Ex- île /Yannis Kiourtsakis
foto di Philippe Schlienger
L’insularità come esperienza esistenziale: nostalgia del centro e ricerca dell’altrove.
Yannis Kiourtsakis
Traduzione di Giuseppe Girimonti Greco
L’esperienza dell’insularità non consiste soltanto nel radicamento, nel rifiuto, nel sentimento dell’autarchia, nell’attaccamento ostinato ad un centro di esistenza e nella nostalgia inestinguibile che la loro perdita risveglia in noi. Essa è anche l’orizzonte che ci invita a lasciarci alle spalle la stretta lingua di terra che calpestiamo ed a navigare per le vie del mare: l’allontanamento dell’omphalos, l’uscita dal Qui e dallo Stesso, il viaggio verso l’Altro e l’Altrove. E questi due aspetti – l’attrattiva del centro e l’erranza – non sono, in fondo, per quanto incredibile possa sembrare, che una sola cosa, un tutt’uno.
Questo doppio movimento di andirivieni non definisce forse l’esperienza diacronica dell’uomo greco (dove con uomo greco non intendo un’entità razziale, etnica, né tantomeno storica, bensì innanzitutto una metomimia dell’uomo) ? Riandate all’Itaca omerica e ancor più a quella kavafiana: questo centro perduto della vita trascorsa che non sarà più possibile ritrovare (ed è un bene che sia così), ma di cui l’uomo ha assolutamente bisogno come di una bussola, di un punto ideale che gli offre come dono il “bel viaggio”.
E perché allora, se mi consentite questa digressione personale, gli esseri umani più gustosi che ho incontrato (concedetemi l’improprietà dell’aggettivo qualificativo che non posso evitare, e comprenderete fra un istante perché: in greco si dice, infatti, άνθρωποι νόστιμοι) erano necessariamente degli esseri che mi facevano pensare ad un isola in quanto essi stessi erano delle isole? Uomini-isola: voglio dire rivolti verso il centro – quello di se stessi o quello di un’opera, il che è lo stesso – e simultaneamente inquieti, aperti all’Altro, assetati di viaggi, di incontri, di dialogo. Esseri-gustosi (νόστιμοι): cioé, se non proprio degli esseri che hanno realizzato il loro νόστος, il ritorno tanto desiderato dal loro animo, come ero incline a pensare nel corso della mia giovinezza ingenua, in quanto associavo la nostra concezione moderna del gusto (νοστιμάδα) al senso antico di νόστος, in ogni caso degli esseri sempre in partenza per il loro nostos, pur sapendo e presentendo sin dalla partenza l’impossibilità del loro ritorno; e che, malgrado tutto, restano attaccati all’idea del ritorno e, direi per questa stessa ragione, sono sempre alla ricerca degli altri – che cos’è dunque questo movimento che ci spinge irresistibilmente verso l’Altro se non il ritorno più difficile, il meno realizzabile verso la patria più profonda e più vera della nostra psiche? Se non un’altra variante del ritorno impossibile? Questa è l’universalità dell’esperienza insulare.
Io non idealizzo. So perfettamente quanta reclusione, muffa e noia, quanta privazione, oppressione e esilio può nascondere l’esistenza concreta degli uomini su di un’isola, come in qualsiasi provincia della terra. Ma io qui non parlo da pittore di costumi o da sociologo; parlo o cerco di parlare ontologicamente. Parlo dell’uomo che si sveglia un mattino su di un’isola qualunque da qualche parte sotto la volta celeste col sentimento di essersi miracolosamente trovato al centro del Tutto (in un’isola si è sempre, per definizione, al centro) nel momento stesso in cui egli contempla l’orizzonte; di quell’uomo che – non può essere altrimenti – avrà necessariamente un giorno la tentazione di cercare, di imparare, di conoscere ciò che esiste dietro la linea di quest’orizzonte, e in primo luogo perché il centro che lo attira gli sfuggirà ogni volta che egli si avvicinerà ad esso con l’illusione di essere sul punto di toccarlo. Io parlo di questa esperienza esistenziale preziosa, unica, nella quale l’attaccamento alla patria, lungi dall’escludere l’erranza, ne è la condizione, e che, tradotta in parole o in opera d’arte (il solo mezzo per l’uomo di viverla pienamente), acquista un significato universale.
Giacché, quando questa esperienza riveste tale forma, non getta soltanto un po’ di luce sul mistero permanente del nostro essere nell’universo, oggi come migliaia di anni fa o tra qualche migliaio di anni; essa illumina anche a contrario la condizione dell’uomo nel nostro mondo contemporaneo che sembra allontanarsi sempre di più dall’esperienza dell’insularità, nel nostro mondo unificato, omogeneizzato, nel quale non esiste più né dentro né fuori, né Qui né Altrove (guardate gli aeroporti che vi accolgono in qualsiasi parte della terra, guardate le megalopoli che crescono ai confini del pianeta ad immagine delle metropoli di ieri, nelle quali non c’è più né centro né periferia se si va al fondo delle cose; questo mondo che, da un lato, esacerba le differenze fra gli uomini, le etnie, le società, le culture, e dall’altro le sopprime attraverso le tecniche dell’indifferenza, dell’intorpidimento, della violenza; questa provincia ormai mondiale e autodistruttiva nella quale un fanatico nascosto nel profondo delle montagne afghane o un cow-boy del Texas possono, quando ne hanno voglia, far saltare i fragili equilibri del pianeta e della nostra psiche).
A questo riguardo, io vedo nell’esperienza insulare l’antitesi del provincialismo e forse addirittura il suo antidoto.
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Esiste una sensazione/emozione che qualcuno chiama il piacere dell’insularità.
Non posso che essere daccordo con quanto ho letto. Concordo in quanto isolano e in quanto isola (riprendendo una definizione del testo). Non posso che confermare la continua contraddizione con cui ci si deve confrontare, lo scontro con la necessità di andare oltre gli scomodi confini fisici (e culturali) e la difficoltà a liberarsi dalla forza centripeta che ci impedisce il distacco. Ma c’è anche un’altra possibilità, un’altra strada. Mi riferisco all’estremizzazione della condizione di insularità, all’esasperazione della dendenza all’autarchia, all’incancrenimento di ogni intromissione dall’esterno e al rifiuto di tutto ciò che non è indigeno, innato nel proprio contesto d’origine. Una degenerazione, questa, che non può portare a niente che non sia atrofia e isolamento (nel senso più negativo del termine) culturale e sociale.
Bravo Francesco! Quando lessi questo pezzo sull'”Atelier du roman”, mi esaltò e mi confortò; quando l’ho trovato parzialmente tradotto su “Sud”, mi sono sentito un po’ meno solo. Col che si evince, dal particolare all’universale, che il “tertium” degenere di cui parla Iltov può essere vinto anche attraverso l’empatia comune con testi come questo.
Sono nata per circumnavigare isole.
Mag-ellana…..:-)
A questo punto mi piacerebbe che l’ Italia fosse un’isola..forse in questo modo vi si creerebbe una nuova consapevolezza identitaria, che la renderebbe al tempo stesso un elemento più attivo del dibattito culturale europeo..