Alle frontiere dell’apartheid

Cittadini negati. La rivolta nelle banlieue è il risultato del razzismo istituzionale che caratterizza non solo la Francia, ma tutta l’Europa. Nel vecchio continente oltre alla militarizzazione dei confini esterni, si stanno costruendo delle frontiere interne che seguono la linea del colore ma anche quella sociale. Un’intervista con il filosofo Etienne Balibar (Il manifesto – 22 novembre 2005)

ROBERTO CICCARELLI
Atre settimane dall’inizio delle rivolte nelle banlieue Etienne Balibar è indignato, ma anche inquieto. Con la psicoanalista Fethi Benslama, la giurista Monique Chemillier-Gendreau, il filosofo Bertrand Ogilvie e l’antropologo Emmanuel Terray, ha sottoscritto un appello che ha individuato «nella disoccupazione di massa, nello smantellamento dei servizi pubblici, nella segregazione urbana e nella discriminazione professionale, nella stigmatizzazione religiosa e culturale oltre che nel razzismo e nella brutalità poliziesca quotidiana» le principali cause delle rivolte. «L’appello è intitolato Casse-cou, la Republique! – ha spiegato Balibar in una pausa del convegno Spinoza: Individuo e moltitudine tenutosi a Bologna lo scorso fine settimana – lo abbiamo scritto il giorno dopo l’approvazione dello stato d’emergenza ed è stato diffuso nell’ultima settimana su Internet e pubblicato il 16 novembre su L’Humanité». Oggi Balibar rilancia la sua analisi sul regime di apartheid che dalle frontiere esterne alla Ue si è installato nel cuore delle metropoli e denuncia il razzismo istituzionale che ha provocato le rivolte. Durante l’intervista esprime la sua perplessità sul tentativo compiuto da alcuni esponenti del partito comunista francese e della sinistra anti-globalizzazione che hanno cercato «nei primi giorni di strumentalizzare le rivolte presentandole come la dimostrazione delle loro posizioni contro la costituzione europea e per il no al referendum del 29 maggio scorso.

Questa rivolta – continua il filosofo francese – in realtà rivela il blocco totale del sistema politico francese. Non esiste alcuna prospettiva di rinnovamento sia per la maggioranza al potere che per l’opposizione». Una rivolta di cui molti governi, e non solo l’ultimo diretto da Dominique de Villepin, «portano una grave responsabilità». Ma la rivolta contro i ghetti non è una specialità francese, è una condizione diffusa anche nei Paesi Bassi e in Inghilterra. «Quelle in Francia mi sembrano però peculiari – risponde Balibar – perché sono legate alla sua storia coloniale che è ancora oggi onnipresente nel paesaggio urbano, anche se è stata rimossa violentemente dal sistema politico e dalla maggioranza della società che vive totalmente separata dalle banlieue».

E poi il governo. «Ciò che trovo inquietante nel suo comportamento è che si è impegnato nella repressione senza riflettere attentamente sui rischi dei conflitti sociali e le minacce aggravate alla sicurezza della popolazione che una simile scelta comporta», osserva Balibar. La reintroduzione della doppia pena, l’espulsione amministrativa degli stranieri, cioè dei residenti che possono essere «isolati» dagli altri cittadini in base alla loro identità annunciate dal ministro degli interni Nicolas Sarkozy, per Balibar «è indice della separazione tra i cittadini nazionali e gli stranieri, ma anche tra gli stessi cittadini francesi alcuni dei quali vengono stigmatizzati come immigrati, o come non francesi, pur avendo a tutti gli effetti la cittadinanza. Reprimere dei gruppi isolati dal resto della popolazione è una politica che non solo non rispetta i diritti umani, ma accentua al massimo le inquietudini della popolazione, moltiplica gli aspetti securitari e produce una polarizzazione ideologica in seno alla società francese che vede negli immigrati, nei giovani o negli stranieri dei capri espiatori».

Il prolungamento della legge d’urgenza per altri tre mesi è la creazione di uno stato di eccezione nelle città?

Questo è l’aspetto più inquietante, anche per i suoi risvolti simbolici, della reazione del governo. Quella applicata è una legislazione di guerra. E’ l’arma assoluta e reattiva che serve a spezzare le resistenze contro un nuovo ordine neo-coloniale, come già avvenne nella guerra d’Algeria. Questa legge non autorizza solo il coprifuoco, ma crea anche delle zone securitarie, autorizza le perquisizioni di giorno e di notte, le sanzioni penali sbrigative. Tutto questo non ha fatto altro che dare fuoco alle polveri a una rivolta che covava da anni e che, con ogni probabilità, continuerà ancora a lungo. La violenza ha toccato tutti gli abitanti delle banlieue, francesi e non. Questo è inevitabile perché chi subisce la violenza giorno dopo giorno, e per anni, poi colpisce senza operare alcuna distinzione di origine o di ceto sociale.

Lei ha denunciato più volte l’apartheid europeo contro i migranti. Si può dire che oggi, in Francia come anche in altri paesi europei, è venuto alla luce anche un nuovo apartheid, quello interno alle metropoli?

Assolutamente sì. Non ci si può accontentare di dire che la risposta del governo è inadeguata. E’ difficile evitare di credere che, al di là dei contrasti interni tra chi preme per una soluzione securitaria e chi per una di tipo paternalistico, il governo abbia voluto tracciare una specie di frontiera interna nella società che assume una configurazione sociale, etnica e razzista. L’applicazione di questa legge tende a isolare dal corpo della società francese una certa tipologia di persone e a differenziare le banlieue dal resto del territorio nazionale. In un certo senso tutto questo non è nuovo. Anzi è solo uno dei momenti di un processo di emergenza progressiva di forme di segregazione in tutta Europa che è iniziato da tempo.

In cosa consiste questo processo?

E’ un fenomeno tendenziale, molto articolato, che si va intensificando. Non lo considero ancora un dato acquisito, ma credo che quella in atto sia una trasformazione dello spazio europeo sul lato esterno e su quello interno. E’ un processo che ha come risultato la costruzione di un apartheid, cioè la moltiplicazione, o meglio, il raddoppiamento dei confini, quelli esterni dell’Unione Europea, e quelli interni nelle città. Questo processo ha spesso delle tragiche conseguenze come abbiamo visto nell’ultimo naufragio a largo di Ragusa di venerdì scorso, oppure in quello che accade a Ceuta o a Melilla in Spagna. Sono tutti effetti che fanno parte della politica protezionistica dello spazio sociale europeo che da un lato rafforza il muro che separa l’Europa dal Mediterraneo e dall’altro costruisce zone di controllo e di concentrazione dei migranti nell’Africa del Nord. Quello che accade nelle banlieue è una specie di effetto simmetrico, correlativo, di questo processo. E’ il risultato di una «meticizzazione» dei conflitti sociali che si accompagna alla militarizzazione delle frontiere europee. Il rischio che si corre è che i tentativi di sfruttare politicamente questi episodi accelerino il processo in atto fino al punto che un giorno sarà impossibile fermarlo.

A suo parere in che modo l’opinione pubblica francese e internazionale hanno interpretato le rivolte?

In Francia, il tentativo di classificare i ribelli con categorie di tipo religioso come il «fondamentalista islamico» è fallito immediatamente. Dall’altra parte c’è chi segue la linea bonapartista di Sarkozy, che cerca di controllare questa popolazione accusando una sua parte di comunitarismo e dall’altra strumentalizzando i normali strumenti dell’espressione della vita democratica ricorrendo alla mediazione dei rappresentanti delle varie comunità. Altri hanno evidenziato il fallimento del modello repubblicano di integrazione e quello di rappresentanza politica a livello parlamentare e municipale. Questa linea è stata raccolta dalla stampa inglese e americana che ha interpretato questo fallimento come la fine dell’egualitarismo sociale che impone l’introduzione del riconoscimento delle appartenenze comunitarie in Francia. Non so se questo sia vero o falso, bisogna discuterne, ma credo che questi argomenti spostino l’attenzione dalle vere ragioni delle rivolte delle banlieue, che per me sono neo-coloniali.

Perché?

Nelle banlieue si concentrano la seconda e la terza generazione degli immigrati di origine nordafricana e africana che sono ipersensibili rispetto alle forme violente di stigmatizzazione che si esprimono nel controllo poliziesco quotidiano e combinano la discriminazione di classe con quella razzista di tipo neo-coloniale. Da parte loro, queste persone non hanno alcuna intenzione di rivendicare una «separatezza» culturale dalla società francese, non chiedono assolutamente la chiusura delle loro comunità contro la repubblica. Al contrario si appropriano del suo linguaggio e della sua ideologia per chiedere l’uguaglianza. Per questo le loro rivendicazioni non sono di tipo comunitario ma di tipo universalista.

Chiedono quindi una cittadinanza?

Proprio così, e non dico questo per rafforzare le tesi che ho sostenuto negli ultimi anni, ma perché esistono degli aspetti culturali e sociali della cittadinanza che sono inseparabili dalla cittadinanza intesa in senso moderno. In questo senso si può dire che le forme del repubblicanesimo borghese che sono tipiche in Francia hanno raggiunto il loro limite da tempo. La cittadinanza che la maggioranza della popolazione delle banlieue rivendica non è solo di tipo multiculturale, e nemmeno solo transnazionale, ma è una cittadinanza multi-livello che deve esprimersi a partire dal livello locale, poi su quello nazionale e anche su quello transnazionale. In questo senso è chiaro che oggi è in atto una rivendicazione di quello che definisco il droit de cité, cioè di quel processo di costruzione dal basso della cittadinanza. Ci sono anche altri aspetti della cittadinanza che non si possono ignorare, anche alla luce degli ultimi fatti. La cittadinanza si pone infatti all’incrocio con tradizioni istituzionali diverse: quella repubblicana dello stato che presuppone l’esistenza di un ordine pubblico e di un interesse comune e quella rivendicativa che punta sul progresso incessante della democrazia nella società. Oggi che quest’ultima tradizione è quasi del tutto esaurita visto che una parte della borghesia non ne ha più bisogno, rischiamo di mettere a morte una serie di diritti e di tradizioni acquisite in Europa.

Le rivolte possono allora essere considerate l’espressione di una lotta più generale contro l’apartheid metropolitano?

Personalmente evito di idealizzare una rivolta di tipo anarchico che incendia scuole, palazzi pubblici, e si scontra con la polizia. Sono convinto che questa sia una reazione che deriva da una serie di ragioni sociali, ma non la si può fare passare come il sintomo di una rivolta politica, antimperialista o anticapitalista. I giovani incendiari non rappresentano un’avanguardia, ma il momento rivelatore di una situazione nella quale milioni di persone vivono. Per questo non credo si possa parlare di un movimento, ma di una rivendicazione. E’ invece molto importante dire che queste persone non sono affatto una parte isolata dalla popolazione che vive in banlieue. Anzi, mi sembra che esprimano lo stesso disagio in cui vive la grande maggioranza. In Europa c’è una lunga storia di rivolte contro i ghetti. Ciò che di nuovo c’è oggi è che quella attuale è la prima generazione che vive la contraddizione flagrante tra l’universalismo della cittadinanza che sancisce l’eguaglianza delle opportunità in cui sono cresciuti i suoi genitori immigrati, e la sordida realtà del razzismo istituzionale.

Quali allora le prospettive?

C’è la parola d’ordine di Gramsci, quella sul pessimismo della ragione e l’ottimismo della volontà, che mi spinge a pensare che in questa situazione astenersi sarebbe certamente peggiore che agire anche sbagliando. Spero che la maggioranza dei francesi si risvegli da questo incubo neo-coloniale. Bisogna assolutamente resistere al tentativo di criminalizzazione e di etnicizzazione compiuto dal governo che servono alla creazione del nemico di cui il sistema ha bisogno e possono essere usati contro l’eventuale politicizzazione della rivolta. Penso che oggi il problema principale sia, da una parte, quello di un rilancio della coscienza e della mobilitazione nelle banlieue per dare un’espressione politica a chi è sempre stato marginalizzato dal sistema politico. Dall’altra parte, i rappresentanti locali dei partiti di sinistra, insieme al tessuto delle associazioni, dei servizi municipali potrebbero avere un ruolo importante nel rilancio della controffensiva democratica. Questo rilancio della democrazia locale potrebbe avere una rilevanza nazionale in un paese fortemente centralista come la Francia. E’ solo un’ipotesi, certo, ma se oggi un’iniziativa democratica non parte dal livello centrale, allora bisogna farlo dalle banlieue.

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Andrea Inglese (1967) originario di Milano, vive nei pressi di Parigi. È uno scrittore e traduttore. È stato docente di filosofia al liceo e ha insegnato per alcuni anni letteratura e lingua italiana all’Università di Paris III. Ha pubblicato uno studio di teoria del romanzo L’eroe segreto. Il personaggio nella modernità dalla confessione al solipsismo (2003) e la raccolta di saggi La confusione è ancella della menzogna per l’editore digitale Quintadicopertina (2012). Ha scritto saggi di teoria e critica letteraria, due libri di prose per La Camera Verde (Prati / Pelouses, 2007 e Quando Kubrick inventò la fantascienza, 2011) e sette libri di poesia, l’ultimo dei quali, Lettere alla Reinserzione Culturale del Disoccupato, è apparso in edizione italiana (Italic Pequod, 2013), francese (NOUS, 2013) e inglese (Patrician Press, 2017). Nel 2016, ha pubblicato per Ponte alle Grazie il suo primo romanzo, Parigi è un desiderio (Premio Bridge 2017). Nella collana “Autoriale”, curata da Biagio Cepollaro, è uscita Un’autoantologia Poesie e prose 1998-2016 (Dot.Com Press, 2017). Ha curato l’antologia del poeta francese Jean-Jacques Viton, Il commento definitivo. Poesie 1984-2008 (Metauro, 2009). È uno dei membri fondatori del blog letterario Nazione Indiana. È nel comitato di redazione di alfabeta2. È il curatore del progetto Descrizione del mondo (www.descrizionedelmondo.it), per un’installazione collettiva di testi, suoni & immagini.