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Epifanie amorali

di Giorgio Tesen

La macinatrice di Massimiliano Parente è stato pubblicato nel giugno del 2005 dalla casa editrice peQuod. L’autore, trentacinquenne alla sua quarta opera, scrive per il settimanale di cultura “Il Domenicale” e, come recita una nota nel risvolto di copertina del volume “non è un giornalista”. C’è da aggiungere che l’autore pubblica un romanzo in un momento critico della produzione letteraria degli autori appartenenti alla sua generazione, critico perché negli ultimi due anni, sotto i colpi di un mercato letteralmente invaso dalle saghe epiche di hobbit & maghi e malgrado l’imperversare di codici & graal in salsa pariglia con vere e proprie ‘sezioni’ di librerie monotematicizzate, si è sviluppata una sensibilità del lettore nei confronti di romanzi come questo, buon segno anche perché il romanzo in questione non è l’esordio di un autore esordiente.

A questo interesse si aggiunge quello della critica, con un dibattito iniziato sulle pagine della rivista Nuovi Argomenti con un certo anticipo (Questo non è un romanzo, numero 28, ottobre/dicembre 2004) e che sta proseguendo altrove con esiti interessanti (penso alle riflessioni che stanno comparendo nella rubrica “Il romanzo del XXI secolo”, inaugurata da Davide Bregola su Vibrissebollettino.net, lo spazio coordinato dallo scrittore Giulio Mozzi).
Questo romanzo mi ha accompagnato da questa estate ad oggi, per una strana coincidenza ho finito di leggerlo più o meno negli stessi giorni durante i quali si svolgono le ultime vicende raccontate da Massimiliano Parente. Nel frattempo ho letto un’altra decina di libri ed ho scritto abbastanza, racconti e altro. Perché non ho scritto una recensione da così tanti mesi? La macinatrice è un romanzo che va letto lentamente, è l’unico modo – credo – per comprenderne i molti sensi. Chiudere la sua interpretazione nel racconto delle vicende della sua trama è poco. L’inizio è una nebulosa dalla quale cominciano ad affiorare le forme dei personaggi, dall’indistinto e involuto contorno. Ho cominciato a leggere questo libro tre volte di seguito prima di capire il grado di lucidità che dovevo assegnarmi per entrare in questa costruzione, poi ho capito “la sua memoria procedeva nel tempo cancellando le tracce, da cosa moriva cosa”. Si passa velocemente da un registro accurato, nel quale l’elenco dà la misura della precisione che si vuole raggiungere, nel descrivere per accumulazione; dal registro accurato si passa ancora più veloci ad un registro vago, più lento, dove diminuisce volontariamente la soglia d’attenzione “che quello che vedeva era quello che vedeva era quello che vedeva”.

Procedere in avanti per sottrazione di elementi, aggiungendo un nuovo elemento alla volta, sottraendo dalla situazione precedente, in realtà aggiungendo; il lettore non capisce se non che in questo modo vago l’autore riesce a fare slittarci dal presente in un flashback quando desidera, un altro inizio che viene prima dello stesso inizio, un origine che antecede l’origine. La mancanza di divisioni tra capitoli, sezioni e affini, all’inizio disorienta, il lettore per orientarsi ha la cosa più semplice di tutte, i giorni della settimana, in un tempo indefinito dove i giorni – all’infuori di un ritmo stagionale – si somigliano tutti. La maggior parte delle scene è ambientata infatti nel bunker dorato dei Torrenuova, dorato un tutto dire, dato che la Torrenuova è la replica di una miriade di aziende del bel paese, dove oramai non si bada nemmeno più alla forma piuttosto che alla sostanza, ma addirittura alla superficie della forma, dove la forma appena appena meno visibile è già ributtata indietro al livello di sostanza inavvertibile e quindi trascurabile, fotocopiatrici senza toner, stampanti senza fogli, porte scorrevoli che scorrono incantate e nervose al minimo passaggio.
Spezzettature del ritmo, “A Andrea”, “e è discreta”, “e è meglio”, la cui vicinanza ci avvisa dell’intenzionalità subliminale di un ritmo che quando non si appoggia sulla lingua tenta e recupera traslati: “si è fatta pure qualcosa in vena, […] e quindi è in vena di rivelazioni, di indiscrezioni, si sente un’eroina”. Modi di dire, descrizione di nevrosi “a farsi pagare due o tre franchi per affrancarli in cambio”.

La Sinistra (p. 22,23), così come viene definita, si scioglie in queste due pagine di Torrenuova-pensiero (due nulla semantici in competizione) – primo esempio di uno storming continuo e incessante – il protagonista di questa descrizione, anche perché si finisce a parlar di metafore, quindi è Torrenuova, perché “la sinistra accoglie chiunque si dica di sinistra, come i napoletani, ai quali basta dichiararsi napoletani per diventarlo”. Nervi scoperti che potrebbero saltare all’occhio ma che, leggendo con attenzione, sono nervi trasversali, carenze della destra caciarona e della sinistra finto intellettuale e dei chierichetti e dei nuovi superuomini borghesi, per non parlare della descrizione del regista Giulietti, simile a molti è vero, ma molto simile a Moretti.

Questi tic seminati destano l’attenzione, il ritmo della vicenda, da un quadro al successivo, da un giorno all’altro. Elemento che affiora è una certa nostalgia del presente, uno stadio nel quale Andrea contempla la realtà, riscopriamo le categorie del romanzo moderno >, si delinea un personaggio che sembra essere somma completa delle affezioni, le movenze e i pensieri del trentenne che vive nell’anno duemila, con colpi di tacco degni di un Bergonzoni shakerato assieme all’elenco verbale sfrenato di Moresco, con l’atmosfera d’oscura ambiguità di Dürrenmatt e, per finire, la frizzantezza supereliogabalica di Alberto Arbasino “calzini a scacchi di filo di scozia e di velluto a coste non navigabili..:”, “Che succede? Non sa che dire?/Non ha previsto l’inferno?/Una pecca nella cultura?/Una tallone di Achille?/Una spina nel fianco?/Un dubbio amletico?/Un lapsus freudiano?/Un lupus in fabula?/Un vuoto di memoria?/Un groppo in gola?/Una deglutizione impropria?/Il diavolo fa le pentole e non i coperchi?/Un colpo apoplettico?/Un colpo di fulmine?/Un colpo di Stato?/Un colpo del reato?/Un colpo di culo?Un cambiamento di rotta?”.

Dalla nebulosa affiorano due figure femminili, quella di Angela e Elena. A Angela e Elena, il Reality Show dei Tradimenti spontanei, Torrenuova che vuole allargare le frontiere dell’immaginario sessuale. A questo punto è necessaria una considerazione. La macinatrice non è un romanzo che procede per descrizioni, ne “La macinatrice” siamo gettati in situazioni che si succedono per evocazione di ipotesi della lingua, a volte narrativa e logica, sequenziale, altre volte isolata, affastellando immagini e pensieri associativi, concatenazioni, spaesamenti; un testo che ha assorbito una certa lezione deleuziana. Se a Torrenuova non interessano le ‘menate foucaultiane’, ad Andrea – il protagonista – sì, La macinatrice è il corpo del protagonista, “La vita a Andrea sembrava un romanzo senza inizio (nota: questo stesso romanzo di Parente, a mio parere, “non comincia”), fatto di finali che riportano a se stessi ricominciandosi a metà per dire che la fine era la fine era la fine, era già stata detta e non bastava a delimitare una chiusura, né un’apertura”, la triplice ripetizione, utilizzata più di una volta per sciogliere nel mantra la soluzione di un enigma, raggiungere la sospensione di un immediato a tu per tu con il lettore, come la ripetizione di un s.o.s. che può apparire urgente e non lo è. Da una parte l’indistinto presente, rappresentato da tutti i fatti, immanenti, come la Casa Editrice, Angela, Elena, Andrea, il Reality; dall’altra un esile filo, cui è appeso l’interesse, come un cadavere che penzola dal soffitto di un appartamento parigino, “salvagente narrativo”, “filo di Arianna”.

Un nucleo ulteriore è quello oltre il quale si cominciano a conoscere il carattere e l’intimità dei protagonisti, l’acrimonia di Monti ed il cinismo: “c’è troppa gente in giro che perde tempo a non farsi le seghe”. In senso lato questo romanzo può essere inteso come parabola della masturbazione, intesa come atteggiamento di autoegotismo e autoerotismo su diversi plateux. Difatti la masturbazione è una delle protagoniste in innumerevoli b-sides, la masturbazione dell’editore nei confronti della sua autorappresentazione come superuomo, la masturbazione attraverso il sito vivente (Vagina’s world), attorno al quale ruotano le vicende di tutti i personaggi, la masturbazione. Siamo ad una svolta di questo masso orbicolare romanzato, un blocco dove non troviamo suddivisioni se si eccettuano i giorni della settimana che cadenzano il blocco, demarcazioni che delimitano il passaggio da un tempo all’altro, con momenti culminanti di vero e proprio pantagruelismo del lessico: “Come denti cresciuti sottotraccia in un innesto di gengive globulari all’interno di un organismo complicato di orripilanti grappoli carnivori”, sublime e corroborante visione dal ritmo ossessivo e straniante, senza sentimenti, al margine delle emozioni. L’emozione ed il sentimento, ne La macinatrice, sono anodinicizzate, ridotte a pulsioni e istinti di sopravvivenza primari.

Alcune parti, più sospese ed ipnagogiche, sono più difficili da leggere (non perché complicate, ma perché vanno lette con più calma), perché nel processo di lenta approssimazione Parente ci conduce nei meandri sotterranei della Torrenuova, descrivendo ambienti, scene, macchine, con allusioni a codici di comportamento e procedure interne, che regolano il flusso dei personaggi, flash momentanei, passaggi nascosti de “La macinatrice”. La differenza tra allusione-sospesa-a-qualcosa-che-rimarrà-nascosto e vaghezza è così sottile da ingenerare l’epoché, il lettore in questi casi può affidarsi all’idea-immedesimazione con il personaggio di Andrea, di sicuro il più definito.
Un romanzo nel quale troviamo posizioni che sono agli antipodi per quanto riguarda l’espressionismo del politically correct cui siamo oramai abituati (consiglio di leggere, a proposito, Paesaggi italiani con zombie proprio di Alberto Arbasino). Parente non ha peli sulla lingua, le scene più belle sono di sicuro i brainstorming torrenoviani e le incursioni di alti prelati. Esente inoltre da ogni formazionismo del personaggio, la formazione semmai ce l’ha il lettore, nell’intravedere quali vizi possono nascondersi nei sotterranei di una vita normale: la casa Rostov infatti può essere nella periferia di Milano come può essere al Mandrione.

La parte finale, pressappoco le ultime cinquanta pagine, vedono ogni filo teso al massimo, sappiamo finalmente – sempre per lenta approssimazione – che cosa sia “La macinatrice”, e scopriamo come si chiuderà il cerchio aperto nelle prime pagine dall’autore. Il primo impulso che coglie il lettore è quello – appena terminata la lettura – di scorrere le prime pagine, per reinterpretare e delineare quell’atmosfera incerta nella quale era nato lo spaesamento iniziale. L’esperimento non riesce, la fine de La macinatrice si può apprezzare soltanto arrivando, parola dopo parola, alla fine, assumendo su sé il dramma di Andrea, in un romanzo che vale la pena di essere letto e lentamente, come ho avuto modo di fare in questi cinque mesi. Restano, inoltre, le molteplici considerazioni e i giudizi sul fitto sottobosco del mondo editoriale, vissuto dal punto di vista di chi ci si avvicina con il tentativo di trovare, a volte addirittura o realmente, un lavoro appeso ad un filo.

Ho letto, dell’editore peQuod, anche Gli ultimi giorni di Lucio Battisti, di Igino Domanin, e credo di dover leggere almeno altri tre titoli per farmi un’idea di una linea – la produzione di linee editoriali è l’unico ambito dove non bastano due punti perché ne sia individuata una retta –. Se questa linea tuttavia fosse retta e dovesse passare da questi due punti in particolare, scriverei che il piano che ne risulta delimitato è racchiuso in questa frase: “Il tempo che separa una coincidenza dall’altra riporta la vita a coincidere con tempi talmente morti da non poter far altro che spendere per riportarsi alla vita. Ecco perché stazioni e aeroporti sono pieni di negozi dai colori sgargianti. Comprare è meglio che soccombere”. Va forse individuata in ciò la coerenza dell’editore nei confronti dei suoi programmi? I personaggi di Domanin, come quelli di Parente, vivono il tempo, i sentimenti sono tossine che vanno espulse quanto prima, prima che affiorino nel circolo delle parole, si mutino in bubboni di senso, facendoci appunto soccombere a causa del pensiero ossessivo di noi stessi. La domanda è : “Siamo davvero così? E se la risposta è sì, c’è speranza di salvezza, al di fuori della narrativa italiana dell’oggi, nella vita?”.
L’atmosfera che fa di questo romanzo un’epifania amorale che riesce a sospendersi tra tutto e nulla, tra raziocinio e accumulazione di indeterminatezze, può essere rintracciata, questo è un buon indizio, in altri autori, in modi irruenti, ciò rende l’analisi di questo testo sintomatica. Prima di concludere, riprendendo il tema iniziale del nuovo romanzo di autori nati negli anni settanta, è bene notare come La macinatrice resista ad ogni accattivazione o ibridazione da parte di altri media, cosa intendo? Intendo dire che spesso i romanzi vengono oggi scritti come se fossero plot, mentre La macinatrice è un’opera letteraria nella quale la struttura sembra solo apparentemente non giocare un ruolo importante. I rimandi all’interno sono fitti, è come se l’autore restituendoci l’opera in una delle forme più semplici che si possa escogitare si imponga una difficoltà in più nel mantenere l’interesse della vicenda per ben oltre quattrocento pagine – come abbiamo detto – dividendo la narrazione in due tempi paralleli, un tempo cronologico scandito per sequenze di giorni settimanali ed un tempo dedicato al riaffiorare per tramite di Andrea dei ricordi passati, un diradare della nebbia che gioca a favore dell’attenzione nel lettore. Il blocco astrutturale sposta sulla narrazione e sulla vicenda raccontata il baricentro della responsabilità della scrittura. La macinatrice si colloca in una zona grigia a metà tra uno stile affermato e l’attribuzione mancata di maestri e affiliazioni da parte della critica, in un momento di dibattito nel quale spesso la rievocazione dei fantasmi del passato è strumentalizzata al fine di scacciare i pericoli di eliminazione degli stessi fantasmi da parte di opere del presente.

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