Grandi colossi e best seller, l’editoria è morta
di Jacopo Guerriero
Era la prima metà del XVII secolo e già il padre Baltasar Gracian, gesuita poi amato da Debord, raccontava in aforismi la condizione del lettore alle prese con biblioteche infinite. «C’è così tanto da imparare e così poco tempo per vivere». Non esisteva editoria, non secondo il concetto moderno, eppure una sfida si intuiva. All’avvio del XXI secolo, la quantità dei libri a disposizione dei lettori è cresciuta spasmodicamente. Ma quali potenzialità si sono aperte? Quali differenze culturali e politiche l’editoria libraria offre al pubblico? Esistono davvero strategie editoriali che si adottano per ampliare gli orizzonti?
A distanza di sei anni dal suo pamphlet ormai celebre, Editoria senza editori, André Schiffrin – già direttore di Pantheon Books a New York, oggi a New Press – registra in un nuovo volume, Il controllo della parola (Bollati Boringhieri, 89 pp., 12 euro), la situazione della grande editoria internazionale, a partire da quella francese e americana. Senza il piglio di Cassandra, nonostante «molte delle mie peggiori previsioni – dice – siano state superate dalla realtà».
La premessa è che il decadimento dell’editoria libraria non è altro che la trasformazione in merce di un bene, il libro stesso. La sua riduzione a feticcio o, semplicemente, a prodotto. Non si tratta qui di ripristinare la dicotomia tra cultura e commercio. Eppure, se intorno ai media l’attenzione resta vigile – vanamente peraltro, come sembra indicare l’anomalia italiana -, in pochi sembrano interessarsi all’editoria libraria transgenica che in un silenzio assordante divora quella indipendente, protetta da un conformismo culturale che gli addetti ai lavori, per primi, tendono a non scalfire.
L’esempio più emblematico, rileva Schiffrin, riguarda la Francia. Un paese ormai colonizzato in cui un libro, qualunque messaggio voglia trasmettere, deve per forza di cose vendere, in termini prioritari, non applicare diverse sensibilità critiche, di pensiero, forse di contestazione. La questione, posta in questi termini, può forse apparire semplicistica. La fusione tra Hachette e Vivendi, nell’ottobre del 2002, creò tuttavia, con l’appoggio diretto di Jacques Chirac, un monopolio di proporzioni eccezionali. Un mostro capace di mettere in ginocchio i librai attraverso condizioni commerciali soffocanti, di imporre la propria linea grazie a 222 testate di proprietà nel mondo, di minacciare direttamente la stampa concorrente di cui è largamente distributrice e sostenitrice tramite la pubblicità. Nel 2003, Bruxelles – cui erano ricorsi i tre principali editori indipendenti francesi, tra cui Gallimard – vietò l’acquisizione totale da parte di Hachette. Sarebbe stata una buona occasione per riaprire effettivamente il mercato, dividere Vivendi in parti diverse e aprire un segmento del valore stimato intorno ai 562 milioni di euro. E’ a questo punto, tuttavia, che la situazione francese diviene emblematica di un contesto comune. Il rifiuto da parte della Commissione a sezionare la quota rese possibile l’ingresso nel mercato editoriale solo alle holding che, nonostante le dichiarazioni d’intenti iniziali, oggi impongono una editoria marketing oriented, che occupa quasi interamente i canali distributivi e lo spazio della comunicazione, impedendo agli altri piccoli editori la sopravvivenza. Il processo di concentrazione che Schiffrin descrive è a tutti gli effetti tipico: grazie all’appoggio del potere politico, intimorito, grandi gruppi economici sono riusciti ad acquisire un dominio incontrastato su media e case editrici. Quanto più stretto è il controllo sull’editoria, tanto più difficile diventa aprire un dibattito pubblico coinvolgente sulla sua situazione. E quanto più potenti sono i media, tanto più difficilmente i governi cercheranno di impedirne ulteriori fusioni. C’è una costante, inoltre, proprio nel processo di acquisizione di marchi e di sigle. Grazie alla poca attenzione riservata dalla stampa e dalla televisione è difficile trovare lettori che si rendano effettivamente conto di come, quando muta una proprietà, il più delle volte avvenga una vera e propria vampirizzazione del marchio editoriale. L’assorbimento da parte delle holding, nonostante le prese di posizione rassicuranti che contraddistinguono i primi mesi di conduzione, finisce quasi sempre per svuotare i cataloghi, per piegarli al mercato e per sfruttare i titoli già pubblicati tendenzialmente per un progetto editoriale diverso da quello originario.
In altre parti del mondo è soprattutto la subordinazione del lavoro editoriale alla rete distributiva a creare crisi. E’ il caso degli Stati Uniti, ma anche della Germania e del Giappone. Non è utile ai fini della discussione esibire statistiche relative all’accrescimento dei titoli venduti. Il vero problema riguarda infatti l’effettiva probabilità di reperire o meno in libreria titoli non appartenenti ai cataloghi delle holding che, come è sempre più facile constatare, strozzano la distribuzione attraverso l’occupazione dello spazio. Negli Usa e soprattutto in Giappone è spesso già realtà il paradosso di librerie enormi imbottite di torri e piramidi di bestseller sempre uguali a se stessi, megastore che vantano meno disponibilità di titoli rispetto a una piccola libreria di provincia, destinata comunque al fallimento. La vendita per internet incide inoltre in piccola percentuale e, come sanno tutti gli operatori del settore, non è possibile fare a meno del canale libreria in cui nessuno è in grado di fare concorrenza ai grandi gruppi.
E’ a questo punto che conviene fare qualche riferimento alla situazione italiana, caratterizzata ancora da una spaccatura. Come fa notare Stefano Salis, nella preziosa introduzione al volume di Schiffrin, il livello generale del nostro paese resta ancora buono per quel che concerne il numero degli editori librari e la loro effettiva visibilità. Anche se non vanno sottovalutati i rischi relativi al settore distribuzione, nella realtà dei fatti sempre più un oligopolio. Un sistema perverso che predilige la continua esposizione e l’inseguimento al bestseller, che se in alcuni casi – Baldini Castoldi Dalai con Faletti o Sellerio con Camilleri- serve a sostenere una ricerca editoriale ancora brillante, nella maggioranza dei casi rappresenta invece l’evidente segno dello spossessamento del libro rispetto al suo valore d’uso, un valore dato dal lavoro che ci sta dietro e dall’approccio critico che veicola, non dalla sua capacità di essere bene di consumo. Per quel che riguarda i media – dice poi Schiffrin – «credo che in Italia ci siano ormai gli stessi problemi che esistono in molte altre parti del mondo. Con una caratteristica di eccezionalità: in Italia la concentrazione mediatica offre il peggio di se ed è a tutti gli effetti un incubo». Per ricostruire vanno fatti molti distinguo. «E’ essenziale capire quali siano le nuove strutture che si possono mettere in piedi per fare editoria a seconda dei diversi paesi in cui ci si trova. Per quel che riguarda i giornali, certo per l’Italia un modello cui ispirarsi potrebbe essere la parte migliore della stampa inglese. L’Observer e il Guardian sono giornali seguiti che pure appartengono a fondazioni indipendenti. E forse non è un’utopia pensare a giornali con larghe quote possedute dai dipendenti stessi». Cosa si può chiedere a un potere politico non asservito? «Si potrebbero fare molte cose, mettere in piedi nuove strutture, nuovi tentativi. Un’idea per quanto riguarda l’editoria e, in particolar modo, i librai sarebbe quella di adottare un regime fiscale agevolato, soprattutto per quelle librerie che tendono a vendere libri di catalogo. Sarebbe già qualcosa, esisteva già, presso la vostra Camera dei deputati, un disegno di legge di questo genere. L’essenziale è provarci, tentare di legiferare in questo senso».
E ritrovare, se possibile, le ragioni di un’indignazione. Quando qualche tempo fa, proprio a partire dal primo libro di Schiffrin, Carla Benedetti avviò dalle colonne dell’Espresso una polemica sulla «monocultura del bestseller» rimase quasi interamente inascoltata. O, meglio, fu travolta da un’ondata di quello che Schiffrin chiama «conformismo culturale». «E’ parte del cambiamento di struttura in atto, questo conformismo – insiste ancora l’editore – le grandi concentrazioni sono pericolose per la cultura anche per questo. In particolare le grandi case editrici non hanno più il ruolo che avevano un tempo, lasciano fuori le grandi voci dissidenti, sono dipartimenti di potere». Si può chiudere con una nota positiva: se la propensione alla concentrazione editoriale deve avere per forza un limite, un limite non lo può avere la tendenza alla diversità e alla radicalità. Anche se il dibattito è aperto e nuove soluzioni vanno indicate.
(Pubblicato su “Liberazione” – 31 Marzo 2006. Foto di A. Schiffrin: www.paulagordon.com)
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È un po’ sempre la solita solfa, questa.
Per quanto riguarda la situazione italiana, occorrerebbe uscire dall’ambito delle sensazioni per entrare in quello della comparazione dei dati.
Mi spiego.
Dire che ORMAI l’editoria italiana è dedita al culto del best seller, dove l’imperativo della vendita prevale su ogni altra considerazione e/o criterio, significa dire che si pubblicano solo o quasi libri di non qualità per un pubblico di bocca buona.
Ciò equivale a dire che un tempo (quale?) ciò non accadeva e che invece si pubblicavano libri di qualità (che significa “qualità”?) per un pubblico di buoni lettori?
Se la tesi è questa occorrerebbe confortarla con dati comparativi tra la situazione di oggi e metti gli anni Sessanta, o i Settanta e gli Ottanta, eccetera: quantità, titoli, vendite, eccetera.
E poi tirare le somme.
Se invece questi dati già esistono allora bisognerebbe sapere dove.
Il problema in Italia sta nella distribuzione: è questa che impone un ricambio forsennato del catalogo: ogni 40-60 giorni le rese e via così.
Quale piccolo-medio editore può reggere a questo ritmo?
Poi c’è la commercializzazione degli spazi interni alla libreria: a pagamento ti offro di stare in vetrina per 30-60 giorni.
Anche qui quale piccolo-medio editore se lo può permettere?
Poi c’è il mercato immobiliare impazzito: affitti alle stelle che solo le grandi catene possono reggere con i loro grandi spazi.
Continuare a parlare di “restaurazione” senza considerare il contesto economico in cui avviene è ridicolo: è come parlare della Francia del 1820 senza tenere di conto il Code Napoleon….
certo che dodici (12) euro per ottantanove (89) pagine non sono pochi… Disribuirlo _anche_ via internet gratuitamente con qualche licenza CC non sarebbe stato meglio?
Per quanto riguarda la narrativa trovo abbastanza deludente la situazione italiana. Discorso differente e opposto per la saggistica italiana. Ci sono ancora editori capaci di pubblicare opere coraggiose e quasi certamente in perdita. L’ultima? Quaderni di Filosofia di Andrea Emo, Bompiani. Impopolare persino all’humus della filosofia contemporanea.
@ luminamenti : sei sicuro che sia in perdita? E dimostra veramente qualche cosa?
Perché la narrativa è deludente e la saggistica no?
Sinceramente mi pare un giudizio impressionistico.
E’ possibile che tutto sia ascrivibile alla mancanza di uomini come Pavese o Vittorini?
faccio un esempio: con quello che c’è in rete di gadda, uno potrebbe anche scordarsi delle biblioteche e delle librerie. Non so come e perché, ma a breve non ci sarà più né la restaurazione, né la ristorazione.
leggo una stupidata dietro l’altra! ma chi è questo Guerriero?
Sì, sono sicuro che è in perdita (fino ad oggi. Domani cmq telefono all’ufficio vendite e ti saprò dire se è cambiato qualcosa). In quanto a ciò che dimostra la deduzione è semplice: qualcosa è in perdita quando si spende di più di quanto si guadagna.
In quanto al giudizio impressionistico è l’impressione che rimane al mio giudizio dopo aver letto ciò che umanamente le mie energie mi consentono di leggere della narrativa italiana che acquisto secondo ciò che riesce a influenzarmi. E non potrebbe essere altrimenti d’altra parte. Se no come farei a dire quello che ho detto (o eventualmente il suo opposto se cadessi sotto altre influenze qualora queste andassero in direzione inversa)?
Non so se hai capito quello che non ho scritto!
D’accordo sul pericolo dei monopoli. Ma la storia dei “megastore” USA e’ una sciocchezza: certo c’e’ un vantaggio ad avere librerie indipendenti, ma non sta affatto nell’assortimento, ma piuttosto nell’assistenza e nel servizio personale al cliente. In Italia, neppure questo: librerie-boutique, dall’assortimento scarsissimo, salvo pochissime eccezioni metropolitane. I megastores funzionano molto bene, permettono l’avvicinamento alla lettura da parte di masse di lettori che in italia nemmeno vi sognate. Meglio nove persone su dieci che leggono il bestseller che nove persone su dieci che non leggono niente del tutto. Per la “long tail” (sai cos’e’, vero, Mr. Guerriero) c’e’ Internet. Nella mia citta’ di provincia, ho accesso a tutti i libri in inglese tramite il sistema delle biblioteche, Borders e Amazon.com.
@ luminamenti
Continuo a pensare che il tuo giudizio sia “impressionistico”. Se dicessi che la narrativa sta attraversando un ottimo momento nell’editoria italiana, mentre la saggistica è deludente (ovvero l’opposto di quello che scrivi tu), come proseguirebbe la discussione?
Sinceramente non credo che la pubblicazione di un singolo volume di filosofia possa essere esemplificativo di qualche cosa di nuovo.
@ Paolo G
Secondo me sottovaluti quella che la vera trasformazione introdotta dai megastore nella filiera editoriale: ovvero i magazzini centralizzati e la commercializzazione degli spazi. In Italia la conseguenza è un colpo molto forte a tutta la piccola editoria locale e di ricerca.
A questo poi si somma un punto sottolineato da Schiffrin: quando le case editrici entrano nei grandi conglomerati dei media si chiede loro di raggiungere percentuali di profitto, rispetto al fatturato, pari agli altri settori.
Le due cose sommate rendono indispensabile, per le case editrici, puntare su titoli a “smaltimento molto veloce”, rendono poco interessante il lavoro sul catalogo, che ha perso molto valore, e su volumi prestigiosi e di lunga durata.
Non mi pare poco.
mah… non so: il libro è sempre stato un prodotto. E tashtego dice una cosa intelligente: bisognerebbe fare paragoni con i decenni precedenti.
E’ stato fatto – da tanti e in molti saggi e tesi – in questi anni, e devo dire che c’è una sola regola che mi sento di formulare senza timore: “il best seller a tavolino non esiste”. O meglio, si può riuscire a vendere “molto” (ma prima bisogna intendersi quanto è “molto”) un libro ma a venderlo “bene” e a lungo sono fattori perlopiù ingovernabili.
L’elenco dei best degli anni Settanta, per esempio, ha titoli stranoti (“La Storia” della Morante, ad esempio, oppure i soliti Moravia, Chiara) oppure titoli che oggi ci dicono quasi nulla (chi ricorda “Berlinguer e il professore”?) oppure ci sono noti ma nessuno li legge più (Pomilio lo si legge ancora, magari all’Università? Mah..), mentre altri titoli che all’epoca non fecero furore oggi sono stati ripresi e vanno fortissimo (se pur con un po’ di fatica, stanno rieditando tutto D’Arrigo, e forse Volponi non è mai stato tanto apprezzato, almeno in certi ambienti). Quando si parla di editoria si dimentica una caratteristica fondamentale del catalogo: è fatto per restare; e il Tempo è Galantuomo.
Ecco, su questo sono d’accordo: se si smette di lavorare sul catalogo è la fine. Ma non credo che gli editori saranno tanto pazzi: per dieci così irresponsabilmente concentrati sul profitto immediato del nuovo, ce ne sarà sempre uno che farà un lavoro differente, se non altro proprio per differenziarsi (la “nicchia” è una categoria di pensiero economica, mica intellettuale…) e da lì emergerà tutto quel che basta per alimentare il fuoco lento della creatività, della qualità. Finché uno di questi libri non avrà successo e allora l’autore firmerà un contratto con uno dei dieci editori irresponsabili… ;) io, alla morte definitiva del “doppio binario” non credo: perché al limite è morto quello interno (l’abilità delle case editrici di costituire un “vivaio” attraverso delle collane dedicate), ma non può morire quello esterno, tipicamente del mercato. Così come è globalizzato il calcio, ma le grandi squadre vanno a prendere i calciatori sulle spiagge dorate del Brasile in un mondo povero ma fertile, anche l’editoria più globalizzata alla fine dovrà pur sempre cercare il talento là dove cresce spontaneamente.
Ben detto, Marco. Dirò di più, sono le piccole etichette che si concedono i tempi e i saperi di una sperimentazione intelligente, mentre la best-sellerizzazione inaridisce l’identità e può alla lunga impoverire la casa editrice stessa.
Ma se i megastore non tengono più il catalogo, cosa significa lavorare “sul catalogo”?
Sono d’accordo con te sul fatto che è in corso un processo di specializzazione: i grandi da un lato, i piccoli dall’altro con prospettive molto lontane. Ma non è forse proprio il binario mediano che genera l’identità culturale?
Se si rinuncia a parlare a tutti, a farsi leggere da tutti, non si corre il rischio di accettare una identità culturale frammentata in molti piccoli ghetti iperspecializzati?
per marco v e Paolo S.:
piccolo appunto (come eco di un vecchio discorso della benedetti), ma molto pragmatico: l’evento più palese e più influente, se visto dal mero punto di vista dell’utenza, del lettore-compratore, nella riorganizzazione editoriale recente, come una fusione tra Hachette e Vivendi di casa nostra, dal punto di vista della nuova conformazione DELLA libreria (e quindi del sistema di offerta), è stato l’accorpamento feltrinelli-ricordi. sicuramente qui se n’è già parlato. mi pare che schiffrin-guerriero diano per scontato questo evento, nella loro ricostruzione dello stato dell’editoria in italia. evento che, come è noto e come dice giustamente l’articolo, ha tendenzialmente schiacciato la possibilità del lettore-compratore a rifornirsi di libri-merce dei piccoli-medi editori. Un caso recente è l’estromissione, da parte della libreria per eccellenza in italia, delle sue catene, della rivista ‘l’immaginazione’ di lecce (manni), che da quel momento fa appello diretto ai lettori per il sostentamento vista la posizione di chiusura delle librerie feltrinelli(ricordi). che senso ha parlare come fa paolo delle” piccole etichette che si concedono i tempi e i saperi di una sperimentazione intelligente” senza pensare CONCRETAMENTE alle dinamiche distributive dei grandi editori che le stanno emarginando implacabilmente dai loro megastore?
@ R. R.: Giusto 3 esempi: Corraini Ediotre fa una politica “straight edge” di distribuzione. NON ESISTE resa. E li trovi nei negozi di arredamento. Libri. Molti sono di Munari (border con larte o il design ecc ecc), ma libri.
Adelphi: guarda il loro catalogo, e dimmi come fanno a tenere TUTTI quei titoli IMPOSSIBILI a catalogo. Li ristampano, pure. Probabilmente ignoro qualcosa di fondamentale su chi finanzia Adelphi, illuminatemi. Però, accidenti, se fanno una politica di catalogo. E da quel che so, loro vendono più nelle librerie che nei megastore, fideizzano i librai. Fideizzano i lettori.
Quodlibet va a caccia di saggi fuori diritti, presso editori che non sono interessati (magari in un dato settore) a ristamparli, per ripubblicarli e li distribuisce (principalmente) attraverso le librerie “universitarie”…
@ Rigoni: ahimé, non si parla a tutti con il libro oggi. E’ un mito. (Neanche ieri. Vi ricordate le polemiche del Settecento CONTRO il romanzo? Con il romanzo che travia i giovani ecc. ecc.) E’ la tivù che parla a tutti… Sky permettendo!
@ Paolo S
Gli esempi che porti dimostrano quanto stavo cercando di dire:
1. Corraini: ciò che non passa nel canale librario non può essere definito libro. Altrimenti tutti gli stampatori che pubblicano su commissione sono geni dello straight edge…
2. Adelphi: da anni alcuni titoli non vegono più pubblicati e il catalogo è ben luingi da essere tutto disponibile. Non avete mai trovato volumi Adelphi dai remainder?
3. Quodlibet: un caso senzaltro nobile. Ma non è forse una nicchia che può essere percorsa perché poi ci sono i volumi finanziati dall’università a permettere questa ricerca? E poi c’è un disegno, un progetto editoriale in questa ricerca?
Le polemiche Settecentesche, poi, non avevano nulla a che fare con la distribuzione e gli aspetti economici. Anzi proprio la grande diffusione della stampa faceva temere per la tenuta della moralità.
Invece è possibile accettare che solo una massa di eletti leggano? Che il resto si abbrutisca?
Io spero ancora di no.
L’imprenditore – l’editore in quanto imprenditore – non lavora mai nel vuoto cosmico, e neppure in “condizioni ideali”. Allora può a) lamentarsi per le condizioni avverse b) cercare di modificare le condizioni c) cercare di migliorare il suo prodotto, perché si adatti alle “condizioni reali”. E’ scontato che (a) non porta da nessuna pare; (b) è una cosa che si fa a come gilda, spesso contro altre gilde, esercitando leggittime o illeggittime pressioni; (c) è l’unica cosa che fa paura ai concorrenti, perché è più dura da fare ma alla lunga paga di più. Ovvero: l’innovazione, ma anche l’identità forte, il buon progetto editoriale, il buon progetto di comunicazione, eccetera.
Chi si butta sui bestseller da megastore e con massiccio marketing, chi non investe sulla qualità ripeto, alla lunga rischia di più.
Esempio: le librerie Quaglia (invento) sono librerie “di scuderia”, ma il loro obiettivo è avere clienti e vendere libri. I responsabili acquisti saggi, anche se gli ordini di scuderia sono “vendete prima Quaglia”, sanno bene che se seguissero alla lettera la poitica di scuderia venderebbero molto meno e i clienti andrebbero altrove. I giohi sono molto più sottili e delicati di quanto appaia a prima vista…
Esempio 2: Einaudi ha un tesoro a catalogo di saggistica, e meravigliosi PBE vecchi di vent’anni vengono ristampati. Alcuni finiscono dai remainder, altri sono temporaneamene fuori catalogo. Ma la potenza del catalogo resta ben più grande di chi oggi stampa Bruno Vespa. Che però fa cassa ecc ecc…
Forse non ci siamo capiti. Non è mia intenzione sostenere la politica del bestseller. Al contrario.
Il problema è che viviamo in un momento in cui il modo stesso di produzione rende quasi obbligatoria una politica del genere.
Per il mercato c’è spazio o tra i bestseller o nella nicchia. E’ questo che a me pare preoccupante.
C’era un momento in cui la PBE Einaudi era considerata, e criticata in casa editrice, un cedimento al mercato di massa. Mi pare indicativo di come siano cambiate le cose.
Caro Rigoni se tu dicessi il contrario di quanto io ho detto sul rapporto narrativa-saggistica la discussione non proseguirebbe, ma indicherebbe solo che tu hai un giudizio diverso dal mio altrettanto valido. A me piace la saggistica che si pubblica in italia e non piace la narrativa italiana che si pubblica e il mio giudizio non può che essere basato, come per tutti su due criteri: quello che riesco a leggere e come sono fatto io. In quanto al mercato esso funziona sul profitto e quando c’è un editore che pubblica un libro sapendo già che sarà molto difficile averne un profitto, ciò mi indica un diverso criterio di valutazione editoriale. Ma non ho niente contro chi decide in base al possibile profitto, che mi sembra una scelta di buon senso. D’altra parte i buoni libri possono essere capiti da pochi! Se fosse il contrario il mondo già sarebbe perfetto! In quanto ai piccoli editori per sopravvivere o hanno la possibilità di campare con altro o devono inseguire il profitto, quindi divenire grandi, cioè essere competitivi su ciò che il mercato chiede: libri mediocri scritti da scrittori mediocri per lettori mediocri…Paolo Coelo eccetera eccetera
scusate ma quando sento dire che la politica delle grandi catene ammazza la piccola e media editoria resto perplessa e non capisco. ma perchè io che vivo in una città dove non esistono le grandi catene ma solo tre quattro librerie “normali” l’assortimento di piccoli e medi editori che trovo da feltrinelli me lo posso solo sognare? dov’è il nesso?