Eugenio De Signoribus [g. a.]
Franco Buffoni [a. b.]
Enrico Testa [p. z.]
Pietro Tripodo [a. c.]
Alessandro Fo [a. c.]
III. Rimessa in moto
Deformazioni. Comico, grottesco e altre vie, di Massimiliano Manganelli
Ancora avanguardie?, di Cecilia Bello Minciacchi
Giuliano Mesa [a. b.]
Marcello Frixione [m. m.]
Lorenzo Durante [m. m.]
Lello Voce [m. m.]
Mariano Bàino [m. m.]
Paolo Gentiluomo [m. m.]
Marco Berisso [c. b. m.]
Rosa Pierno [g. a.]
Antonio Maria Pinto [c. b. m.]
Antonello Satta Centanin-Aldo Nove [a. c.]
Rosaria Lo Russo [c. b. m.]
IV. Apertura plurale
Dialetto e post-dialetto, di Fabio Zinelli
Modelli «mediali», di Giancarlo Alfano
Franca Grisoni [a. c.]
Emilio Rentocchini [g. a.]
Luciano Cecchinel [f. z.]
Nino De Vita [m. m.]
Giovanni Nadiani [m. m.]
Gian Mario Villalta [f. z.]
Stefano Dal Bianco [p. z.]
Antonella Anedda [a. b.]
Paolo Febbraro [a. c.]
Giacomo Trinci [a. c.]
Vitaniello Bonito [p. z.]
Edoardo Zuccato [f. z.]
Nicola Gardini [f. z.]
Andrea Inglese [c. b. m.]
Fabrizio Lombardo [c. b. m.]
Elisa Biagini [a. c.]
Giovanna Frene [p. z.]
Paolo Maccari [p. z.]
Florinda Fusco [g. a.]
Flavio Santi [f. z.]
Marco Giovenale [c. b. m.]
Massimo Sannelli [f. z.]
Bibliografia generale : sulla poesia italiana contemporanea
: altri testi citati
C’è anche un problema di forma comunicativa da parte dei critici. Per chi è fatta questa antologia? Per altri critici? Per tecnici? Per la schiera di aspiranti mai in antologia? Ho appena pubblicato una piccola riflessione dal titolo “A chi parlano oggi i critici?” sul mio blog.
Non so se è solo un problema mio.
Io ho trovato la tua (interessante) riflessione a fatica, qui.
http://www.upsaid.com/palomar/index.php?action=viewcom&id=260
letto l’articolo. Ho le vertigini. Ma veramente scrivono così, i critici.
effeffe
Incollo qui il breve pezzo di Palomar. Si potrebbe anche partire da qui. Io avrei alcune cose da rispondergli, sia a difesa dei versi di Gentiluomo, ad esempio, sia per articolare ulteriormente la sua critica. Ma credo che un problema sul linguaggio ci sia davvero. E valga quindi la pena di parlarne. Sapendo comunque che l’estrapolazione ha sempre buon gioco a estremizzare certi aspetti…
“A chi parlano oggi i critici?
Si è parlato nei giorni scorsi del tema ricorrente della morte della letteratura (un ottimo indice della discussione su Vibrisse). Un altro tema che ritorna spesso è che la poesia non vende o che si legge pochissimo. Qual è la possibilità di un critico quando ha uno spazio editoriale aperto (che sia esso libro o rivista)? Quella di proporre il meglio che ha letto e studiato in un lasso di tempo, ha la possibilità di mettere in atto le sue analisi, cioè filtrare una parte della produzione poetica e darci la sua versione. Può avere un pubblico, esercitare il suo ruolo. Bene. Sto leggendo l’antologia “Parola plurale” curata da otto critici che presenta sessantaquattro poeti. Ha una copertina vagamente pop e credo si rivolga ad un pubblico ampio, non certamente ad una gruppo di addetti ai lavori. Cito alcuni passaggi, e ce ne sono molti, che ho trovato e che non credo possano aiutare la diffusione della poesia
-“Anzitutto il combinato disposto del crepuscolarismo più volontariamente intenerito – la religione laica del piccolo, del preterito, dell’indifeso – e del più scintillante virtuosismo ‘fabbrile’ (sol che si sostituisca al corrusco artiere carducciano l’immagine più vittoriana, o forse Biedermeier, del minuzioso ricamìo di centrini)”. [Andrea Cortellessa]
-“Al suo esordio questo trentunenne milanese (dunque già segnato da una certa maturità biografica) metteva in mostra, in maniera del tutto originale, e con chiaro possesso critico della propria multiforma materia, i tratti di un crepuscolarismo nevrotizzato, di un’anomia metropolitana sempre più incisa sui nervi, discorsivizzata dalla psiche”. [Alessandro Baldacci]
Oltre a segnarmi molti errori nel mio programma di videoscrittura, cosa significano queste parole? Non il significato di ognuna di queste, ovviamente, ma l’atteggiamento, il modo di rivolgersi al pubblico mi interessa. C’è in questa scrittura un tentativo di alzare polvere là dove la cosa da recensire è più vaga, difficilmente contestualizzabile e di scarso valore?
Ma oltre a questo davvero si sentiva la mancanza di versi come questi?
“del saltimbanco vogliam l’allegria ch’or s’appiglia
a pretesti futili e onesti o rosica l’inganno nè mai s’impiglia
alla ruota di destra dove fortuna s’arrovella più d’una fiata”
oppure
“Sao ko kelle tette ko kelli seni son
coppette pascole da munta muccca vacca
scolate latte pari a patte paste colli
maritozzi farciti bignè a la crema molli”
Sono queste le ricerche linguistiche che ci mancavano? Nel 2005? Sono queste le cose interessanti? Signori che ancora impiegano le loro forze su strutture formali senza avere nulla da dire? Nel 2005?
Vorrei che si smettesse di far passare l’aeroplano turistico con lo striscione “la letteratura è morta” ,o “la poesia non si legge più”, o “Ci sono più poeti che scrittori”. Vorrei che coloro che decidono chi pubblicare, chi studiare e chi presentare al mondo dei lettori, si prendessero per primi le loro responsabilità.”
PALOMAR
Mi sembrano opportune al riguardo queste considerazioni di Franco Fortini (1974):
“La nostalgia del discorso quotidiano, pratico, diretto e «chiaro» è anche, o dovrebb’essere, augurio e lotta per un’unità, per una restituzione dell’uomo a se stesso. Ma non si lotta con i linguaggi settoriali e contro ciò che ci divide, restando prima di quei linguaggi e non oltrepassandoli. Come dicono anche molte antiche favole, se non si percorre la via buia della non-chiarezza, dell’indagine, della ricerca, sarà difficile emergere fuori dell’ideologismo (e del brodo verbale progressista) non dirò verso la «scienza», parola che userei con molta parsimonia, ma verso un più vigilato e «chiaro» pensiero. I linguaggi settoriali ronzano intorno alla nostra inestinguibi¬le nostalgia di immediatezza: sindacalismo, sociologia, economia, pedagogia… Tutto. Di qui il dilemma: vivere di analisi già fatte, di sintesi che invecchiano, che recitano una unificazione ormai troppo ripetuta o affrontare ancora l’analisi, la divisione, i linguaggi settoriali, rischiare di essere meno comprensibili e compresi, essere accusati di «intellettualismo», di «distanziarsi dalla base»? Accuse consuete a chi lusinga negli altri certezze e fedeltà, anzi fedi, che una volta aiutarono a vivere e a morire. Accuse di dimenticare le forze oggettive, reali, storiche; quando semmai si tratta proprio di decifrarle. Accuse che, pur nel loro errore, rammentano la verità della stanchezza, della consunzione, di chi torna a casa e si siede di schianto davanti al televisore e gli reagisce con la sua rabbia meccanica e inutile.”
e poi partirei da qui, dalla citazione opportuna di Fortini, scelta da Giampiero Marano (grazie!)
richiesta di un linguaggio chiaro e sobrio//consapevolezza della stratificazione dei saperi, che il critico deve comunque attraversare: perché sta “decifrando” un reale del testo, e la storia che in esso emerge, che non si dà mai come evidenza, pienezza, afferrabilità…
complimenti a effeeffe Forlani.
la tua perfomance a Romapoesia dà tutta la misura di cosa sia oggi un intellettuale!
complimenti davvero.
Il “farsi capire” non figura tra le preoccupazioni principali dei curatori dell’antologia. E questo configge con l’evidente obiettivo di rivolgersi a una platea ampia (tenuto conto, naturalmente, di cosa può significare “ampia” per il pubblico della poesia).
È vero, il “semplice e chiaro” presenta i rischi della banalizzazione e dell’ideologia. C’è una complessità non aggirabile.
E però ci può essere anche un linguaggio volutamente oscuro e fumoso.
Nell’espressione complessa e fumosa a volte si intravede un certo compiacimento intellettuale.
Che si può esprimere anche attraverso l’ironia.
Non è ironia il “combinato disposto”?
Appunto: che tipo di lettore è il destinatario di questa ironia?
*confligge*, non “configge”.
____________
Ho controllato. Il “combinato disposto” è riferito ad Alessandro Fo. Il quale è presente, sì, ma non viene certo osannato…
Rischio il pettegolezzo.
Il trentunenne milanese affetto da crepuscolarismo nevrotizzato è Maurizio Cucchi.
Se ci si limita a questi due casi, direi che la scrittura un po’ barocca (e ironica) serve a segnalare la distanza “affettiva” del critico dal poeta oggetto dell’esame critico.
La lettura d’insieme dei pezzi di Cortellessa e Baldacci non è poi così ardua.
Secondo me sono più difficili proprio le singole parole, è più difficile il lessico dello specialista. Il giudizio complessivo sui poeti è invece comprensibilissimo.
Spero di non deluderti o Ludovico, se ti rispondo
uno) che non sono un intellettuale, e dunque non posso essere un intellettuale d’oggi
due) che non ho fatto alcuna performance
tre) che spero vivamente ti sia procurato una copia di Sud, a prescindere
effeffe
ps
ma tu hai gridato Bang bang?
Provocazione debole, dichiarare il non-essere-una cosa ecc… mentre si è, lasciamo perdere, son giochetti
sud è un oggetto, con varie ramificazioni, buone ottime meno buone.
Tu sei una persona, fai delle cose, rispondi di queste cose. Non mi interessa la polemica personale, educatamente dico: …giuda ballerino!
si mi pare di averlo gridato, ma evidentemente era la mira sbagliata
tornando a bomba: ho finito di leggere l’introduzione di Parola Plurale: è fatta davvero bene; non la trovo per nulla difficile da leggere; e il discorso che fa mi sembra indispensabile per avvicinare, non proprio inermi, la poesia odierna; anche per i ricchi rimandi bibliografici;
Sono d’accordo e mi correggo. Se si legge un pezzo (un intervento critico) per intero, il “difficile” si riduce di molto.
Dice che Fortini si autosoprannominasse: Mi spezzo, ma non mi spiego (oppure erano i suoi allievi a chiamarlo così, e non è che la cosa abbia poi tutta questa importanza). Alcuni degli studiosi e ricercatori che hanno messo insieme la gigantesca Parola parole non si spiegano e nemmeno si spezzano, per l’oggettiva difficoltà che incontra un essere vivente del peso di 100 chili su per giù non si dice a spezzarsi, ma anche solo a incrinarsi una falange. Altri, come lo Zublena, pare che scrivano difficile, ma la colpa è della materia con cui di solito hanno commercio – nel caso, la storia della lingua. In ogni caso, le 1000 e dispari pagine di questo libro non valgono manco di lontano le circa 400 del Dopo la lirica compilato da Enrico Testa.
Anche per me “Dopo la lirica” è una buona antologia.
Tra quelle dei poeti-critici è probabilmente la migliore.
Tuttavia gli “ultimi” – i 30/40enni e i poeti non esattamente “giovani” scoperti di recente (Benedetti è il caso più clamoroso) – in “Dopo la lirica” non ci sono.
In qualche modo la scelta di Enrico Testa è più cauta. I nomi sono quelli già presenti in altre antologie. Le “scoperte” – o meglio le “riscoperte”, benché assai interessanti – sono limitate.
“Dopo la lirica” si presenta dunque come un’antologia equilibrata (il modello è l’antologia “classica”, Mengaldo è l’ispirazione/aspirazione), abbastanza “leggibile”, adatta a un pubblico “medio”.
“Parola plurale” ha questa caratteristica del lavoro a più voci – voci tuttavia di giovani critici-critici (e accademici), non di poeti-critici –, l’avventurarsi tra le ultime generazioni (e qui c’è il rischio, qui ci sono – ma forse era inevitabile – le scelte che danno adito a più contestazioni e discussioni), il recuperare, tra i non 30/40enni, anche poeti del tutto sconosciuti.
In comune le due antologie hanno senz’altro la presa d’atto della “crisi” e dell’inadeguatezza del modello lirico tradizionale: in maniera più forte “Parola plurale”, in maniera più pacata “Dopo la lirica”.
“In ogni caso, le 1000 e dispari pagine di questo libro non valgono manco di lontano le circa 400 del Dopo la lirica compilato da Enrico Testa.”
Ecco Giovanni, in ogni caso mi piacerebbe conoscere le ragioni che ti portano a questo giudizio.
Leggendo la megantologia dei giovani critici-critici accademici, si avverte che almeno fra alcuni di loro è viva la sensazione di essere degli scopritori di chi sa quali verità critiche ed esegetiche. Testa fa invece continuo riferimento a gente che ha scritto prima di lui, si pone in un atteggiamento di ascolto, che è poi la rélation critique di cui invano (almeno per l’Italia) ha scritto secoli or sono Jean Starobinski. Questo è il motivo della mia predilezione per il lavoro di Enrico Testa: la consapevolezza di essere parte di una comunità di lettori, di critici, di interpreti. Ciò detto, faticherei molto a qualificarlo come poeta-critico: è ordinario di Storia della lingua italiana a Genova e la sua produzione poetica è piuttosto esigua.
Ok.
Testa comunque è presente, come poeta, in “Parola plurale”.
È presentato da Zublena e occupa ben 16 pagine.
So che Enrico Testa è incluso in quella antologia e, se non ce ne fossero altri più fondati, questo mi sembrerebbe già un buon motivo per preferirgli Dopo la lirica. Zublena, posso sbagliarmi come no, è stato allievo anche di Testa, è un critico di grande serietà (come Sannelli, d’altronde anche lui inserito in qualità di poeta: ma la scrittura critica di Sannelli mi pare al momento di qualità più alta). La domanda che più d’uno s’è posto scorrendo l’elenco dei compilatori è comunque: ma Cortellessa, quante ore lavora al giorno? E quante ne dorme, la notte? E’ da per tutto, come il Padreterno nei celebri versetti del Metastasio che s’imparavano alla scolétta.
“So che Enrico Testa è incluso in quella antologia e, se non ce ne fossero altri più fondati, questo mi sembrerebbe già un buon motivo per preferirgli Dopo la lirica.”
Beh, il fatto che Testa non si sia autoantologizzato è senz’altro titolo di merito. Altri poeti-critici si autoantologizzano senza porsi troppi problemi.
Non vedo però perché debba essere considerato un limite di “Parola plurale” la presenza al suo interno del Testa poeta.
I poeti inclusi in “Parola plurale” sono molti di più di quelli inclusi in “Dopo la lirica”. I periodi presi in considerazione sono diversi: 1960-2000 per “Dopo la lirica”; 1975-2005 per “Parola plurale”. Testa ha pubblicato parecchi studi critici, ma ha pubblicato anche tre libri di poesie (oltre ad aver tradotto Larkin).
Chiarisco che non giudico negativamente per partito preso il poeta-critico; ci sono esempi illustri di poeti-critici, lo stesso Fortini è un poeta-critico. Sappiamo bene che ci sono poeti-critici che come critici valgono parecchio e altri che valgono molto meno.
E’ un limite perché Enrico Testa non è poeta da meritare un posto in antologia, per quanto generosa come quella compilata dai giovani critici. E, per quanto contano queste distinzioni (penso circa niente) sia Testa sia Fortini sono critici-poeti, non poeti-critici. Quante poesie di Fortini, che non siano le ottime traduzioni di Eluard, figurerebbero degnamente di fianco a quelle dei poeti suoi coevi? E quante di Testa? A sommarle, non si arriva alla diecina: e 8 sono di Fortini. E poi ci sono antologisti che si autoantologizzano, sì. Penso esista anche gente che, la mattina, si mette davanti allo specchio e si domanda: è vero che sono er mejo fico der bigoncio? E lo specchio gli risponde, come per magìa: sìne che lo sei, buana. C’è di tutto, al mondo.
Testa poeta non lo conosco, se non tramite la traduzione che ha fatto di Larkin (“Finestre alte”). L’impressione comunque è che, se togliamo Testa, da “Parola plurale” possiamo togliere tranquillamente anche molti altri.
Quanto a Fortini: no, non sono assolutamente d’accordo. Ma hai letto “Composita solvantur”?
Per me Fortini è tra i poeti più importanti del secondo novecento. Anzi, mi interessa molto di più il Fortini poeta del Fortini critico.
Gentile Emma, vorrei esser giovane come tanti di voi, qui a NI. Composita solvantur mi ricordo quando uscì, le recensioni che ne lessi, le discussioni che ne seguirono etc. L’ho letto e riletto e, se mi pare la sua raccolta più importante, comunque non la metterei fra le maggiori del secondo Novecento. Fortini mi interessa molto come critico e anche di più come intellettuale, sebbene non quanto, per esempio, Cesare Cases, che considero mio maestro (col vantaggio che lui non ha mai saputo di avere un allievo come me). Molti dei poeti contenuti in Parola plurale potevano in effetti non contenervisi. Il libro sarebbe venuto anche meno pesante: in ogni senso, come annuiva il saggio E. Ramazzotti, circa 1990. O no?
Gentile Giovanni, cito da Testa, visto che lo apprezzi.
“Dopo la lirica” – pag. 81. “…Composita solvantur, uno dei pochi libri memorabili dell’ultimo scorcio del Novecento”.
Giuro, “Gentile Giovanni” non l’ho cercato :-)
Emma gentilissima, apprezzo Enrico Testa, è pure mio amico e gli ho dedicato un mezzo paginone sopra un periodico di libri di cui non è elegante fare il nome. Questo non vuol dire che concordi in tutto con quanto lui asserisce, nell’antologia e altrove. Limitandoci, per comodità d’esposizione, a Dopo la lirica, ho trovato frammentario e non così utile all’intelligenza dei testi l’apparato filosofico squadernato nell’introduzione; oltre che discontinuo (se c’è Derrida, ed è sacrosanto che ci stia, Nancy deve entrarci di straforo e proprio soltanto per eventuale simpatia personale, perché uno metterebbe il caciocavallo dentro un bigné alla crema, per dire). E non mi convince neppure la diminutio di Giuseppe Conte, tanto per dirne un’altra.
Ehi, ma sei il Giovanni che penso io? (iacogol)?
Sono io, o vate dell’ubiquità mondanletteraria, durante una mezza settimana di ben meritate ferie (ma due giorni li ho già trascorsi con la mia Gerusalemme personale, ora mi gioco l’ultimo scrivendo di Augias – che bel libro, che gran personaggio! – e facendo il pirla da queste e altre parti).
Giovanni, evidentemente siamo (anche) su un terreno di scelte e di gusti personali.
A te il Fortini poeta non piace.
A me il Fortini poeta piace (e però piace anche a Testa, e però anche a Mengaldo, che per la presentazione di Fortini viene citato da Testa a piene mani [si tratta di quel Mengaldo che per te – se non capisco male, e sarei d’accordo – non può essere *mai* messo in discussione con leggerezza]).
Su Conte: la diminutio (anzi di più) è presente anche su “Parola plurale”.
Va a finire che “Dopo la lirica” e “Parola plurale” si assomigliano più del previsto.
Giuseppe Conte non è amato dall’Accademia. Qui finiscono le somiglianze fra le due antologie. In quanto a Fortini, è certo questione di gusti, che ognuno ha il diritto di maturare e poi esprimere sulla base di letture in numero tendente a infinito. Un’altra domanda che è lecito porsi resta comunque: c’era già bisogno di mettere in antologia tanti poeti tanto giovani? Almeno come pubblicazioni, che sono poi l’età vera del poeta, mi parrebbe.
Conte non fa parte dell’Accademia, è vero, anche se mi pare abbia, o abbia avuto, un qualche potere all’interno del “mondo” (credo delimitato e “conoscibile”) della poesia italiana.
Ma la ragione principale della diminutio di Conte (e di altri in qualche modo affini) penso sia riconducibile alla distanza da una certa idea di lirica (anzi di poesia) che accomuna “Dopo la lirica” a “Parola plurale” (nel caso di “Parola plurale” la distanza diventa insofferenza).
Detto in soldoni (almeno per Testa): se si ama Fortini è difficile amare Conte.
Quanto ai giovani presenti in Parola plurale: la “novità” vera è questa. Si tratta di una scommessa. Tutta da verificare.
@ Ludovico
mi scrivi?
Centro!
Francesco.forlani@wanadoo.fr
ps
un passo indietro? nemmeno per prendere la rincorsa.
“Che” Guevara
La prima raccolta poetica importante di Conte fu promossa da Pietro Citati e Italo Calvino, e seguiva un fondamentale saggio sulla metafora barocca, che è ancora oggi testo di riferimento in materia. Il potere che ha acquisito nel tempo deriva da una partenza siffatta (forse non comune ai giovani poeti d’oggidì, che dici?) e a una serie di ulteriori raccolte e qualche romanzo di valore adeguato. D’altro canto, hai colto benissimo uno dei motivi per cui ritengo superiore, ora e negli anni a venire, l’antologia di Testa rispetto a quella dei Giovani Turchi. Non si può mostrare insofferenza. Una certa linea può non piacere, ma non è bello dar segni di evidente, palese disprezzo. Non è critica, è chiacchiera da bar.
Sì, Conte era partito in un certo modo, poi è diventato una cosa completamente diversa.
Una scommessa persa, per Cortellessa e Testa.
A guardar bene, la presentazione di Conte fatta da Testa non è meno “dura” di quella di Cortellessa. Il fastidio si esprime in forme più contenute, ma nella sostanza è perfino più forte.
Mi sorprende, a ‘sto punto del thread, la distinzione tra forma e sostanza. Non si era superata questa impasse teorica e metodologica? E non mi pare che In quanto a Conte, non mi pare che Testa l’abbia mai considerato né lo consideri nelle 2 pagine che gli dedica ora partitamente, una scommessa persa. Cortellessa, boh, può darsi, ma scrive tanto che facilmente mi son perso delle puntate; e so che non è bello.
Immenso Giovanni
effeffe
Guaglio’, io sto qui dedré a laurà e tu ancora mi irridi e deridi? Non tieni rispetto per gli anziani, è chiaro: sei un vero neodada!
Leggo due testi che trattano lo stesso tema (la presentazione del poeta Giuseppe Conte).
Cerco di confrontarli.
Non vedo perché non posso parlare di forma e di sostanza. Siamo su un blog. Io non sono Croce e tu non sei Giovanni Gentile :-)
Allora, Cortellessa “parla” di più, è vero. Dà un po’ per scontato che il lettore conosca già il “caso” (e qui la lettura è più difficile del solito). Tuttavia comincia in maniera plateale (“Giuseppe Conte è vittima di un’allucinazione: quella di credersi Giuseppe Conte”), e perciò fin da subito si può immaginare come andrà a finire (con la “liquidazione” totale).
Testa è più pacato, non si sofferma sugli “inizi” di Conte, si limita a scrivere due facciate, cioè dedica a Conte meno spazio e meno parole di quelli che dedica allo sconosciutissimo poeta Gianfranco Ciabatti.
Non si dilunga Testa, non fa battute, va al sodo.
Ma al sodo ci va con una serie di rilievi che definire micidiali è poco. Mi limito a questi: “Nel subisso paganeggiante di divinità che transitano per questi versi la più rappresentativa è però una qui assente: Giano bifronte”. “…sfondo musaico allestito con tasselli – dei, eroi, poeti – provenienti dalle più disparate culture… Assunte con un gesto che neutralizza scarti e specificità in maniera non molto diversa da quella che caratterizza il corrente gusto e costume occidentale, queste presenze diventano le figure, un po’ inerti e intercambiabili, dell’unica scena in fondo dominante: quella della mitologia – inconcussa e ribadita – dell’io e della sua parola volontaristica e assoluta…”.
Pacato ma infastidito, Enrico Testa. Pacato ma terribile.
Lo ammetto: più efficace nell’opera di “distruzione” dell’“insofferente” Cortellessa.
Succederà anche a te, ogni tanto, di rileggere le Critiche di Kant: e non ti stupirai di quanto limpido sia il dettato, come risultino chiare le materie e le argomentazioni. Succederà anche a te, ogni meno, di leggere Cortellessa; e ti sarei forse accorta, non senza stupore, che è meno intelligibile di Emanuele Kant. Chi sbaglia fra noi 4? Cortellessa, Kant, tu o io? Nel dubbio, rileggo Kant, non vedo la netta differenza fra il più cieco amore e la forma e la sostanza e, magari vaneggiando, trovo nella prosa di Testa un furore quasi da Contini – nel senso di Gianfranco, non del promettente passista bresciano dei primi anni Ottanta – ma nessuna insofferenza, nessun desiderio iconoclastico. Non mi pare poco.
Cortellessa più difficile di Kant?
No dai! :-)
giovanni basta! ne hai dette tre in crescendo: 1) che Testa dialoga con gli autori, e i critici di Parola Plurale no: rileggiti l’introduzione, e vedi se non dialogano anche loro in modo fitto; 2) sostieni, come è stato di moda per molto tempo (ora un po’ meno), che Fortini non è un grande poeta; io credo che sia un poeta importantissimo – e lo crede anche qualche critico particolarmente acuto e autorevole, come Mengaldo. Ma qui puoi ancora sfuggire nel “gusto”, nell’opinabilità, ecc. 3) Dove la spari grossa, è su Kant: “come riusltino chiare le Critiche di Kant, limpido il dettato, chiare le materie e le argomentazioni”; Carlo Sini, tal filosofo teoretico, amava citare come testo tra i più oscuri della filosofia moderna la “Critica della ragion pura”. Io che ho insegnato filo, so quanto sudano freddo i professori quando espongono con aria disinvolta il giudizio sintetico a priori (per tacere del resto). Dopo di ché, fustiga pure il linguaggio della giovane critica (senza pero’ fissarti ossessivamente su di Cortellessa, perché non è l’unico giovane critico attivo in Italia), ma non proporre come paradigma del dettato cristallino dei testi che fanno ancora sputare sangue a fior di esegeti…
Gentile Andrea, Vito Mancuso, tal teologo, trova limpido lo stile delle critiche di Kant. Non sarà anche qui una questione di gusto? E non sarà concesso a ognuno di avere il suo, e considerare Fortini piuttosto un grande critico che un “poeta importantissimo”, al di là delle mode che, se non concernono l’abbigliamento, non mi interessano?
Mi spiace di aver fatto del mediocre umorismo soltanto su Andrea Cortellessa, che oltretutto è uno che legge e lavora molto. Hai ragione: giovani critici, e attivi, ce n’è tanti, in Italia.
Ma come Giovanni! Vuoi dire che ti limitavi a citare Vito Mancuso?
E io che già ti immaginavo intento a gustarti, la sera prima di andare a letto, i Prolegomeni ad ogni metafisica futura.
O anche, nelle notti d’estate, La critica della ragion pratica, laddove, con un trascurabile fraintendimento, si può en poète rimirar le stelle… ;-)
O gentile, la sera è da anni dedicata alla Reine Rechtslehre di Kelsen, mio livre de chevet da’ bei 20 anni (e prima), oltre che al ripasso del primo von Wright. A quest’ora qui della notte, termninati questi semplici esercizi di ginnastica mentale, scrivo mail alla mia Gerusalemme personale e poi vedo se, su Radio Radicale, c’è ancora il programmone con i materiali di repertorio o posso andare a dormire. E tu cosa fai, per dire, domani sera?
(in ogni caso, citare SOLTANTO Mancuso mi pare scelta ancora preferibile a citare, soltanto o no, Raffaella Scarpa – così l’ottimo Inglese non mi accusa di più di nominare soltanto il bravissimo Cortellessa)
Puemm Kansian (à la francaise)
Mel Sa ke le Juan cum mi ama lecture
du classico filosofu experencia
et ke l’iglesia tambien faza l’ustess
me pare fore dubbio et contingence
tenemos l’Hobbes de relire Spinoza
et Des les Cartes nous aimons l’ardenzia
de lo penzero qui revient assaje spess
et a marguerita preferons la Roze
Per il nuovo partito Radicale
el furlen, iglesia e Juan sont candidats
vota anca tu
Torno dopo un mese di assenza e cosa mi trovo? Emma e Giovanni ( non so se sei iacagol, ma so che sei Ch…:–) che si punzecchiano! Grazie a entrambi, la giornata non è cominciata male. Un abbraccio (posso?)
Cher mi Furlen, y nùma bòna platz
per aquella valor ke es lo Ritzànte
no la tenìmo? Ahi è gran doleànza!
Temperanza, sì, abbracci e saluti plùrimi: ma l’intervista sul mestiere traslatorio per il quindicinale sìculo la si fa? Quia ruit hora, sicut Giorgio Bertone saepe dicit ac maledicit
Puemm du Curullarie
Et tenet lo Ritzante place ambito
porque l’est en plus qu’un gran puet
un forte amico
voi fumate pesante!
Esti sìne poeta, lo Ritzante
y créo bevidor do vino tinto
ch’a nos placque la sera y aprés la nit
qui cala a Santo Remo
Biondì, a proposito di fumo: ma che ne è, della promessa trasferta olandese? Tu, il Colombo e io, per ricordarti.
franzisko est megadontem
Puem para Blondil
L’est que la Goluase est belle et brune
et s’il Juan prefere les gitanes
aux cheveux noires et fortes comme une lune
nun tenet plaza aux blondes americanes
Giovanni… si aspetta e si spera…
Ciao Temperanza.
Bentornata! :-)
Si potrebbe pensare di:
1) sottoporre al vaglio critico di Testa e Cortellessa i Puemm qui presenti ed esibiti;
2) aprire un dibattito (tendenzialmente infinito) sulla qualità di detti Puemm.
Il dibattito potrebbe svolgersi:
a) con il filtro degli eminenti critici;
b) senza.
Sembrerebbe cmq opportuno rinviare la discussione sulla qualità degli interventi critici a NI.3.
Puem para Emma
Ke no vuell esperar aquì
te plazer, ou a canviar guitarra
pra ti cantar, Emminha
y a donca accepta
el vers de nos poets desemperadtz
qui sont lo gràn Furlén e mi qui ‘l sequo
Pu Emma
L’est tradiziun gentil et antique assaye
de se moquer du ton et du bon ton puet
dizemos col Juan que semos bravi
de lo penzero abstrakt et puetiket
lo kurtellesa non pourria capire
de kesta langue accisa l’imposture
est cela grave? tenia de farsi sangue amar?
ou continuar sto joco per dilecto?
et sur nazioni indiani cumentare?
Puem en lengua furlàna pra dona Emma
El gran Forlòn se bouòra de ello mismo
et de noantri, so’ pòri copladori
nunca de te, qui tacqui e nos castìgui
con tu silentzi e de lo guardo altiero.
De Korteleso, sabe qu’el trabaja
sì tan que poi a la sera es muerto
y puede punto noscum conviviare
delibando vin tinto e carna aròsto.
Li cos intieri amamo, Emma,
di foemine balienti et galiàrde
anco la musica de li antiki patri
e li puem, pur ke non li seri.
Ringrazio lor signori per i gentili omaggi et spiegazioni.
Questa lingua mi fa pensare alla lingua d’oc, ma la lingua d’oc io la identifico con una composizione non comica, non Kurtellesa e non cortese, una composizione anzi tragicissima, la sola cosa che in effetti ricordo di un antico esame di filologia romanza.
@Giovanni
ma la domanda del 3 novembre, 11 e 34, era rivolta a me? Penso di no perché mi è parsa assai oscura.
appena avrò pronto il Puem Filo lugik
te lo mando.
effeffe
Temperanza, la mancançia do temp me véta di risponderti in lèngua frança, ma sì, la domanda era rivolta a te, posto che tu sia la Temperanza talora scorta sopra blog democristiano assai in voga e tu disponga altresì di marito, figlioletto e telefonino Wind.
Francé, ma ‘o Singer quann’ésce fòri, neh? Ka qui ce puzzam’ ‘e fame ‘e littere, e tu svarii come nìndi fusse.
Emma, a stasera per un puem de fin’amor comm sol el Paul Di Stephan’s puede comprehener, y el su mestre Segre y el vècc Dant dell’Isell.
@ Giovanni
Blog democristiano molto in voga? Immagino Vibrisse. Ma niente figlioletti né telefonini Wind, evidentemente siamo due o più. Qui però sono sempre io sola, mi pare, altre non ne ho viste.
@Giovanni
Però per qualche ragione vorrei saperne di più, I give you my mail, se vuoi procedere: temperanza@katamail.com
Canzùna ‘d fin’amor pra Emma
Oh, se lo sòn d’amor
fùss ancara amor
i’ non stàretz, a ‘st’hora de la nòite
a querer te, dona de ‘l me ‘ngànn
ke sòn d’amor es nada y zero nunça
illusion de loinh fra poetz
e lor lisenti, e tr’altro Kortellétzo
ch’onne decifra, e ‘l Fùrlen ganàssa noi
U s pò dì
àrpinsand ma tótt
che t’si un ciacaróun
un ciacaróun cumpàgn
ad quél de’ kurtél.
Ai avì ‘na léngua
ch’la taia e la cùs.
E adés at faz ‘na faza
ch’la réid :-)
che aquè
l’usa acsè.
L’ho presa, la Par plur. A parte il fatto che “non si devono” fare libri che slogano il polso, neppure per ragioni economiche, non vedo la difficoltà di scrittura di cui parlavate all’inizio, anche se non ho ancora letto tutti i cappelli. Anche perché è chiaro che un’antologia come questa oggi va ai cultori della materia, mica al dentista (sempre che qualcuno si sia illuso in proposito)
Belli questi dialetti, quello di Emma mi pare vero, gli altri però inventati.
Temp, il “mio” dialetto è zeppo di errori (accenti e apostrofi sono una cosa da incubo), ma è un po’ colpa tua.
Ricordi quando hai parlato di Baldini e io non ne volevo sapere?
Beh, sto leggendo “Intercity”.
Una meraviglia. Anzi una malattia contagiosa :-)
__________
Sulla difficoltà di “Parola plurale”: sono d’accordo, la difficoltà è quella di sempre, non di più, non di meno. Né si può ragionevolmente sostenere che il “subisso paganeggiante” di Testa è più “popolare” del “combinato disposto” di Cortellessa.
Però se si vuole fare *anche* divulgazione, il problema della lingua è necessario porselo.
Insomma, ci vuole un po’ più di attenzione.
Puèm plouràl (en doplo sentzo)
‘ve lassan tràza Ema y Temperansa
kui nasc’Amor de lògoi e pensero
y las estimo y las cant si trist
por lontananso ch’es lo verdadero
de relatzion onne che sea iscrita
come ‘l poeta dizìa de Atena antika
su l’aqua de l’aqua che la pasa
e Furlén il vede, mi da quinci no.
Se àn callat a lor El Korte Lezo
i mi discosto e tuta speme lasso
lo àn callat, qu’il grand’es e groso
ed ecce critiquo, ecce int e letteual.
@Emma
Beh, per Baldini son proprio contenta. Quanto alla divulgazione, in generale son d’accordo, ma non credo che i critici di Par plur volessero farla, informazione piuttosto, ma rivolta a lettori già preparati ad accoglierla.
Ho letto Blotto, di recente, spiazzantissimo, e qualcuno potrebbe scostarselo di dosso con furore, ma se uno per trent’anni resta fedele a un lavoro sul linguaggio come il suo, va ascoltato. Eppure sfido qualsiasi lettore non già predisposto alla curiosità per la poesia a leggerselo, e allora, come la mettiamo? Dobbiamo pensare che ci siano poeti (e critici) semplici per i semplici e poeti complessi, e magari nella loro ricerca non sempre felici e comunicativi negli esiti, per i lettori specialistici o complessi? Non credo che si possa tornare indietro, neppure nella lingua della critica, credo che ci siano molti livelli e per quanto di fronte a certi testi di Stefano Agosti io arranchi perché non essendo il mestiere del critico il mio mestiere non ho tutto l’armamentario necessario, penso di dover arrancare. Se io arranco su Agosti, l’insegnante di lettere potrà anche con qualche frutto arrancare su Cortellessa, o no? Sta poi a lei “divulgare”.
Di recente una signora mi ha detto “la poesia deve essere comunicativa”. E che vuol dire? la poesia deve essere fedele alle sue regole o ogni poesia ha le proprie. Cmq hai ragione, il problema c’è, e secondo me come sempre è la scuola, o meglio ormai l’università, lì andrebbe fatta la mediazione, la divulgazione “ricca” e produttiva, perché a scuola quella prima fatica ermeneutica che si faceva ai miei tempi e che allenava linguaggio e cervello, da quel che ho visto non si fa più.
@Giovanni
Non ti avevo visto, secondo me il tuo è un misto di langue d’oc, catalano e friulano inventato, sbaglio?
Temperanza, questa pubblica sede m’impedisce di svelare le segrete cose della lingua del gran Furlèn, della Iglesia (s’el lo vuéll, todavìa) e mia. Però sei di certo sulla buona strada, sì. Emma, quand’ero giovane rimasi sconcertato leggendo che il critico qui assai citato parlò di LALLAZIONI a proposito di non ricordo quale poeta. La parola è a tutti gli effetti italiana, l’accoglie persino il disponibilissimo Gra.D.It. del compagno De Mauro, bollandolo però con la marca d’uso infamante di ts (termine scientifico, nel caso medico) e quindi va bene: ma cosa c’entra con la critica letteraria? E’ un esempio fra tanti. E poi ci si lamenta se qualcuno rimpiange Giacomo Debenedetti, vero.
@ Temperanza
Il problema della comunicazione in poesia mi sembra molto diverso dal problema della comunicazione in campo critico.
Entro certi limiti (i limiti che derivano dal rischio di parlare semplicemente tra sé e sé), un poeta può permettersi di non porsi il problema della comunicazione come primo problema. Può avere come riscontro l’isolamento o l’incomprensione, se li mette in conto e amen, sono affari suoi.
Il critico che compila un’antologia poetica è un “mediatore” (parola ultimamente molto usata e forse abusata, ma rende l’idea), sceglie gli autori, dà ragione della sua scelta, presenta gli autori, cerca di fornire strumenti di lettura al lettore. Il problema della comunicazione *è* un suo problema, non può non porselo.
La forma-antologia del genere “Parola plurale” o “Dopo la lirica” non è identificabile con uno studio critico specialistico (studio nel quale è del tutto legittimo avere a che fare con un linguaggio specialistico o anche fortemente specialistico). In “Parola plurale” ci sono le presentazioni di 64 autori, non ci sono studi monografici su 64 autori.
Chiedersi qual è il grado di intelligibilità di espressioni tipo “combinato disposto” o “subisso paganeggiante” non mi sembra una menomazione della libertà di ricerca o di espressione del critico che compila un’antologia.
“Parola plurale” poi, per i poeti che “tratta”, non è un’antologia da scuola secondaria, quindi il problema della comunicazione non è risolvibile con il rinvio all’eventuale “mediazione” dell’insegnante.
Infine, per come si presenta, per il costo contenuto, il battage pubblicitario, ecc., mi pare che “Parola plurale” aspiri a rivolgersi a una fascia di lettori abbastanza ampia, non a pochi.
Giovanni, per me LALLAZIONI è quasi pane quotidiano.
Devi cercare un altro esempio :-)
@Emma
anche per me lallazione è un termine usuale, è quello che fanno i bambini e se la mia memoria non si è decomposta, ma in effetti potrebbe, lo ha usato anche Zanzotto, il che, se quello che dico è vero, ma potrebbe non esserlo, lo toglie di fatto dal puro specialismo.
Sulla comunicazione sono d’accordo, ma tu nell’intervento precedente parlavi di divulgazione, e lì secondo me le cose si aggrovigliano. Hai ragione nel dire che un’antologia non è uno studio critico specialistico, ma è anche vero che la poesia è diventata un’area specialistica. Mentre quand’io ero ragazzina Montale lo leggeva – o lo comprava – anche il borghese che andava all’opera, adesso Magrelli (e non dico Frasca o Ranchetti) lo legge solo una persona di cultura estramente letterata, mentre io ragazzina potevo senza difficoltà scovare Pound senza che me lo mettessero in mano, adesso la mia omologa non arriva a Simic o altri. Ci piace? No. Che la poesia, a parte i suoi risultati più banali e accattivanti, sia uscita dal nostro orizzonte è secondo me un danno grave, se non altro per una bieca e strumentalissima ragione, e cioè che la poesia obbliga il linguaggio a non impoverirsi per la sua sola presenza, e il linguaggio impoverito impoverisce la mente. Ma è così. E la colpa non è della “difficoltà” di poeti e critici. Mi piacerebbe poterlo affermare, la soluzione sarebbe semplice, basterebbe dire, parlate più chiaro. O basterebbe confinare nel ghetto della sperimentazione più estrema, come in un laboratorio della NASA, quelli che sembrano accantonare la comunicabilità. Questo di cui stiamo parlando mi ricorda un episodio su Celan riferito da Giuseppe Bevilacqua (il curatore e traduttore del meridiano) e naturalmente adesso che mi serve non trovo il libro, cmq a uno che gli chiedeva l’interpretazione di una sua poesia Celan rispose, legga, legga, la comprensione verrà da sé. Questo a un livello di comprensione immediata, non sarebbe mai successo a Goethe. Cos’è successo al linguaggio? Dove si è spostato il limite della comunicazione? E se il poeta diventa “incomprensibile”, come farà il critico a renderlo comprensibile senza banalizzarlo? Ovviamente ho solo domande
@Giovanni
Lallazione lo accoglie anche il da me molto più amato Palazzi-Folena.
Ma questo rimpianto per Debenedetti non sta diventando un po’ stucchevole? Io ho letto con gran gusto Debenedetti, ma non vorrei che fosse il solito giochetto Debenedetti sì, Contini no, perché, almeno quanto a me, ho letto Debenedetti con gran gusto, ma di sinapsi me ne ha collegate di più Contini. E io leggo la critica con lo stesso spirito con cui leggo il mio amato Le Carré, non essendo grazie a dio specialista.
Temperante, ma chi mai giocò al giochino della torre, e poi con Debenedetti e Contini? Noi di una certa età, col Contini ci siamo cresciuti, è normale che ci colleghi più sinapsi (ça veut dire quoi? Oh, qu-est ce que je demande). Hai letto il boxetto di Giovanni Mariotti sul Corriere di ieri? Se si legge Pasolini, non perciò bisogna aborrire Calvino. Le contrapposizioni drastiche van bene per i magazine allegati ai quotidiani. Emma, le lallazioni beneamate, non sono un tecnicismo della critica letteraria. Che sarà bensi una lingua, dotato quindi di una sua autonomia, ma che proprio in quanto tale parole che vengon da altre lingue. E poi, obbligazione morale del critico è: parlare chiaro (che non è facile).
La poesia, per esempio, è diventata meno comprensibile perché il mondo che le sta attorno parla un’altra lingua. Vogliamo sporgergli querela?
Temp, in effetti io avevo parlato di divulgazione, tu hai parlato di comunicazione, io a mia volta ho ripreso il discorso sulla comunicazione perché è un discorso che mi interessa.
D’altra parte tra comunicazione e divulgazione io vedo connessioni molto strette.
E per me un’antologia poetica del tipo di quelle su cui discutiamo è anche un’opera di divulgazione.
L’idea stessa di antologia ha in sé l’idea (anche ingenua e presuntuosa) di enciclopedia. Dunque l’idea di un sapere in qualche modo condiviso o da condividere. Dunque la vecchia idea – un po’ illuministica e un po’ paternalistica, ma per me ancora significativa – del pane della scienza (o dell’arte, o della letteratura) da spezzare. Che non vuol dire necessariamente lavorare per ridurre le difficoltà a zero o per banalizzare e livellare al grado minimo.
Far conoscere e divulgare la poesia contemporanea italiana mi sembra impresa ardua, dato che l’attuale “cultura” italiana (nazional-popolare e non) si interessa di tutt’altro. Ma proprio per questo mi sembra un’impresa importante e da seguire con attenzione.
Giovanni, “lallazione” non è tecnicismo della critica letteraria. Però ha a che fare con lo sviluppo del linguaggio verbale e della lingua madre nella specie umana (e può darsi ci sia qualcosa di analogo anche in altri mammiferi, chissà). Insomma, mi sembra una cosa interessantissima per la poesia, e non mi sorprenderebbe affatto la citazione di Zanzotto.
Il periodo della lallazione è quello del massimo interesse “spontaneo” per i suoni, per l’ascolto di suoni, per la produzione di suoni. È un periodo di sperimentazione sulla lingua, di gioco con la lingua, di fascinazione per la voce propria e per quella di chi racconta e parla e ripete nenie o filastrocche.
È dalla fase della lallazione che prende avvio la selezione dei suoni della lingua madre, e poi – in progressione – l’acquisizione della stessa lingua madre, la sua strutturazione via via più articolata e complessa.
Dunque la lallazione non è soltanto una serie di suoni infantili insensati e un po’ stupidi.
Penso abbiano a che fare con questo discorso anche la gioia che provo io “scoprendo” Baldini e il piacere che provi tu, e con te Forlani e Inglese, a scrivere nella lingua dei neotrovatori.
@Giovanni
Non tu, vero, non ti accuso di aver voluto buttar giù Contini a favore di Debenedetti, ma altri in realtà lo fanno, e sarebbe curioso capire perché non possono convivere nella nostra biblioteca mentale, ma sulla lallazione non mi avrai, sono d’accordo con Emma, la lallazione è il germe del linguaggio, ne restano tracce nella poesia, la filastrocca, la ripetizione, il petel zanzottiano, Agosti lo chiama balbettio afasico e forse ti piace di più, e poi, cher ami, la mi scusasse, non ci sono parole brutte o sbagliate, ci sono solo parole usate a sproposito, il C. al balbettio afasico si riferì? E allora, ai miei occhi, lallazione sia.
@Emma, condivisibile quel che dici, ma vorrei chiedere al manipolo dei giovani critici se era questo il loro principale obiettivo, e ho i miei dubbi. Però adesso mi voglio leggere i cappelli, così al fine capirò se lallazione è dispiaciuta al nostro Giovanni in quanto parola impennacchiatissima o solo per sue personali allergie che non oso indagare, ma soprattutto, che intenzioni avevano i ragazzi (posso ben dirlo io, ahimè), e forse potremo fare una colletta e spedir loro il pamphlet di lavagetto come guida per gli esecizi spirituali.
Buona domenica a tutti
Brrrrrrrrr emmmbrrrrr ppppfffffrrrrr eeeeppprrrrrrrrrrr….
nghe’ !
Fuori tempo massimo, ma la storia della “lallazione” mi ha fatto pensare.
Allora, c’è la lallazione canonica della primissima infanzia, la lingua che non è ancora lingua ma ha davanti a sé il possibile, l’orizzonte “trionfale” dell’evoluzione verso il chiaro, l’ordinato, il consapevole.
Ma c’è anche la lallazione di chi emette suoni disarticolati perché non ha più parola, la lallazione di chi davanti a sé non ha più alcun possibile.
La lallazione come inizio e come fine della lingua, come prima e come dopo.
La lingua fluida, puntuale e lucida come fase di passaggio, a termine.
Credo che la poesia si occupi anche della lallazione meno gioiosa.
Voi due, prima che principi a laurà: lallazione è una parola brutta, perché le parole brutte esistono (tutte quelle col suffisso in -zione, gli avverbi in -mente, in genere quelle più lunghe di 8/9 lettere, molte di quelle sdrucciole etc.). Non avevo mai pensato al rapporto di questo balbettìo afasico (balbettìo è una parola bella: balbettìo, sciacquesto, dolci romòri / ah, perché non son io co’ miei pastori?) con la poesia e ringrazio le due indiavolate per l’intuizione, che volentieri raccolgo e faccio mia. Lavagetto è da consigliarsi a vècchi e bambini, nunc et in saecula saeculorum. Contini pure, Debenedetti anche, a piccole dosi persino il Luperini. Bisogna leggerli tutti, impararli e poi tutti dimenticarli.
@ per il maestro di cappella Johannes
colazione
meditazione
eruzione
sopraffazione
ecc.
sinonimi, please!
ma forse condividendo i vincoli oulipiani si potrebbe scrivere un capolavoro senza -zioni, ne -mente
E che ne dici di grongo, o scapitozzato? Ho dovuto difendere il povero scapitozzato da una schiera di mastini, per me nessuna parola è brutta, ma si sa, ho un cuor d’oro
@Emma
non credo, la lallazione è solo la prima, la lallazione è l’inizio, fiat verbo, poi c’è il balbettio, l’afasia.
quelli di Magda invece sono rumori.
Ci sono altri termini, che ora mi sfuggono, che delineano le varie fasi filogenetiche di appropiazione ed elaborazione del linguaggio umano, una è la lallazione , magari voi mi aiutate a ricordarmi anche le altre.
I linguisti inpazziscono su questi temi….Ogni madre puo’ sperimentare per esempio la corrispondenza del linguaggio in embrione con lo stato d’animo del bambino, e distinguere con l’esperienza i vari tipi di pianto e di riso, significanti sonori di significati emotivi o biologici.
Io a suo tempo ho registrato i vari progressi di mia figlia ( chissà dove li ho messi…..).
Posso pero’ dire che ho osservato notevoli corrispondenze tra l’inclinazione caratteriale e le modalità di esprimerla già in fase neonatale.
per esempio, il pppprrrrrrrrr, la pernacchia con salivazione e dilungazione, sarebbe la prefigurazione verbale di un carattere decisamente solare, simpatico e ironico.
Questo è vero….la pernacchia infantile come fase embrionale dell’ironia sviluppata in fase adulta nei suoi corrispondenti linguaggi e comportamenti.
a chi interessa sull’iportanza della lettura nei bimbi:
http://www.bergamoblog.it/modules.php?name=IndyNews&file=article&sid=5104&mode=nested
Sopraffazione è terribile: allora prepotere, od oppressione (non sono sinonimi, ma tanto i sinonimi non esistono, esistono affinità di sinn und bedeutung fra parole, ma identità giammai, e tu lo sai benissimo, non scherziamo). E il grongo cosa c’entra? Salvo il fatto che è molto buono, annaffiato da un bianco comm’il faut (ma taluno preferisce un rosso importante: che non è manco una cattiva idea, volendo)
Temp, lallazione è riferito all’infanzia e balbettio ad altre età, ma tra inizio e fine ci sono da sempre forti legami “poetici”.
…Last scene of all,
That ends this strange eventful history,
Is second childshness and mere oblivion,
Sans teeth, sans eyes, sans taste, sans everything
La scena finale,
Che chiude questa strana movimentata storia,
E’ una seconda infanzia e il mero oblio,
Senza i denti, senza gli occhi, senza il gusto, senza nulla
(W. Shakespeare)
Giovanni, lallazione è parola onomatopeica. Avrebbero potuto scegliere mammazione, pappazione, babbazione. Probabilmente hanno scelto la meno peggio.
Certo, per venirti incontro avrebbero potuto soffermarsi su mammettìo, pappettìo, babbettìo…
Magda, benissimo la lettura dei bambini, ma possibilmente non in vista dell’aumento del P.I.L. o per diventare ricchi ed “evoluti” :-)
“…Il dott. Biasini ha sottolineato come la “literacy” ovvero l’attitudine alla lettura e alla scrittura siano un requisito fondamentale delle civiltà evolute, e un parametro per individuare popolazioni ricche.
Secondo recenti studi infatti, esiste una diretta proporzionalità tra P.I.L. di una nazione e il suo grado di scolarizzazione. Auspicabile quindi che i rappresentanti più autorevoli della salute del bambino, i pediatri, si rendano ambasciatori di questa valenza, promuovendo e addirittura distribuendo libri insieme alle cure mediche…”
Si parla un po’ tanto di bimbi, per i miei gusti laici. Dov’è finita la temperanza? E Temperanza, while we’re at it? In ogni caso, lallazione è onomatopeica ma a me ricorda stagflazione, perequazione, indicizzazione e altri orrori consimili.
Lallazione non è bella. Ma lallettìo è molto peggio di stagflazione.
Sì, ma uno non può inventarsi le parole dal lusco al brusco (molto belle tutt’e due queste: soprattutto lusco, mi pare. Secca, come una frustatina sulle spalle, o un uppercut sullo zigomo destro, che causa perdita di molto sangue e interruzione del match per ferita) e pretendere che siano pure belle. Lallettìo non esiste, quindi è nulla, quindi non è bella né brutta né, per ovvie ragioni, peggiore o migliore di stagflazione, che è invece termine delle scienze economiche; brutto come suono, come concetto, sotto ogni profilo.
io devo trovare a tutti i costi quel termine anch’esso onomatopeico affine al vostro se no stanotte non dormo.
voi bandite i suffissi “zione”? e allora sapete io cosa vi dico? bandisco quelli in “ismo”: comunismo, fascismo, femminismo, laicismo, riformismo,pragmatismo, romaticismo, pero’ no dovrei anche chiudere la mia rubrica nomadismi.uffa.
Emma, credo che nel’ esporre questa corrispondenza il prof. Biasini abbia tenuto conto che, nel profondo Nord, esiste tutt’ora un tasso molto elevato di abbandono scolastico da parte degli adolescenti, motivato da una presunta autonomia e ricchezza data dall’approdo anticipato ad una professione qualunque purchè immediata.
Considerate inoltre che l’uditorio era fatto da insegnanti, genitori, amministratori pubblici, da cui il tono da “Lectio”.
Ma certamente per voi avrei scritto in modo molto diveeeeeeeerso.
1) “Sì, ma uno non può inventarsi le parole dal lusco al brusco” (cfr. Giovanni – ore 20,44)
2) “Balbettìo è una parola bella: balbettìo, sciacquestìo, dolci romòri / ah, perché non son io co’ miei pastori?” (cfr. Giovanni – ore 17,21)
3) “balbettio” va associato ad “afasico” (cfr. Agosti – Temperanza ore 10,09, poi Giovanni – ore 17,21)
4) “balbettio” è onomatopeica adatta per età “mature”, o comunque diverse dall’infanzia (così è, anche per via di “afasico” – Temperanza, ore 18,07)
5) “lallazione” è una parola “brutta” (cfr. Giovanni – ore 17,21).
Per lo scombinato disposto di tutto quel che sta sopra, il rebus si risolve solo con LALLETTÌO.
Lusco è magnifica, non so se vi ricordate un vecchio film francese, ma veramente molto vecchio (per Johannes Kreisler: davvero molto vecchio), si intitolava se non sbaglio i sette peccati capitali, l’alzheimer mi impedisce di ricordare i registi, ma sono certa che fossero uno per ogni episodio, la lussuria veniva raccontata dal punto di vista del bambino che la associava al lusso e dunque in quell’inferno c’erano donne nude ricoperte di velluti e brillanti che bruciavano e si contorcevano. l’ira invece scoppiava a tavola e diventava un’enorme minestra, un grande blob di legumi che lentamente si riversava per le scale, giù di piano in piano, onnivora, nel senso che si mangiava scale e scalini, pianerottoli e spazi dell’anima. Cmq le parole come ho detto per me sono tutte magnifiche, da bambina leggevo salgari, scrittore dal lessico difficilissimo, gadda impallidisce di fronte a lui, e ogni parola che non conoscevo mi dava un brivido di eccitazione, teak per esempio, e quando anni dopo ho visto il teak era solo un legno duro e piuttosto grigio, bah. Eh, lo stupore e l’incanto, ecco la vera perdita che ci infligge la conoscenza.
Giusto Tempe o Ranza? pero’ è anche vero che ogni conoscenza sposta il limite verso una nuova consapevolezza d’ignoranza e quindi verso un nuovo mito d’Ulisse, si puo’ rimanere bambini anche conoscendo tante cose.
Perchè “ci vuole talento per invecchiare senza diventare adulti.”
chi l’ha detto?
@Giovanni scusemm u mument, ma te den’ do’ egnet?
me so’ dela gallia cisalpina, ona barbara, ona preda dura e rostica.
mia catia eh, doma un po’ crapuna e batagliera.
forse capese la to’ proveniensa
se te me dicet cosa te mangiet per pietansa
me la festa mangie pulenta
come la ol la me regiura sapienta.
@Emma
lallettio? mah, forse sì, si risolve il rebus, che il risultato sia anche estetico, su questo ho i miei dubbi, mi avete fatto voglia di rileggermi meneghello, cosa che andrò a fare, buona notte a tutti
Infatti lallettìo è brutto, Temp.
Giovanni dovrà rassegnarsi a lallazione. E mi sa che ce la sogneremo pure, la lallazione.
Magda, proverò a dire agli insegnanti che conosco di presentare agli alunni l’equazione: lettura=soldi.
(Forse però è più credibile detta da un pediatra)
Siamo a cento.
Buona notte
emma quello che passa principalmente da cio’ che scrivo dovrebbe essere Lettura=Amore.
il resto è cronaca.
Puèm di zòld
Komo dizìa ‘l puèt
si la vida és cançò
amor su’ à d’ésse ritme
i si la vida és libbre
el zòld a d’a-creçìr
ke sans niùn zòld
où esti l’alegrànça
il chievo a Temperança
a Emma y fin a Magda
mi Alfaomegalambda.
Naçir tu véll ‘l livre?
Entontze caça el zòld
Tu véll ‘l’akquitàr?
E caça òter zòld
W el mòn con zòld!
I solcc ie un prublema se ten volet tropp
un tal from Naples, diseva che l’è rich who needs nothings.
Augias l’è un grand’homme,
the last year nel so’ spetaculo dele Storie, el m’ha difendit tant per tante puntade.
l’ha difendit la me storia, ma i don’t saccio se el sa el me non e suernomm.
Un dì l’ha persin dit che el risciava el post per sta difesa.
el me piass tant.
setimana pasata l’ha invitat Giulio Sapelli, che l’è nalter dela ciurma dei liberi pensatori.
ma me sa anche un po’ liberi muratori.
Puemm à tut le mond
ke l’est sta historia de lu lallamentu
et du circar par troubadour distract
l’oeil et lu stratt
no ke tenia a far vanter de logo
car l’et no logal l’experiencia
tenita da nous mismos literati
et s’il s’agit d’une idiolekte en fest
et moto du coeur et d’alegresa
cu l’Ema Magdalena Temperanzia
cull’Iglesia e Blasio col Juan et Furlen
tenimos o battishme du litterisme en test
Che bell’inizio di giornata, mi conforta della malattia. Ma siccome al nome di Meneghello nessuno ha reagito, vi dò uno scampolo da ” Maredè, Maredè. Sondaggi nel campo della volgare eloquenza vicentina”. Questo solo per chi non lo conoscesse.
” ‘La tenerezza tenerezza è detta …’ (S.Penna). Un frutto tenero non era ‘tènaro’ ma ‘trèndo’: perdendo trèndo abbiamo perduto una sottospecie della tenerezza che uomini e cavalli del re non potranno recuperare per noi.”
O anche:
” ‘Devastating’ in ingl si è fortemente svalutato, quasi come ‘desperately’, ma era utile e bello nella sua ‘prime’ (fresca maturità). Non potremmo adottarlo noi? Forse se imparassimo a dire ‘na critica devastante’ cominceremmo anche seriamente a farla, con grande utilità per tutti.
(qua ci vuole l’emoticon ;–))
E poi, ahimè:
” la (nostra, individuale) competenza linguistica si evolve? Compiuto il primo, spettacoloso ciclo della acquisizione infantile della lingua ‘materna’, che cosa accade a quella capacità di fondo di discriminare tra ciò che è parte costitutiva della nostra lingua e ciò che non lo è? pare credibile che la misteriosa virtù del native speaker non possa in alcun modo aumentare, ma essere esposta se mai a processi di affievolimento, forse di inquinamento…
“La Salomè di mia nonna Esterina era una creatura favolosamente peccaminosa, e questo si vedeva da ciò che aveva addosso: in luogo dei gravi panni, delle opache cottole, delle spesse fanelle, la svergognata portava ‘i vili’!
Curiosamente non era la loro esiguità, l’arrendevolezza agli sguardi, la sconvolgente leggerezza e inconsistenza, ma al contrario il fatto che erano ‘tanti’: una massa di veli! Mia nonna parlava di lei come se l’avesse veduta di persona, si metteva a imitarne (senza accorgersene) la postura obliqua, insidiosa delle spalle, dei fianchi… Sotto quei veli era ‘nuda’ … come i pollastri … la pelle leggermente accapponata.”
Spero di avervi stuzzicato la curiosità!
Puemm Penicellin
Ke l’appetit lui sol me vien mangiant
et d’esto livro prio de fare ancetta
mais sine sbrolio et sine niuna freta
Jo voy veher si Meneguel m’incant
et si l’est vrai ke Temperanzia reconosco un poco
je le lirais d’un coup comme nu joco
a pact qu’il setrouve sine foco (fievre)
Ho scitto do con l’accento, mannaggia, si, leggilo francesco, ma anche libera nos a malo, pomo pero ecc. mi spiace che non te li pssso prestare per metterci dentro un attimo il naso.
” la (nostra, individuale) competenza linguistica si evolve? Compiuto il primo, spettacoloso ciclo della acquisizione infantile della lingua ‘materna’, che cosa accade a quella capacità di fondo di discriminare tra ciò che è parte costitutiva della nostra lingua e ciò che non lo è? pare credibile che la misteriosa virtù del native speaker non possa in alcun modo aumentare, ma essere esposta se mai a processi di affievolimento, forse di inquinamento”
ti rimando uno stralcio da bergamoscienza dell’anno scorso:
http://www.laretedeimovimenti.it/fucina/nomadismi/bergamoscienza
……linguista Andrea Moro e dallo psicologo Jacques Mehler, che espongono il complessissimo universo del sistema linguistico nelle sue dinamiche universali e particolari, come dire globali e territoriali e i meccanismi con cui l’apprendimento della lingua avviene sia a livello ontogenetico che filogenetico.
Apparentemente diverso l’approccio del genetista Luigi Cavalli Sforza che dallo studio del genoma umano espone le infinite connessioni tra le razze umane date le matrici comuni.
L’epistemolo Gianluca Bocchi, sostenitore della tesi della complessità annunciata da Edgar Morin, effettua una mirabile sintesi dei due approcci precedenti, sostenendo che sia la linguistica che la genetica, declinate in ambito evoluzionista, ci confermano per vie diverse la intima comunanza tra le etnie.
Esistono infatti istanze che spingono i gruppi umani contemporaneamente a differenziarsi e ad accomunarsi per l’antica legge naturale della molteplicità e unicità nelle stesse strutture umane; pertanto in tempi e spazi diversi si possono riscontrare fattori linguistici e genetici comuni a tutte le razze e fattori che hanno favorito la loro differenziazione.Tutto questo ci permette di sostenere la tesi del cittadino globale planetario abitante del multiverso…………………
Scusa Magda, perchè non mettersi sulle tracce di Bachtin e dell’idioletto? Mi ricordo di appassionatissime riunioni di redazione a Baldus con Biagio Cepollaro e Lello Voce. Una decina d’anni fa e mi sembra passato un secolo.
effeffe
FF
va bene, pero’ mentre mi riprendo dalla giornata da sensitiva, maga, folletta della padania, accetto tue introduzioni e riti iniziatici verso quanto proponi.
Mi piacciono le cerimonie battesimali.
MM
Puèm Sapèll (a Sapèll!)
Julie Sapelle, te maxima joia
cuncti bibiàm y choral cantò
l’ent’s kui ke à forma
de li Caldi E A Dosso
sovre l’un l’altra, e sans ne sia coèrta
amor sea libre (non libbro, kéne oròre!)
la ke par tibi, mihi sea jubilànta
mur o moradori nunca se à mai visto
né ‘n lo Sàbello né ‘n l’augiàsso inglese
o de Lutetia, ma plus de tutti Roma.
p.s.: Giulio Sapelli è un talento anarchico, slegato da chiunque, a cominciare da se stesso. Da Augias, ha detto in sintesi lodevolissima le cose che ripete quasi inascoltato da anni (salvo in Statale a Milano, dove risulta lo si adori; e con ragione).
Puem du copia ‘ncolle
(sito lellovoce.it e/o cepollaro.it, BALDUS)
Occorrono, allora, poetiche che sappiano mettere in gioco tutto il complesso di materiali che la nuova sintassi percettiva e critica si propone di ri-organizzare, anche e soprattutto a partire dalla coscienza della storicità e insieme – contraddittoriamente – della sincronicità del campo letterario. Si tratterà di un lavoro accanito di distorsione e creolizzazione dei materiali (lessicali, sintattici, metrico-ritmici, fonici, ecc.) della tradizione che comporti l’esasperazione del degrado di linguaggi, idioletti e gerghi, a sottolinearne l’artificiosità occultata; che sostituisca alla (inesistente) soggettività poietante ed ontologizzante una regia autoriale astuta-mente razionale nella quale la polifonicità del citazionismo (o, meglio,dell’appropriazione) sia vissuta, benjaminianamente ed allegoricamente, come vendetta, riscatto ed irrisione e che si mescoli con il riutilizzo delle esperienze della poesia sonora e della ricerca intraverbale e delle pratiche di slogatura sintattico-logica dello sprachspiel così come con il ripescaggio di zone basse e bassissime dell’oralità quotidiana. Giacché mai come oggi la sperimentazione è “obbligata” dalla necessità di essere pars construens, proposta di modellizzazione positiva di una soggettività manipolante i flussi di informazione che altrimenti la soffocherebbero senza possibilità di contrastare, neanche a questi minimi livelli, l’irrealtà dominante e l’afasia de facto. Il tutto, ovviamente, con la coscienza chiara di come non ci sia nulla di più destruens di una pars construens che elimini anche gli ultimi relitti-segni del distrutto e liquidi, definitivamente, le vestigia.
La Redazione di “Baldus” dicembre ’89
Lo stile è orrendo. E per me lo stile è quasi tutto.
E poi: vissuta benjaminianamente come vendetta? San zanzotto, aiutaci tu. Speriamo che fossero tutti molto ma molto giovani, i giovani vanno quasi sempre perdonati.
Tempe oggi che c’hai?dimmi che sei in fase premestruale cosi capisco.
Come fai a dire che uno stile è orrendo, quando riflette lo spirito e la mente del suo autore?
è come dire: “non mi piacciono i norvegesi”. no?
Uno stile si potrà affinare, limare, smussare, correggere, ma temo che non si possa cambiare, quindi si puo’ esprimere un giudizio di valore su qualcosa che non ha nè merito nè colpa?
Ho sentito Sapelli alla fondazione Mudima l’hanno scorso discorrere di impresa e politica: incantevole.
Io, per me,
riamo le strade
che cozzano, e frontoni
con massi dentro acque
fangose però chiare
dove ci si capisce
chi si parla e di co-
sa e perché.
P.p.c.: lo sprachspiel non l’era già una volta il gioco linguistico di III liceo?
P.p.c. II: leggàsi cita-zionismo dove, per lapsus calami, è citazionismo. E ir-realtà per irrealtà, naturalmente.
Appunto, è lo Sprachspiel l’ultima goccia che ha fatto traboccare il vaso.
Para la gùtta
Dona esa misma es gùtta de beleça
y tal vetz de tan gran culturitade
ka pote sobre ailàr de lo joketto
jokào en lengua crùcca da Vociani
Ka amor regge lo monno e l’altri stéli
e amantz éssin critiqui y lisénti
changian’ li vesti e panni 1 con l’àtro
e stan sì bel ignudi tuti a dosso!
Puem du O Stil
Il parait ke Lo Fiodor puveretto
et nun lu nourvegè meis killo russo
tenia son traductor franzès en grand dispeto
car lo su stil cunsiderat nuiosso
et alors il a changiar favela du puet
se distriket por cuntentar vertude
et lu delicto deveniva pena
et Karamazov devenite soeurs
nos otros cul Juan prefer stilett
ke la palabra sanguini de vida
et la sueur de l’anima s’anida
seul tra les brazia d’un kan kun puet
e vous qui s’etes les paladins du bel
“k’il l’est bon si alors l’est scrit tres bien”
veh poursuivez cum gaudio la lecture
de kela ke Barik ‘nvento’: litterature
Sobra el sonnèt (in quartine sparse ipometre)
L’amìs Forlòn ama zonetare
en lengua frança, ch’el la séia
i l’amiro, ka forma es conteniente
e aqua nunca scerne se da mare.
Seia stilètt, sì, ma kuel d’amore
qui move cielo et coetera ben note
litteratur’è horresca, anco el libbro
non chica y dona, baçiata con ardore.
Nos otros con Forlàn kaldi y a dosso
giacer amiamo co’ chica dulça
e séco pupa razonar a lungo
et acquetare ‘l Verbo, se mai mosso.
… et faire d’amour commun profondo russo
effeffe
Gli ultimi testi riprodotti sopra sono da considerarsi prolegomeni al manifesto del movimento dada-postsituazionista dei Caldi E Addosso, che il fondatore Francesco ‘effeeffe’ Forlani ha redatto nei mesi scorsi, per renderlo pubblico nei giorni a venire. Le adesioni sono aperte a tutti e tutte, con qualche propensione per le seconde, meglio se disposte a far di libero amore gratuita professione. Per i dettagli delle attività già in programma, rivolgersi a Francesco Forlani.
Nomino Tesoriere Joan ufficialmente (nulla tenente)
effeffe
E presidente Massimo Rizzante (onnipotente)
Giovanni mi hai chiamato?
Puem du Gouvernement
L’Iglesia Ministro de l’interiora
L’emma Ministra de la Struzion
Magdalena Ministra de lo Copileft
Temperanza Ministro do Sport et do Sportelo
Zangrand Ministro de la frontera
Gabrielin Ministra de La spadun el cor
Raos Ministro du Giappun
Jan Ministro de la Informaziun
Cepollar Ministro do incanto
Sparajuri Ministro de la guera
Georgia Ministra de la Finistra
Wu Ming uno Ministro de wu ming 2 et tre
Pino Tripod Ministro de l’opposiziun
Wovoka Ministro de le minoranz
Ivan Ministro de la incazzatur
Helena Ministra de l’est
à suivre
…et boca de Rose Ministro des Fleurs
Puèm de la dolòr
Ahi gran doleàntza veg iscritta sobre
y planc en ploràn a Fòrl che nòs esclùtz
si tòt m’è toltz y rabidamenz
kome mandùka la cerbiàta el kòbre.
Planc en ploràn ka ‘l gran Fòrl apéla
y desmentìga pro Missa, glori e zòld
ke fàras donc? Sobresegretari
de fin’amor, solinknonùna béla.
Tempus est iocundum,
o virgines,
modo congaudete
vos iuvenes.
oh – oh,
totus floreo,
iam amore virginali
totus ardeo,
novus, novus amor
est, quo pereo.
mea me confortat
promissio,
mea me deportat
negatio.
oh – oh,
totus floreo,
iam amore virginali
totus ardeo,
novus, novus amor
est, quo pereo.
tempore brumali
vir patiens,
animo vernali
lasciviens.
oh – oh,
totus floreo,
iam amore virginali
totus ardeo,
novus, novus amor
est, quo pereo.
mea mecum ludit
virginitas,
mea me detrudit
simplicitas.
oh – oh,
totus floreo,
iam amore virginali
totus ardeo,
novus, novus amor
est, quo pereo.
veni, domicella,
cum gaudio,
veni, veni, pulchra,
iam pereo.
oh – oh,
totus floreo,
iam amore virginali
totus ardeo,
CARL OFF CARMINA BURANA
Puem de la scusancia
Oh grande Juan m’excuse et me pardonne
car dans la liste n’apparait ton nom
nous sommes les fondateurs egal personne
et de San Rem courrimme jusqu’à Rome
Parce que les puets de ville eternelle
sont dans l’impassa assaye scuntrose et belle
car Sparajuri dixit à moi Furlen
ke la parola d’ordre seria suivant per lor *
De pueticar restanne fridde et seriù
comme si la distance protegia favela
contra proximita et contrankall’Isou
qui sont les maitres mio de Juan et anca de tu
E alors Ministru de lo Porte feuilles
mais carta viva et non de papiers mortes
tu mon ami seras et skuosse et skasse
mi seulement Ministre des Transportes Emotionelles
* Con Francisco Sparajuri davanti a un Kebab à la piemuntèis in quel di Turin
discutevamo di cotesto e cuelo
e di come a Roma Poesia, con stupore e meraviglia dell’amico, circolasse tra i poeti la formula Freddi e distanti. da cui la necessità Juannesk, Guasconne, Armenien Partenupea del movimento Caldi e Addosso
Carl Orff Carmina Burana? Cos’è, siamo su Skèrtzi appàrte? Pensamonos que sì.
Poèm in fratelança
Onne trasports me Liga al gran Forlàns
ma su’ soréla come anca dippiù
kaldaddossati siam, nunca ploràns
ma ‘l fin’amor zocàn qui e a Viggiù!
Ma guarda, uno pensava che Carl Orff fosse un musicista novecentesco e scopre che è un poeta goliardico del XIII secolo. Eh, signora mia, non ci si può fidare di nessuno.
Novecentesco e pure un po’ nazistello, giusta la lectio, magari un pochino di parte, del non dimenticabile Mila (e in ogni caso pochissimo interessante rispetto a tanti compatrioti suoi coevi).
A parte questo: e che dòi bàll, co’ ‘sti Càrmini Buràni. Forlàns, tocamonòs de la guitarra y cantamòs Spingule francese, neh!
Jo ki prepare pour Gilles nu grand puemm
et tu juan pourquoi ne viendras tu à Milan?
Je chanterais à Deleuze un grand hommage
de l’eternel retour (la ritournelle)
S’gòn puèm de l’Escusantzia
Gilles es si gràn, y mérece puèmm
pur ke séa tò, e no de alter alter
ma el venti e il sìs i stoy en XX mila
at honoràr l’Orengho pièmuntés
Di vèkia data nosco il randèvù
ke poi s’acqueta ne la gràn bisbòcia
d’homi e de done en la Hostaria de
Purta Maìna: ma dit ‘l me tschào à Gilles
“Caldi e addosso contro freddi e distanti”
Oltre i millenni, i secoli, i lustri: la prima antologia poetica per tutte le stagioni.
Posso lanciare un ultimo sassolino in questo piccolo specchio d’acqua in cui ninfee e fauni giocano con suoni familiari?:
Si li femmene
Si li femmene purtassero la spada
tristo chill’ommo ca vulesse bene
a donna ca lu cor crudele tene.
Pecché nun sulo lu turmentarria
colli bellizze ma co’ la spada ancora
mille ferite le darria ogn’hora.
E ne saccio una ch’è tanto crudele
ca si uno la guardasse diciarria :
pecché me guardi? E po’ l’accidarria….
Forse è buono ca nun portano ll’arme
ma chianellette e trezze e verducate
pe’ ffa’ murire mille ‘nnammurate.
Ministra de La spadun el cor?
Enchentée, mon furlen!
moi ke je porte la spadun
nun turmentarria jamais
l’omme mio al rendévù
ke tengo ‘o core tenero
comme guerriere de sucre
mais si personne skassa
a mes amis kaldaddossati
alors oui, le fendant arrive
acussì avec la garde haute
la preçision ‘ncoppa à tout
beh, non è granché ma almeno c’ho provato!
Puèm pra la Fùsca (o vero: in atz de deluçiòn)
No puèll gobérna Gàbria
ka séia ira intrétz
vers li kaldadosàti
k’hàcen Revolùtziòn.
Vàrda el valòr, dè Fusca,
sobra iì mòtz tu vuéla
nobìsdona còs y àlma
vive al nòs comàn.
Puem de l’amistade
et comme Ministro des finances l’est Biundil
et Franz Ministro du Tonic con Gin
140
effeffe
ps
obra conceptual
Je scribei un sol poèm entlet Lisboa
pur la luminesa ciudad pourtoghesa
I CQuestiòn
Mestre for/làn
obra concept-
tual de ke?
Urtzòn nowèll’s!
Puèm prà Preçision:
Si la dame de spadùn no puete competér
cum vostra bravura y lucididad de pensier
mismo capacidad d’ambrazzar parabras,
ké je peux faire une magna révérence
por Ke tiene amor de le maitre Franchini
en omme k’ aime la box aussi l’art d’aikidò,
mi alma est a votre servìs messer preçision
l’est nombro et quantitat de cumentario
qui ne suive el tec-ton de penzero
et chifra tenet en lieu d’un long diario
nombre de page et l’un l’est quat et zero
effeffe
2° puèm à Fùsca
Hom ke de domna se fegna
fort in amoràtz
malàn vientzàn’a’èl
fort skonsideràtz
Frànquino mòns et sire
hab’t reveràntza hòi
y domna a lo divòtza
servìlo cum jòi (1)
NOTA:
(1) Cobla in cui il trobadore rifiuta con alterezza la dubbia profferta dell’amata, che ha dichiarato la sua passione e fedeltà ad altro e più celebrato trovatore coevo. Si tratta di uno schema retorico piuttosto in uso al tempo. Non sono note le identità dei personaggi citati, presumibilmente sotto nomi di fantasia.
Ah, Juan/preçision vedi che non sono brava? l’inchino era per te che da un’altra parte citavi il bravo Franchini, quindi sei tu il soggetto ke tiene amor de le maitre Franchini!
Puèm de dolor à Preçision/juan:
Dolantza por la mi incapacidad
de parler cum claretza la langua
mismo la construction de sintassi
ke la guerrere de sucre se dolga
de sua ignorantia et cum spadun
fait une autre révérence a messer
si ke la esperancia d’etre compris
lui fait surir un petit peu de joi
Puèmm en fin’amor
Dompna bòna esti Gàbria, nunça fuskha
tamen fòsse molière a Vuelto y Linnho
k’es bon, géntils y caras lihi rìmas
el sò amor conkuitze assai de longe.
Kald’l’è à dotxo e con gràns rézon;
seia la dompna, sieu el plus jouèr.
NOTA:
Cobla dissonans (o 2 coblas, la seconda mancante dei vv. 3 e 4) in cui il trobadore, d’incerta collocazione geografica, allude al presunto stato coniugale della dedicataria. Il trovatore chiamato in causa con dati anagrafici piuttosto attendibili sarebbe un ulteriore coevo, anche lui più noto al tempo della redazione del componimento.
Puèm de la ridarola à Juan/Preçision:
Jamais dans mi longa vida
fui molière a nesciuno
ke se acussì fosse stato
seppuku de doleanza
cum sangue et lagrime
déja purria avoir compiuto
domna de libertad je suis
por lo mundo cum spadun
porto mi alma y mi core
The true body is a body
broken, leggo. Oh yes
niente in contrario.
Ma ci volesti tu
occhiturchina
perché all’istante penetrassi
il glossematico apoftegma.
GLOSSA
Cobla erotica di enciclopedista contemporaneo scarsamente noto. Il trasporto sentimentale celato nell’oscuro motto inglese in incipit si è trasfiguarto e fatto nuovo da passione amorosa nell’ambiguità semantica del verbo di movimento declinato al congiuntivo, non meno nell’oscurissimo riferimento alla linguistica strutturale di Louis Hjelmslev posto in clausola.
perchè amare è superare il mortuum, corpo finito, attraverso lo spirito assoluto.
Superare il corpo con il corpo
Puèm d’encanto à Juan/Preçision:
Mais je peux tomber d’amour
por las parabras de potencia y abilitad
avec lequelles messer preçision
cum gratia habla de glossematica
enfin je croi ke messere esta
in confusion maxima de mi identitad
kè c’est vrai ke domna Vuelto y Linnho
on appelle comme moi, mais le prenom
fait la difference: pas de bois pour moi
jo so fosca comme le brouillard blanc
jo tiene les yeux vert comme les feuilles
y tengo passione por la literatura intiera
et maximo rispecto y stima por messer
ke comme tous les critiques quelque fois
tengono ‘a capa ‘ncoppa ‘u cielo…
mi spadun y alma à votre servìs enfin
superare il corpo con il corpo
varcare il limite del finito così
anime in viaggio si incontrano
per raccontarsi oltre le nuvole
cosa hanno vissuto attraverso
lo spirito assoluto lungo le vie
della terra radici d’incarnazione
Sopra un letto non pretto
io supino tu diadumena e superna
chi ti vedrà mai così
come Raab tranquilla
come un’assunta
NOTA AL TESTO
Agudeza del lirico coevo, con dedica implicita a troviera di cui è noto soltanto un generico tratto fosco. Il riferimento a Raab rimanda ovviamente a Par. IX, 116, visione immaginifica dell’amante che il poeta, con Dante, inciela e assume ai cieli. Il letto non pretto è banale metafora della congiunzione carnale cui i versi intendono, non senza la volgarità tipica del tempo, alludere e preludere.
Pra la ròta in Blogapèrt
Ah, latxo hor è temps de gràn ploràns
su ‘l bòn valor d’hòm onnest’ebbùontz
ka dompna Gàbria fuge en tòt silentzi
y lasse èl, sol’in seu dispìtz.
Nay, nunca èssi vida
mèj la mors en fìta pùgna
ie fin’amor pèrs sin’s ‘vertìda
Domna Gàbria est perdue de labor
comme feuille para lo viento fuerte
vagò el dia pour revenir la noche
et sgomenta trouve ‘a doleanza
entre los versos de messer critique
tamen le fil de conversacion
ne s’arrete pas, continue a suivre…
Puèm de noirìs d’Amòr
Pra Dompna nunca fùsca èsti libvre
fin’amor de màn qu’à nit
tandis ke t’acaronén nos estèls
tandis ke t’acompanyin méu abràtz
GLOSSA:
Quartina frettolosa di anonimo coevo, che risponde per le rime a trobadora cui già ha rappresentato sensi di calorosa amicizia (Genrrich, in Der musikalische Nachlass der Troubadours. Kritische Ausgabe der Melodien, herausgegeben von Friedrich Gennrich, 3 voll., Darmstadt 1958-65, suppone l’esistenza di un epistolario fra i due, di cui però non è a oggi contezza). L’ottativo del v.3 dà forse conto di un desiderio più che fantastico del poeta: che le stelle, cioè, accarezzino la dedicataria dei suoi versi. L’abràtz con cui si chiude il componimento è triviale metonimia del congiungimento amoroso.
Cansòn en plòur
Ieu sui Ohan, k’amàtz l’aura à l’Est
y chàtz Amor ne dòmpna con valòr
sét nadi contra subérma y fùsca
d’onne cor co’ còs seu hece stràmme.
Nunca ò vida, claus ‘l séio pretz
bela proéza ja à terço esti délis […]
quanta bella è quista vossia deriva idiolectica
tutto grazia al furlenza, ch’io vidi oggi in Paris
e mangiammo poi inzalade philosphique
pokko dio me muero addà ballà i samba
aggio ballado cum fresche donzelle che beillo
che beillo
che beillo
cari nasttro
énérgie libidinal – 26 nov addà venni’ deleuze
Vers d’ gaudì
Forlòn buxcato de Iglesia à Pàris
dompna Gàbria tàze, tant que dors
y miro, kaldaddossati hora
en nébia, frècc pero gran joi d’amor
Puèm por la misticantza à Iglé
muy gratitudine al Furlanza
magister magnus idiolecticus
mais le jeu de nos carambòl
se perdono in traxe micsteriose
vu avez mangé de philosophie
nous cum domna Janec y Zek
mangnammo poisson litterèr
in maxima felicidad et armonia
en abractzo al poèt ke tiene dio
in ‘a capa plus d’un cristiano
et baila e dantza comme damnato
Sobra iglésie omne
Còs y alma encontradàtz
en dòmpna de valòr à nom nìgro
dançar bailar si nuit la càla
y s’éla m’ai estat si longiamèntz
ke ‘l fin’amor tràho de Dio
sobrénosque vidae à vivir
de hier fo sanctho, à palàbra
pogues sér en tra la géntz
Puèm d’ammore
me faltan parabras por joi
ka tiengo en core de vu lir
kè domna fortunada jo sono
por dedition de Kavaliere
aqui cum tempo obscuro
lo sol risplèn in mi alma
acussì fuerte ke voj dansàr
por Juan le bal sentimentàl
de la rencontre de magnifique
Canssùn lìbbra
Amor éss d’ pretz ‘l clòs
y de proeza ‘l merecér;
qu’on non delis géls ni la nìula
si cons valòr lealmentz y fo.
GLOSSA:
Quartina-manifesto di trovatore coevo. Espone in tono pragmatico il suo concetto di fin’amor, richiamando il principio di lealtà, che né il freddo né la nebbia possono guastare. Probabile risposta ad anteriore dichiarazione d’intenti di mano femminile.
Kom’iéra legàns
à popliçii flexi
su garretti sedente
erte a la tetta
– l’adultera amantza
aqua és sovente –
so kéla bradùra
de me plàiutòus
guardo a l’osèl
vis tener’amentz.
(d’après S. S., 1979)
Puem do retour (ou de comment arreter de se raconter des salades)
Porque le tene gratia in cunvenienza
d’estar col cul su sedjas differentes
gode à varcar fruntera cum lu raille
et souvenir de joco pacoutille
et alors ke l’est l’encuentro famelique
et pique en lac du tac au tac demora
de librairie italienne le consola
de retrouvar l’iglesia ‘n tra la gente
et le Joan l’armen qui est men ke deo
telefunette en temps de scarsitad credit
et la Gabriela aussi nun sabia plus
si l’ero vivo muerto ou en paradis
de raggiunar le temps se faria un tel
de couvertur de plat à l’insalat
tenia à choisir le philosophes o utopistes
et là arrivett encor k’ie sois a l’iglesia grate
car en terre franza et capital Paris
cum utopis salade nun mange nient
et lattugun muy crudo mixto cum rien
les philosophe pijaie mo’ son cuntent
poema d’incerta datazione dove si fa riferimento all’incontro a Parigi tra i Troubadours Andrea Inglese e Francesco Forlani e di come recatisi al ristorante les philosophes valutassero come più conveniente prendere la salade des philosophes piuttosto che quella des utopistes
Puèm de téms
Quàn plòi y fòre kànt ‘l vènt
Phil ac Sophia preian no l’agénsa
à cor de dona Gàbria la licènsa
de tòr ‘séio tems de pascor
Joan da la provença grixa
tàtz, y préia al gràn Ritzàn
k’al Norde esti nunca y plus brixa
ka fo un vèr rèys sobre, à la Gàlia
NOTA
Risposta per le rime, in coblas dissonans su piede giambico con ipometri e un ipermetro al v.8, a trovatore coevo. Il Joan del v.5 sembra potersi identificare con l’autore delle lasse, vista la presenza di alcuni tòpoi fonosimbolici presenti in altri componimenti a lui attribuiti. Sfugge il senso complessivo del testo, salvo il dichiarato ritiro a vita privata del sedicente Joan.