Presentazione di “Dalla vita di un fauno”
al Goethe-Institut Napoli
Riviera di Chiaia 202
80121 Napoli
Tel: +39 081 411923
Fax: +39 081 426764
info@neapel.goethe.org
Presentazione del libro
Dalla vita di un fauno
di Arno Schmidt
20 aprile 2006, ore 18.00
Sala conferenze del Goethe Institut di Napoli
Arno Schmidt (1914-1979) è una delle figure più complesse e feconde della letteratura tedesca del XX secolo. Grande risonanza ebbe il memorabile Zettels Traum (1970), poderoso volume di 1334 pagine in formato A3.
Per la prima volta appare in italiano l’opera Dalla vita di un fauno (1953) – parte della trilogia Nobodaddy’s Kinder, grazie all’editore Lavieri. L’edizione italiana, tradotta da Domenico Pinto, ha ottenuto tra l’altro il contributo previsto dal programma di incentivi alle traduzioni di autori tedeschi del Goethe-Institut.
A presentare la prima parte della trilogia, esemplare parabola di guerra, ritorno e apocalisse atomica, saranno il traduttore Domenico Pinto e i docenti Giancarlo Alfano (Seconda Università degli Studi di Napoli) e Gabriele Frasca (Università per Stranieri di Siena).
info: Elena Catuogno, tel. 081 411923 (int.19)
catuogno@neapel.goethe.org
[Arno Schimdt fotografato da Alice Schmidt, immagine tratta da www.christianbourgois-editeur.fr.
Per maggiori informazioni sull’autore, rimando al sito della casa editrice Lavieri.]
Schmidt è un autore che si conosce poco in Italia. Inspiegabilmente, perché è apparso molto per tempo in una vecchia, ormai introvabile, edizione Einaudi. Eppure è uno scrittore fondamentale per la storia della narrativa europea del secondo dopoguerra. La sua esperienza di disgregazione del continuum narrativo sembra essere stata (colpevolmente) rimossa -un po’ come, per altri versi, è stata in parte rimossa e solo tardivamente riscoperta, l’esperienza di uno scrittore italiano per certi versi (anche se non in tutto) simile a quella di Schmidt: la prosa di Antonio Pizzuto (specie dell’ultimo Pizzuto, che alcuni critici, come Luperini, sono giunti addirittura a considerare immetabolizzabile sul piano di quella che potremmo chiamare, in modo abborracciato, la nostra filogenesi letteraria). Curioso frutto di paradossi storici, la circostanza che, nello strano paese della porosità e dell’indebolimento dell’essere e del conoscere, la voce, sia locale sia straniera (di scrittori dal canto loro vicini, sul piano ideale, a correnti di pensiero “fortissimo”), della porosità del cronotopo narrativo non abbia trovato orecchie attente…
“[…] un classico clima di transizione dal rimosso al rimorso accademico […]”
Aldo Tagliaferri a proposito di Emilio Villa, adatto anche qui (sia per Schmidt che per Pizzuto).
“Tò tes aorasìas àor ikhthyoeidès…”, la daga ittiomorfa del buio che occhio non indaga, a cui allude Emilio Villa nella prima poesia di “Tà Thèbesi tèikhe” (“Le mura di Tebe”), colpisce, in genere, autori che abbiano due connotati assolutamente mortiferi in questa nostra periferia del mondo semi-civile: 1) l’essere impolitici (tutti gli scrittori più o meno considerati o considerabili, anche magari solo per un fatto cronologico, d’avanguardia, che non si siano anche, per un verso o per un altro, immessi a suo tempo nel gran fiume della cultura dei due opposti conformismi, rivoluzionario e conservatore, sono stati di fatto emarginati); 2) più profonda e gravida di implicazioni, la volontà deliberata di forzare all’estremo la doppia articolazione del linguaggio, rompendo l’equilibrio dinamico fra analogia e anomalia a nettissimo favore di quest’ultima… Tanto che la parola di determinati scrittori, sotto il peso delle memorie intersecate che essa può evocare, finisce per andare incontro a una sorta di collasso gravitazionale del significato. Le forme espressive estreme danno luogo così a singolarità linguistiche da cui la luce del senso sembra quasi non potere e non dover sfuggire, tanto lo spazio comunicativo ordinario appare curvo e distorto: l’assoluta singolarità dell’autore come individuo, in un contesto indifferente alla voce del singolo, paga il prezzo del non ascolto nel mondo degli “scienziati normali” della critica letteraria. A meno che un lettore non incontri nel buio, per caso, l’oggetto libro collassato e non vada a impattarvi contro, finendo così, positivamente, dilacerato. Di qui l’ignorare proprio della critica: ignorare che è spesso essere indifferenti ma anche, ahimè, altrettanto spesso, davvero profondamente ignari…
Non credo che sia un male l’essere ignorati dalla “Letteratura”, di cui certa accademia è solo un aspetto.
Certi libri, certi autori, restano come asteroidi vaganti; quando li si incontra l’impatto, non ammorbidito né preparato da decenni o secoli di antologie e note a pie’ di pagina, ha una qualità propriamente materica con cui poche altre esperienze rivaleggiano.
Mi piace pensare che alcuni autori abbiano scritto tenendo esplicitamente conto anche di questo parametro – mi sembra sia il caso di Schmidt, e di Villa senza dubbio -. È da render loro grazie ogni mattina.