Reportage dall’inferno
La discesa di Cristina Giudici nell’Islam italiano
sesta puntata de “Il giornalismo italiano e l’Islam”
un’inchiesta di Roberto Santoro
[leggi la prima, la seconda, la terza, la quarta e la quinta puntata]
Tutto è nel punto di vista.
Tutto il visibile è nel punto di vista.
Gilles Deleuze
Negli anni ottanta, Cristina Giudici lavorava per Radio Popolare. Ha vissuto e raccontato il dramma della guerra civile in Nicaragua e continuato a scrivere di attualità e politica estera per “il Giorno”, “Avvenire”, “Anna”. Dal 2002, pubblica lunghi reportage sulla comunità islamica nazionale nelle pagine del Foglio. Sette di queste inchieste sono state raccolte nel volume L’Italia di Allah. Storie di musulmani fra autoesclusione e desiderio di integrazione. Un brillante saggio di idealismo democratico, che nel 2005 ha vinto il premio “Maria Grazia Cutuli” per il giornalismo.
Questo libro non è stato pensato per dare risposte, ma solo per sollevare dubbi attraverso storie personali di donne, uomini e adolescenti. Per raccontare che cosa voglia dire vivere all’interno di una famiglia che spesso combatte contro le libertà occidentali, e che cosa significhi per i giovani avere una doppia educazione, quella impartita nelle scuole pubbliche e quella ricevuta in casa o in moschea.[1]
Il percorso intellettuale di Giudici è comune a quello di altri giornalisti che negli ultimi anni hanno rotto il vaso del multiculturalismo, mettendo al centro del proprio lavoro la questione della riforma islamica. Giudici non si ritiene una seguace dell’orianismo nazionale e nemmeno una puerpera neocon. L’influenza di Giuliano Ferrara le è servita per “problematizzare” la questione islamica, senza giudicare le ragioni e i torti.
La reporter si muove su un doppio piano di scrittura, liscio e scivoloso, giornalistico e indiziario. La ricerca sul campo è il nobile principio che la spinge a visitare le moschee italiane, infiltrandosi nelle pieghe dell’islam di casa nostra, per dare voce alle nicchie sociali – le donne e i giovani – in cui maturerà il rinnovamento (nahda).
La famiglia musulmana è il cuore della questione islamica, un microcosmo appartato dal resto della società italiana, dominato dal conformismo, dal maschilismo, da un regime patriarcale che alle gonne preferisce la jallaba. L’onore, la vendetta, un sospetto generalizzato, mille sotterfugi, sono questi i sentimenti dilaganti nella famiglia musulmana “media” in Italia.
I fallimenti del nucleo domestico islamico sono alla base del processo di modernizzazione chiesto a gran voce dall’autrice. In realtà, dietro questa psicoterapia familiare, Giudici nasconde il vero timore che prova nei confronti delle più aggressive caratteristiche dell’emigrazione musulmana: “il numero e la potenza generativa”.[2]
Il grande avversario di Giudici è “lui”, il padre, marito e fratello, un essere dalla libidine sconfinata e dalla sessualità retrograda.
Il maschio arabo pensa solo a riprodursi e a difendere con i denti l’onore delle mogli e delle figlie. Il sesso è “il grande tabù” islamico, sicché la diversità tra “noi” e “loro” non ha più radici razziali ma è diventata una “guerra tra sessi”.[3] La convinzione che l’islam possa essere spiegato da un insieme di concetti essenziali (sempre e solo quelli), come la sessualità degradata, il dispotismo maschile, la sottomissione femminile, mostra i limiti della visione di Giudici, la venatura paternalistica della sua promessa riformatrice. “Gli arabi contano solamente come creature puramente biologiche” dice Said, “istituzionalmente, politicamente, culturalmente sono nulla, o quasi. Sono reali soltanto numericamente e in quanto membri della famiglia”.[4]
È vero che l’islam italiano è attraversato da problemi angosciosi e che la giornalista non inventa nulla, ma bisogna tenere conto dell’uso che l’autrice fa di quei concetti all’interno della sua narrazione. L’eccitazione del maschio islamico diventa una sorta di background culturale neutrale e obiettivo. Qualsiasi studentessa italiana a Milano vi racconterà almeno una storia di molestie verbali subite in autobus da un carnefice marocchino; queste idee “sembrano possedere uno status epistemologico eguale a quello della cronologia storica o dei dati geografici”.[5]
Poi si scopre che un’operaia cinquantenne di Bagnatici, in provincia di Bergamo, dopo aver denunciato il suo boia marocchino per violenza carnale, è stata accusata di aver mentito, anzi era consenziente, tanto da aver avuto precedenti rapporti sessuali con il presunto maniaco ben prima dell’inaudita violenza, come ha provato l’analisi del DNA (9 dicembre 2005). L’eccitazione tremebonda del marocchino in autobus, per Giudici, invece è un fatto generale, non è una colpa individuale. Nel novanta per cento dei casi, “lui” è sempre umiliato, sprofondato in una condizione di arretratezza e sfruttamento. È un essere abietto che prova rancore verso la società italiana, dove le mogli lavorano ed escono da sole e i figli vanno a scuola e fanno quello che gli pare. Il villain è maestro della dissimulazione (taqya): predica l’integrazione dei familiari in pubblico ma in privato vieta ogni contatto fisico con gli infedeli.
Lui. Lui e sua moglie che lo sfida (e qualche volta scappa). Lui e i suoi figli che vorrebbero essere italiani, ma non sanno bene come. Lui, lei e l’altra. (…) Lui e la società occidentale che lo incalza, che spesso lo giudica e lo condanna, inducendolo a costruire una barricata di cemento armato per difendersi da un mondo incomprensibile. È fra le pareti domestiche – siano stanze affollate o appartamenti residenziali poco importa – che lui combatte la sua guerra contro l’Occidente. (…) lo scontro con l’Occidente è fatto di piccole cose.[6]
I conflitti privati, familiari, generazionali, per Giudici non sembrano avere valore di per sé ma solo in quanto subordinati al fatto che stiamo parlando di maschi arabi. Ogni angolo della famiglia islamica è stato reislamizzato dall’arrapato di casa.[7]
Il particolare è la norma
Il limite del multiculturalismo italiano, secondo Giudici, è di non riuscire ad assimilare le altre culture alla nostra. L’Italia si è mossa a tentoni tra i modelli di integrazione europei, quello francese, inglese e tedesco, senza riuscire ad elaborarne uno specifico e originale. La più grave conseguenza di questo processo sociale è stata la creazione di ghetti musulmani ostili e rinchiusi su stessi, che occupano le piazze, i centri e i contorni di una città sempre più de-italianizzata.
Giudici usa decine di testimonianze per legittimare le sue tesi riformiste. Interviste e prove empiriche nella sua prosa appaiono soverchianti.
Il paradigma è quello del giornalismo d’inchiesta unito all’indagine sociologica: la comunità islamica italiana va raccontata dall’interno, ma non è chiaro in che misura questa comprensione sia dettata dal punto di vista e dalle idee dell’autrice. Se l’intento è quello si sviscerare ogni aspetto della questione islamica, se Giudici non vuole trascurare nessun dettaglio utile, se intende cogliere la complessità del mondo musulmano italiano, allora perché i dettagli scelti per la narrazione sono sempre gli stessi, con una certa predilezione per i più intimi e truculenti?
La verità è che al di là dei buoni propositi giornalistici, il particolare diventa la norma e la famiglia islamica ogni volta finisce per essere descritta come una gabbia di matti, dominata da un padre padrone che scarica il suo erotismo represso su moglie e figli.
Si può dire che l’educazione delle donne islamiche è “mirata a trasformarle in brave spose musulmane” e che il matrimonio è la “tappa finale” dell’educazione islamica. Si può dire che la verginità è un tabù, come pure il sesso fuori dal matrimonio. Mai e poi mai, però, a Giudici verrebbe in mente di paragonare la famiglia islamica a quella cattolica, forse preoccupata dalle analogie che un confronto del genere potrebbe suscitare. Se mai, è importante marcare le differenze, annunciare che gli islamici fuggono da Allah per abbracciare Nostro Signore. Le alte gerarchie cattoliche vanno spronate a un maggior impegno nella difesa dei catecumeni islamici minacciati di apostasia dai loro ex confratelli:
‘La conversione dei musulmani al cristianesimo coinvolge molti intellettuali, che hanno avuto la possibilità di fare studi comparati fra le due religioni e hanno scoperto che nel cristianesimo esiste la possibilità di dialogo negata dell’Islam’, spiega Mostafa al Ayoubi, marocchino e musulmano, caporedattore della rivista “Confronti”.[8]
Lo scopo ultimo della rigorosa analisi di Giudici non è semplicemente quello di mostrare che la scala dei valori tra noi e gli arabi è diversa, l’obiettivo è piuttosto quello di dividere gli islamici tra loro: da una parte ci sono i mariti che costringono le mogli italiane a una conversione forzata e dall’altra le donne arabe che hanno riscoperto l’infinita bontà del cristianesimo. I primi vanno perseguiti, le seconde protette e istruite.
Questa divisione sessuale anticipa l’altra grande opposizione, questa volta politica, sociale ed economica, tra i riformatori e i fondamentalisti all’interno della Umma, la comunità musulmana. L’idea che la Quarta Guerra mondiale è soprattutto una guerra dell’islam contro se stesso, una lotta intestina che sconvolge le società, le famiglie e l’individuo.
Su tutti e due gli islam, a sorvegliare, a controllare, c’è la occhiuta giornalista del Trust, forte della sua italianità, di un sistema di valori democratico che gli permette di padroneggiare l’argomento in discussione, con il suo stile pungente.
Giudici racconta l’islam italiano con un misto di simpatia e di antipatia. Dialetti, scuole, traffici più o meno leciti. Un avversario che sfrutta i punti deboli dell’integrazione solidale per flettere i muscoli della propria irriducibile identità. La giornalista mostra di avere un feeling speciale con le ragazze musulmane che guardano di nascosto i programmi di Maria De Filippi, mentre detesta i genitori che costringono i loro figli a imparare a memoria il Corano. La stima verso chi vuole integrarsi è pari al disprezzo mostrato nei confronti di chi resiste al cambiamento.
In questo mucchio di barbuti selvaggi, Giudici intravede movimenti silenziosi, impercettibili, i fuoriusciti e i perseguitati politici, gli intellettuali laici, che insieme ai giovani e alle donne dovranno mettere in discussione la sovranità religiosa, accettando quella dello stato italiano. In cambio avranno maggiori diritti e un giorno, forse, il voto.
Come il giornalista Yassine Belkassem che ha condannato il velo e gli istituti di cultura islamici e si batte per “una interpretazione moderna e più laica, che metta d’accordo Islam e democrazia”.[9]
Idealismo democratico è anche questo modo di ‘usare’ l’intellettualità subalterna, quella dei fuori dal coro come Belkassem, per sponsorizzare il progetto di riforma dell’islam. Belkassem vorrebbe più finanziamenti dallo stato per aprire centri culturali laici, altro che moschee. Questa richiesta, assolutamente condivisibile, lo rende agli occhi dell’autrice un partigiano che sta dalla nostra parte. La stessa dei leghisti che si oppongono alla costruzione della moschea di Gallarate?
Nei reportage di Giudici c’è simpatia per Belkassem, ma non c’è spazio per le teorie sulla ibridazione delle identità e sulla transumanza globale che la giornalista considera i residui del vecchio armamentario critico postmoderno. Giudici appare un osservatore libero da pregiudizi ma in realtà valuta in continuazione i suoi personaggi e li rinchiude in paragrafi e fascicoli. Grazie a lei, l’islam italiano non è più qualcosa di sfuggente, “la sua estraneità può venire tradotta, i suoi significati si possono decifrare, la sua latente ostilità si può mitigare”.[10]
Via Cremonistan
Giudici parla a nome di chi resiste all’oltranzismo religioso, a nome dei musulmani che vogliono diritti umani, garanzie civili, libertà di espressione. Come si potrebbe contraddirla? Tra i giornalisti del trust, a prima vista, sembra la meno influenzata dai pregiudizi religiosi e dall’ideologia.
L’esperienza accumulata nelle inchieste sul mondo carcerario, l’intuito, l’attenzione rivolta ai dissidenti e alla questione femminile, sono ottime credenziali per ricevere un passaporto di ricercatrice democratica.
La consapevolezza del proprio metodo di analisi diventa quindi il pass-partout per legittimare qualsiasi affermazione. I fatti, i dati materiali, antropologici, sociologici, demografici, sono lo schermo di uno stile allusivo, detrattorio, pieno di insinuazioni.
In mano ai musulmani, Cremona è diventata il “Cremonistan”, succursale del più celebre “Londonistan”. La deformazione spregiativa del nome scelta da Giudici è un ritornello che incontriamo spesso sulle pagine del “Foglio”. I ‘foglianti’ adorano i calembour, parlano di “Belgistan” e di “Hamasland” per stigmatizzare le comunità islamiche trapiantate nelle metropoli europee.[11] Giudici partecipa a questo gioco linguistico raccontando le mille e una notte dell’infernale Cremonistan, ambientazione privilegiata dei suoi reportage. Cremona era un tranquillo borgo medievale, una “città agricola con un’antica vocazione musicofila”, che lentamente è piombata nella paura. Questo paese di liutai, abitato da brava gente che ama la musica classica ma che il giovedì sera non disdegna la movida, è stato prima occupato e poi rivoltato dai musulmani. Gli ospiti sono diventati sempre più invadenti, parlavano con “lingua biforcuta”, non mangiavano come noi, non pregavano come noi, si appartavano, finché la polizia ha smantellato una cellula di terroristi del gruppo Ansar al Islam. Tra gli arrestati c’era pure Noureddine Drisse, bibliotecario della moschea di Cremona e reclutatore di mujaheddin. Senza dubbio la sovversione islamista è una minaccia per la democrazia italiana, Giudici ha ragione a insistere su questo punto.
La forzatura sta nel generalizzare, alludendo alla possibilità che qualsiasi musulmano abbia chiesto un libro al bibliotecario Drisse sia stato sottoposto al lavaggio del cervello e arruolato al martirio. L’aria che si respira a Cremona è proprio questa, nonostante la brava gente della nazione che si fa gli affari suoi e tira avanti con il lavoro di ogni giorno. Un’aria cupa, amara, roba che i liutai hanno tolto il saluto agli ambulanti marocchini.[12]
Ma pensiamo alle molteplici sfaccettature del nostro sistema giudiziario: se i ROS che hanno smantellato la cellula del Cremonistan hanno fatto il loro dovere – il terrorismo si vince con l’intelligence –, non si può certo dire lo stesso di quegli agenti che nel 2001, ad Anzio, hanno provato ad incastrare El Gamal, un pescatore egiziano. Dopo che una “manina” aveva lasciato nel bagno di El Gamal un pacco di tritolo, Digos e Servizi hanno accusato il pescatore di essere al centro di un complotto internazionale spalleggiato dal centro sociale romano di Via dei Volsci. Una sorta di organizzazione anarco-islamista che voleva far scoppiare la prima guerra tra Italia e Israele (nientemeno). Per fortuna questa cospirazione da operetta è stata smascherata in sede processuale. I servizi volevano trasformare El Gamal in un informatore e per questo gli hanno riempito la testa con la storia della guerra italo-israeliana, ecco tutto. Ma questa dimensione invisibile delle tecniche di antiguerriglia psichica nel “grande gioco” della lotta al terrore, descritte così bene da Don DeLillo, mancano completamente nell’analisi di Giudici. La giornalista è attentissima a cogliere in fallo gli immigrati appena escono dai canali di gerarchizzazione sociale previsti dalla legge Bossi-Fini (“gli immigrati devono rispettare le leggi italiane”). Ma in questa battaglia per la legalità, la reporter si distrae quando arriva il momento di ricordare che le patrie galere brulicano di poveracci che negli ultimi anni sono finiti dentro con l’accusa di foraggiare Bin Laden vendendo spinelli (nientemeno). Gli spacciatori, ecco i veri alleati dei terroristi.
Torino è in mano loro, il capoluogo piemontese è diventato il covo della peggior specie di pusher che affilano i coltelli proprio sotto casa del sindaco Chiamparino. Quando non sono integralisti religiosi o terroristi, i giovani musulmani per Giudici hanno sempre esistenze borderline, o quantomeno vite confuse e infelici. Un caso esemplare è quello di Chokri Zoauoui, uno degli shahid che venivano imbevuti di occidentalismo nella cellula terrorista di Cremona. Zoauoui ora si è pentito, collabora con la giustizia italiana.
Anche lui dietro le spalle ha un passato di spacciatore: “Sei scelto da loro”, ha confessato a proposito del suo indottrinamento, “perché stai in mezzo a certe situazioni. Trovi uno come Kamel e un altro come Kamel che ti convince che è giusto fare la guerra, inizi a imparare la religione, e piano piano diventi come loro, uguale a loro”. Gli islamici sono come drogati di terrorismo.
Giudici glissa sulla situazione politica della provincia di Cremona, governata da sindaci leghisti che vietano il burqa in ossequio al ministero dell’Interno. Nel Cremonistan si riscrivono i nomi delle strade: non c’è solo “Via Aldo Protti”, che il sindaco di Cremona vorrebbe dedicare al celebre baritono che cantava Verdi, c’è la nuova “Via 7 ottobre” che Christian Chizzoli, primo cittadino di Capergnanica, ha fortemente voluto per ricordare la Battaglia di Lepanto. “Non è stata una scelta casuale”, dice Chizzoli, “ma pensata all’indomani delle stragi di Londra e delle minacce all’Italia da parte dell’islam che cerca di invadere l’Europa e islamizzare la nostra cultura. Lepanto resta il simbolo della vittoria della cristianità e dell’occidente sull’islam”.[13]
Una pressione tutta narrativa
La tecnica di Giudici è sempre la stessa: partire da una generalizzazione, più ampia possibile, per poi suddividere la comunità islamica in varie categorie etniche (oppure al contrario, dal particolare alla norma).
I senegalesi, per esempio, sono lo stereotipo dell’ottentotto che si gode la vita. Bambinoni che fumano le canne, giocano alla playstation e vengono abbindolati da qualche marabutto. Il senegalese diventa un criterio di appartenenza tracciato con leggerezza e condiscendenza dall’autrice, un modo di essere italiano e musulmano all’interno dell’islam.
In questo camuffamento letterario, il senegalese perde la sua consistenza esistenziale. Finito sotto la lente d’ingrandimento equestre dell’autrice, l’islamico si riduce a una figura infantile:
Solari, divertenti, ospitali, i senegalesi si mescolano volentieri con gli italiani, di cui invidiano il benessere economico, e appena possono riempiono le loro case di schermi televisivi al plasma e gadget tecnologici di ogni genere.[14]
Solo ai giornalisti del Trust è concesso di parlare in termini di mentalità e psicologia senegalese, marocchina o pakistana. Solo Giudici può ironizzare sul soggetto della propria analisi:
A casa dei musulmani maghrebini c’è sempre un fratello che ha sposato la cugina della sorella che parla a nome del cognato che ha sposato la cugina di suo fratello.[15]
“Dia Mbaye, per esempio, vive a Brescia, dove ha due mogli, due figli, due appartamenti e una sola discoteca”.[16]
La riforma dell’islam, insomma, si risolve in una pressione tutta narrativa. La reporter è in grado di vedere la riforma islamica ancora prima che si compia, la scorge nella devozione del senegalese Mbaye verso i televisori al plasma, può immaginarla grazie al punto di vista privilegiato che ha scelto, cioè quello del narratore un gradino sopra i suoi personaggi.
Il reportage giornalistico diventa un metodo di scrittura che documenta la possibilità di un cambiamento. Prima o poi l’islam dovrà trasformarsi, camminare sulle sue gambe, abbandonare ogni resistenza, insomma perdere la sua staticità.
Nonostante il suo metodo indiziario, Giudici ha l’ottimismo tipico degli idealisti che pensano di superare le barriere identitarie grazie alla superiorità culturale, stilistica e storica dell’Occidente. La giornalista alterna fasi di grande fiducia, quando Cremona, dopo la cattura dei terroristi, torna ad essere un luogo dove le religioni sembrano convivere in pace, a fasi di profondo sconforto in cui il quartiere romano di Centocelle rischia di trasformarsi nella prima banlieu italiana.[17]
Le sue parole, le mille testimonianze, sono frutto di una prospettiva e di un punto di vista soggettivo. Said avverte che:
Lo stile non è solo il potere di rappresentare simbolicamente amplissime generalità come l’Oriente e gli arabi; è anche un processo di sostituzione e di incorporazione per cui una singola voce assume su di sé un’intera storia e – per l’occidentale bianco, lettore e scrittore – diventa il solo Oriente che si possa conoscere.[18]
Giudici è un James Bond al servizio della democrazia islamica. Gira nel Palasesto di Sesto San Giovanni facendo domande, senza dare nell’occhio. Ascolta e registra tutto. La giornalista scrive, gli altri vengono descritti.[19]
I pronunciamenti antisemiti del telepredicatore Wagdy Ghoneim, l’oratore che parla sul palco, sono puro mainstream dell’uditorio in preghiera.
La pensano tutti come Wagdy in moschea: le donne mestruate possono toccare il Corano solo con i guanti, chi paga interessi bancari andrà all’inferno. In questa comunione effimera con i fedeli del Palasesto, la cronista raggiunge la sua legittimazione professionale più profonda, la cognizione di che cosa sia veramente l’islam italiano. Ora può parlare a nome della comunità musulmana moderata, a nome dei giovani e delle donne, dare voce a chi non ce l’ha.[20]
La vicinanza, la prossimità con l’oggetto della propria analisi, è uno strumento retorico efficace quanto deformante. Il reportage diventa un altro camuffamento: sotto il mito dell’armonia tra popoli diversi evocata a più riprese dall’autrice, c’è il vero strumento di assimilazione, una prosa stringente, uno stile elegante e coinvolgente: “una comunità”, quella islamica, “che essenzialmente non crede nelle regole della democrazia liberale”.[21]
La passione civile, l’ansia riformatrice, una scrittura emotiva che merita l’attenzione della stampa e della critica, sono questi i meriti della prosa di Giudici. È la pietas della narratrice, come l’ha definita Carlo Panella in una lusinghiera recensione apparsa sul Foglio.[22]
Il problema è che il mondo descritto da Giudici è un reportage, è un testo, ed è destinato a restare tale, perché non esiste altro islam se non quello creato nella mente di chi scrive: “l’Oriente non ci viene mai dato direttamente; esso ci è presentato tramite gli interventi sempre ben informati dell’autore”, dice Said.
Casi d’uso: il metodo di Giudici messo alla prova
Scegliamo il nostro “lui”. Si chiama Ahmed, ha quarant’anni, è iracheno, in Italia dal 1985. Ahmed vive e lavora a Roma, dove gestisce un internet point. I proprietari di internet point sono diventati, insieme agli spacciatori, i grandi fiancheggiatori del terrorismo islamico nella guerra virtuale.
Internet è un buco nero dove finiscono i messaggi criptati del jihad e quelli dei fidanzatini arabi che in chat trovano un po’ di libertà dall’assillante educazione familiare. Gli imprenditori come Ahmed sono malvisti dal governo italiano, ma anche dalle organizzazioni islamiche nazionali. “Licenza obbligatoria per gli internet point” titola il Giornale del 14 settembre 2005, presentando la notizia come un capitolo della lotta al terrorismo. Considerando le statistiche di Giudici, e sulla scorta del pacchetto di norme in materia di sicurezza introdotte dal ministro Pisanu, una semplice chiacchierata con Ahmed dovrebbe bastare a fare affiorare il suo estremismo latente. “Lui” si tradirà, mostrando il lato oscuro del nemico. Invece Ahmed parla della famiglia, dei suoi ragazzi che studiano senza problemi l’arabo e l’italiano, del fatto che sì, certamente, lui è un credente, ma Abramo è uno solo, quindi non è giusto farsi guerre di religione. Ahmed racconta di quando i carabinieri sono entrati in negozio, mentre fuori aspettava la volante a sirene spiegate. Un banale controllo amministrativo trasformato in una esibizione muscolare. Per fargli capire chi siamo, che vi teniamo sott’occhio. D’ora in poi nessuno potrà chattare se prima non viene identificato, i documenti d’identità dei clienti fotocopiati a futura memoria, in barba a qualsiasi diritto alla privacy.
Ahmed si lascia andare alla nostalgia e ricorda che la sua prima ragazza in Italia era di Napoli, che si conobbero all’università e fecero coppia fissa per due anni. Fu il cattolicissimo padre di lei a venire a Roma per riportarsi la figlia a casa. I genitori le avrebbero trovato un lavoro e un marito come si deve. Altro che abbandonarla nelle mani di un iracheno.
Mentre ascolti Ahmed, il tarlo di Giudici continua a bussare alla porta, sono tutti bugiardi, sono tutti bugiardi, l’imprenditore sembra una persona a posto. “Lui” rispetta la famiglia e non martirizza la moglie e i figli con pretese assurde. Addirittura è un integerrimo datore di lavoro: ha dato una mano ad un’algerina di 33 anni sposata e con due figli, assumendola con un regolare contratto part time. Sul lavoro Ahmed si comporta da gran signore, non come gli agenti immobiliari del negozio accanto che non la smettono di importunare la sua nuova segretaria.
Ahmed non è un arrapato, è istruito, parla arabo, italiano e inglese, ha una famiglia felice, i soldi in tasca, che altro vorrebbe chiedere?
Solo che la smettano di piombare nell’internet point con i mitra spianati terrorizzando i clienti. Come dire, grazie per Saddam e arrivederci.
Per concludere prendiamo ‘il caso’ di Anna, una ragazza bengalese di 12 anni. Anna frequenta la seconda media in una scuola di Vicenza. Una mattina di dicembre chiede alla maestra di andare in bagno e prova a tagliarsi le vene. I suoi genitori l’hanno promessa in sposa a un connazionale e la tengono chiusa in casa in attesa del matrimonio. La ragazzina è disperata. Mamma e papà accorrono a scuola, abbracciano la figlia, spiegano ai professori che non avrebbero mai immaginato una disgrazia simile e fortunatamente tutto si risolve in abbracci e baci.
Secondo Marino Smiderle, il giornalista che racconta la storia sul “Giornale”, siamo di fronte a “una disperata lotta fra culture diverse, tradizioni difficilmente conciliabili” 5 dicembre 2005
È lo stesso scenario descritto da Giudici: figli in bilico tra la voglia di integrarsi e la paura di restare tagliati fuori, genitori di mentalità arretrata che opprimono i ragazzi con i precetti del Corano.
Ma la lotta tra culture diverse è una conclusione che non convince fino in fondo. Abbiamo paragonato la bengalese Anna alla leccese Giulia, 19 anni, originaria di Squinzano in provincia di Lecce.
Giulia è una ragazza come tante, veste Dolce & Gabbana, frequenta da fuorisede la facoltà di medicina all’università Cattolica di Roma. A prima vista sembra il prodotto di quella cultura laica impregnata di fede che piace tanto ai giornalisti del Trust.
Il problema è che Giulia non mangia. Da quando è arrivata a Roma è diventata uno scheletro e gli è venuta la mania di lavare il bagno ogni volta che qualcuno lo usa. Ha l’ossessione della pulizia e il cuore infranto.
I suoi genitori, degnissima upper class meridionale, fedele alla linea democristiana, hanno spedito la figlia a Roma due anni fa con uno scopo preciso: toglierle dalla testa Egidio, 21 anni, che fa il meccanico a Brindisi. Uno spaccato strapaesano che sembrerebbe impossibile nell’Italia dei valori, com’è potuto accadere che i genitori abbiano deciso di sabotare la relazione sentimentale di Giulia per meschine e anacronistiche ragioni classiste? Eppure Giulia esiste davvero, con i suoi quaranta chili, le ossa e il viso scavato. L’importante, per il parentado, è tenerla lontana da Egidio. Per il resto può fare quello che vuole, finire bulimica, drogarsi, passare il fine settimana in discoteca. L’unica cosa che non deve fare, nemmeno provarci, è pensare di sposare chi dice lei.
NOTE
1. Cristina Giudici, l’Italia di Allah, Bruno Mondadori 2005
2. Secondo le stime demografiche dell’ONU, se la Turchia entrasse nell’UE tra dieci anni avrebbe la stessa importanza della Germania in termini di popolazione. Questo spinge molti commentatori a parlare di futura “Eurabia”, lo scenario preferito della fantascienza di Oriana Fallaci. Si veda Marianna Peluso, Tra vent’anni un europeo su 5 sarà turco, Libero, 23 settembre 2005. Questa invasione silenziosa è iniziata nei mercati rionali delle città italiane. “Arrivano da Marocco, Tunisia ed Egitto per vendere oggetti etnici, vestiti e anche frutta e verdura”, Alessandro Aspesi, Mercati Rionali, il 30% è degli arabi, Libero, 23 settembre 2005
3. C. Giudici, cit., p. 17
4. E. Said, cit., p. 309
5. E. Said, cit., p. 203
6. C. Giudici, cit., p. 15
7. “Ciascun fattore in un certo senso contribuiva a cancellare la distinzione tra il tipo – l’orientale, il semita, l’arabo, l’Oriente – e la normale realtà umana”, Said, cit., p.228
8. C. Giudici, cit., p.83. Cfr. In Fuga da Allah e da Maometto, Il Foglio, 19 febbraio 2005
9. C. Giudici, cit., p. 66
10. E. Said, cit., p. 108
11. Cfr. Gianluca Zucchelli, Londonistan, il Foglio 13 settembre 2005; Hamasland e i quattrini europei, il Foglio, 29 settembre 2005; Più veli e meno maiale nelle vie di Bruxelles, cuore del Belgistan, il Foglio, 12 ottobre 2005
12. Cristina Giudici, Occhi chiusi a Cremonistan, il Foglio, 27 luglio 2005
13. Comune dedica Via a Battaglia di Lepanto, il Giornale, settembre 2005
14. C. Giudici, cit., p. 26
15. C. Giudici, ib.
16. C. Giudici, cit., p. 27
17. C. Giudici, Oltre le porte chiuse del Ramadan italiano, il Foglio, 28 ottobre 2005; Anche l’Italia ha le sue fragili periferie multiculturali, 10 novembre 2005
18. E. Said, cit., p. 241
19. “La passività è implicata nella seconda condizione”, E. Said, cit., p. 396
20. “Chi potrebbe capire l’Oriente meglio di un orientalista? Solo l’Oriente, che però, come sappiamo, non è in grado di esprimersi da sé”, Said, cit., p.286
21. C. Giudici, cit., p. 47
22. Carlo Panella, Le tracce del nostro islam portano anche alle banlieue della rivolta, Il Foglio, 10 novembre 2005
leggi la puntata precedente
continua
Comments are closed.
sul punto di vista, il ruolo dell’informante nativo, e quello dell’altro dall’altro, segnalo
1
il poderoso lavoro di gayatri spivak, da affiancare senz’altro:) a quello di said (attacco sotto una rece di alias a “critica della ragione postcoloniale”)
2.
la donna musulmana tra Europa e paesi musulmani di farian sabahi pubblicato su Gnosis (SISDE:), la rivista italiana di intelligencE
http://www.sisde.it/Gnosis/Rivista4.nsf/ServNavig/13?OpenDocument
ALIAS, suppl. de “Il manifesto” – 28/02/2005
Sfida all’etnocentrismo imperialista, e agli studi di DANIELE GIGLIOLI
Si percorrono le oltre quattrocento pagini di questo libro (Gayatri Chakravotry Spivak, Critica della ragione postcoloniale, a cura di Patrizia Calafato, traduzione di Angela d’Ottavio, Meltemi, pp. 477 € 228) accompagnati da un costante sentimento di inadeguatezza; e con il sospetto (o la speranza) che sia il mondo giusto di leggerlo. Quando non è una consolazione a basso costo, è il dono più prezioso che la critica può offrire. Bengalese di nascita, newyorkese d’adozione, militante femminista, allieva di de Man e traduttrice di Derrida, Spivek brilla come un astro di prima grandezza in quello star-system americano e perciò internazionale che viene rubricato sotto l’equivoca etichetta di teoria. E tuttavia, pur condividendone retroterra, orizzonti e modalità discorsive (da cui la difficoltà per il lettore, o la lettrice, cui Spivak preferisce rivolgersi, non iniziati al gergo della corporazione), questo libro non contiene tanto una teoria quanto un allegoria di che cosa possa essere la critica. Suddiviso in quattro lunghissimi capitoli rispettivamente dedicati alla filosofia, alla letteratura, alla storia e alla cultura, Critica della ragione postcoloniale fa ruotare la sua nebulosa di materiali apparentemente eterogenei attorno a un centro di gravitazione insieme necessario e impossibile: la figura dell’”informante nativo”, e lo sguardo che questo getterebbe, se potesse parlare, su una soggettiva “occidentale” che si è fondata, istituita e consolidata, materialmente e filosoficamente, proprio a partire dalla sua cancellazione. L’etnografia contemporanea ha da tempo sottoposto a critica l’idea che sia possibile appropriarsi delle culture altre sulla base della testimonianza di un “aborigeno” che ragguaglia circa miti, riti e usanze quell’antropologo cui spetta poi il ruolo sovrano di soggetto della conoscenza. Si potrebbe dunque pensare che basti rinunciare a quel privilegio per recuperarne la voce, vanificando in un afflato universalistico secoli e latitudini di rimozione, e facendo riemergere la vera natura di quell’alterità che l’episteme occidentale ha dovuto occultare per definirsi in quanto tale. Non è così per Spivak, né di una rimozione si tratta ma di un forclusione (termine che Spivak riprende in maniera deliberatamente infedele da Lacan), e cioè di un’esplosione dell’”altro da noi” dal campo visivo in cui si delineano i contorno di ciò che definiamo “essere umano”; esplosione,però, questo è il punto, che è al tempo stesso un’inclusione, perché ciò che consideriamo umano non può essere pensato che a partire dei limiti di quanto riteniamo non lo sia. Seguace di Derrida, e quanto lui poco incide a imbalsamare l’empirico, fuggevole e sempre in dissolvenza, nella raggelante custodia del trascendentale, Spivak continua e per certi versi supera il maestro grazie alla sua capacità di radicare storicamente e geograficamente (tra imperialismo, neocolonialismo e multiculturalismo benedetto dalla Banca Mondiale), oltre che logicamente, quella cancellatura della differenza che presiede alla fondazione dell’identità. Che colui che è stato posto come altro possa parlare al di fuori del discorso di chi si definisce espungendolo da sé è dunque una contraddizione in termini, che vieta di ipotizzare qualcosa come una teoria generale dell’alterità. Chi è stato ridotto al silenzio tace per definizione, o parla nella misura in cui è complice della procedure di esclusione (per esempio le èlites dei paesi coloniali e post coloniali, o i migranti di lusso cooptati nelle istituzioni economiche, politiche e accademiche internazionali). E tuttavia, se il silenzio dell’altro è il vuoto torricelliano in cui prende forma il discorso del dominio, l’evocazione dell’impossibile necessità che venga rotto è il gesto che permette al pensiero critico di negare a quel discorso la legittimità di istituirsi come regola, norma, descrizione di una modalità di essere che pretende di prescrivere agli altri (per esempio i paesi “in via di sviluppo”) come devono essere se vogliono essere qualcosa. Piuttosto che una teoria capace di redimere il passato, quella di Spivak è una critica che preserva la possibilità di un futuro diverso dalla mera presecuzione del presente. Non renderebbe perciò giustizia alla straordinaria ricchezza di questo libro l’affermare che quanto riassunto fin qui costituisca la tesi (la teoria, appunto) di Spivak, quando non ne rappresenta che il fulcro archimedico, il punto di fuga, il guanto di sfida da gettare in faccia non solo all’etnocentrismo imperialista e ai suoi successori, ma anche a quelle opzioni culturali e politiche che gli si oppongono, replicandone però troppo spesso il gesto fondativo,a riduzione al silenzio di quel subalterno in nome del quale non si può (non) parlare. Differenzialismo essenzialista e apologie del soggetto nomade, femminismo universalista e terzomondismo accademico, cultural studies, gender studies, postmodernismo euforico alla Lyotard, storicista alla Jameson o neoilluminista alla Rorty meritano lo stesso trattamento riservato a Kant, a Hegel, al Marx del “modo di produzione asiatico” o alle grandi narrazioni romanzesche del colonialismo nascente e maturo, nonché alle loro palinodie novecentesche. Non si tratta di accusare né di scusare, di accettare in torto né di rifiutare, né di assemblare Frankestein teorici (come quelli di Zizek, per intenderci, o ancora di Jamenson), quanto piuttosto di restituire ogni discorso alla sua contingenza dislocandolo criticamente nel tentativo di individuare, nei suoi punti di minor resistenza, i varchi attraverso cui potrà inserirsi quell’unica reale verifica della teoria che è il rinvio alla prassi. Che tutte le teorie siano inadeguate proprio in forza della loro pretesa di universalità (e non per nulla Spivak rivendica la sua professione di critica letteraria, specialista nella manipolazione di testi che sono irriducibilmente “singolari” e “non totalizzabili”, come non lo è, potremmo aggiungere,l’informante nativo), costituisce esattamente il punto di sutura tra la traccia del discorso e quella critica delle cose che è l’agire politico, nonché la possibilità cui si accennava all’inizio, di considerare l’inadeguatezza un’opportunità piuttosto che una castrazione. Compreso ciò, tra l’altro, l’insistenza di Spivak su di un’etica della responsabilità intesa come “esperienza dell’impossibile” perde buona parte della sua astruseria. Resterebbe da capire come compiere quel passaggio tra il discorso e l’azione. Su questo, inutile, negarlo, Spivak è consapevolmente povera di indicazioni, rischio costante di ogni critica radicale già intuito e messo alla berlina da Marx nelle sue puntate polemiche contro la “critica critica” di Bruno Bauer & Co, e scotto altissimo da pagare per chi crede che la verità non sia né “là fuori” ne un mero effetto di discorso, ma accade nello sguardo dell’altro. Si sa di lei che partecipa attivamente a progetti di alfabetizzazione nelle zone più povere dell’India: una scelta che al lettore italiano ricorda quella di Lorenzo Milani, anche lui contraddittoriamente ossessionato dalla possibilità che i senza voce potessero parlare, e magari scrivere alle professoresse che volevano mantenerli in silenzio. E’ solo una fantasia, ovviamente, ipotizzare che una di queste lettere sia arrivata sulla scrivania della professoressa Spivak.
sorry, gli euri del libro di spivak non sono 228 ma 28. tanti comunque (io l’ho preso in prestito in biblioteca)
@gina
@artemisia (altri exempla?)
“riduzione al silenzio di quel subalterno in nome del quale non si può (non) parlare”
Si può leggere il testo di Farian Sabah su Gnosis come un report, un’indagine su commissione, al di sopra di ogni sospetto. L’autrice assume il ruolo dell’analista, dell'”agente”, diventa la “voce” legittima della comunità islamica nazionale. Il testo un prodotto tecnico-accademico utile a “mediare” il gesto di rottura e il grido disperato (vedremo come, parlando di Hirsi Ali).
Da questo punto di vista, Sabahi è più avvantaggiata di Giudici. Quest’ultima era ancora una giornalista occidentale che si accompagnava al suo traduttore arabo. Sabahi no, è nata in Italia, parla “la nostra lingua”, ma anche “la loro”, ha una “doppia identità” (lo dice lei stessa).
Non so se la definizione di “informatore nativo”, elaborata da Spivak, possa risultare offensiva – intendo per Sabahi -, e sarebbe interessante sapere che ne pensa la diretta interessata. In cosa si trasforma la teoria critica quando diventa intelligence analitico-sociologica, codice-cimice dell’esperto, dello studioso? Cosa rimane fuori da questo discorso?
Il femminismo postmoderno avrebbe quindi un doppio volto-sguardo rivolto sulle donne islamiche: il primo, quello atlantico, è l’occhio idealistico e democratico di Giudici (la riforma del Cremonistan, la ‘nadha’, il cambiamento). Il secondo è l’occhio dell’islam rivolto su se stesso, lo sguardo di Sabahi, che, nata in Italia, cresciuta in tv da Gad Lerner, ha più diritto di altri a parlare di femminismo e Islam. Ma come?
Facciamo un esempio: Ayaan Hirsi Ali. Conoscerete la storia della scrittrice somala, “donna, infibulata, apostata, antislamista uterina e filoccidentale per necessita e vocazione”(1).
Dice Sabahi che Hirsi Ali è venuta in Europa a reclamare quei diritti su cui l’occidente pretende di (ri)fondare la sua supremazia. Mi chiamareste mai suprematista se vi dico che questi valori sono la “libertà” e la “democrazia”? (Sahabi premette di difenderli, ma aggiunge che ce ne sono altri, di valori, e va bene, è vero, ci sono altre culture, altre forme di libertà e democrazia, e adesso?, come la mettiamo con i nostri? è inutile girarci intorno).
Hirsi Ali è venuta a chiedere il conto dei valori occidentali, non di altri. Vuole che onoriamo la parte (migliore?) della nostra tradizione (fino in fondo). In Olanda, la scrittrice ci ha provato inutilmente. Prima a sinistra, poi a destra, alla fine ha scontentato tutti, ha mollato la tollerante sexilandia ed è partita verso gli Stati Uniti, dove vive sotto protezione.
Sabahi, Afef e Rula Jebreal, credono che la visione di “Submission” è sconsigliabile perché il film di Van Gogh & Hirsi Ali potrebbe infastidire gli islamici moderati. In un certo senso, par di capire, favorirebbe la diffusione dell’odio.
Ma Sabahi non era una paladina dello stato laico? Ecco spuntare le solite contraddizioni, le stampelle ideologiche del femminismo islamico, che mostra tutti i suoi limiti di fronte al singolo caso, alla storia unica e (indifendibile?) di Hirsi Ali.
Non trasformatela in eroina, suggerisce Sabahi. Ma Hirsi Ali non è né strega né santa. E’ solo venuta a ricordarci come stanno, come dovrebbero tornare ad essere, le cose nell’emisfero che ci riguarda.
Per ‘colpa’ di Hirsi Ali, in questi giorni, il governo olandese è andato in crisi. Si va ad elezioni anticipate.
La Repubblica e il Manifesto raccontano la giornata politica olandese come se fosse un fatto normalissimo: come funziona il voto in Olanda, quali partiti si scontrano, che funzione avrà la regina nella formazione del nuovo governo, e tante altre amenità del genere.
Hirsi Ali viene confinata nelle foto, nelle didascalie, nei sommari. Si allude, ma di lei non si parla. La sua storia non viene (mai) raccontata. La riducono ad ‘attrice’, uno dei personaggi del balletto partitico in seno al parlamento olandese. (2)
Il Foglio ha parole sprezzanti per questo greve, involontario silenzio: la politica estera europea è fondata sulla “ebetudine”, Hirsi Ali è stata “rinchiusa dietro la grata di parlatorio dell’indifferentismo, il suo burqa è stato l’esangue ecumenismo sedotto dai minareti della compiacenza multiculturale”.
Mi vengono i brividi a pensare che questa tesi, del tradimento dell’Occidente, sia vera. Non è per questo che ho scelto Amsterdam come città dei miei sogni. Non me ne frega niente dell’onore e dell’orgoglio, dell’epica del Foglio. Ma ci vuole rispetto per le combattenti.
1. “Somalia tradita due volte”, il Foglio, 1 luglio 2006
2. Leonardo Coen, “Olanda, la destra paga la linea dura”, la Repubblica, 1 luglio 2006
roberto
cercherò di risponderti punto per punto, spero di non risultare eccessivamente lunga, e molesta:)
1. “informante nativo” NON è un insulto e ci mancherebbe. Spivak (che ha una creatività linguistica eccezionale, “sua” ad esempio anche “violenza epistemica”) insieme a Said e a Bhabba fa parte della “holy trinity” dei postcolonial studies, poi diventati subaltern studies (gramsci come saprai). Ti consiglio vivamente di leggerla.
Ho postato la recensione di alias, che tra l’altro per stessa ammissione del suo autore è lungi dall’essere esaustiva, perché scritta in modo abbastanza trasversale. Nel senso di comprensibile a tutti. Il libro di spivak infatti è complessissimo, difficile e irriducibile, proprio come “l’informante nativo”, e comprende analisi d’archivio (della cultura maggioritaria quindi, ufficiale, quella che resta nei libri importanti, sia occidentali che orientali per intenderci . spivak riscontra ad esempio globalistiche tracce hegeliane, pensa un po’, anche nelle recenti interpretazioni autentiche dei veda:) e quella di storie minime, di esperienze dirette, di fonte prevalentemente orale,tipiche dei subalterni.
Due sono le risultanze importanti, imho:): 1. l’impossibilità, teorica e pratica, di una teoria generale dell’altro, e la necessità consapevole di vivere in uno stato di costante, polifonica traduzione 2) L’estrema difficoltà di tradurre correttamente il… silenzio dell’altro, l’altro che è per definizione escluso, anzi forcluso, dall’ordine del discorso. Nota bene: questa difficoltà si spalma su più livelli, e riguarda anche il discorso, la “presa di parola diretta” da parte dell’informante nativo. Da dove parla? In nome di chi? Considera, (anche lui/lei/) l’altro da sé, cioé l’ALTRO DELL’ALTRO? Altro che COMUNQUE nel peggiore dei casi viene soppresso, o ignorato dalla storia, dalle storie, altro che se parla, dunque nel “migliore” dei casi, viene ventriloquizzato.Ecco che ci siamo. Chi parla prima di tutto. da dove, a nome di chi. Chiunque parla (anche tu, nel tuo lavoro di inchiesta, mica è a senso unico:) si deve situare, collocare, cartografare. contestualizzare. E poi la verifica della ventriloquizzazione dell’altro. Cosa gli facciamo (non) dire dicendo che dice, e nel nome di chi parla colui che in realtà (non) parla. Sai bene, e lo hai fatto risultare, che la ventriloquizzazione può essere, anzi nella maggior parte dei casi è, menzognera. E che la menzogna può essere il risultato di manipolazioni consce oppure inconsce (chi parla, il traduttore e alla peggio il ventriloquo, si portano sempre dietro se stessi). di azioni E/O omisssioni. Al fine di identificare l’effetto performativo dell’atto linguistico infine, sempre come sai, bisogna pure considerare l’orientamento del veicolo. Il medium. Cioè attraverso cosa passa e in che direzione va l’espressione, la pubblicazione, la resa pubblica, la creazione di realtà.Quale realtà?
2. Farian sabahi e il SISDE
Farian sabahi è un informante nativo? si. Parla in prima persona? si. Dice delle cose vere e buone e giuste? si. Ma non basta. Posso considerarla attentibile solo in quanto parla di sé, sabahi infatti parla di sé (l’altro) OMETTENDO (l’altro dall’altro). E la sua omissione imho è funzionale alla gnosis del SISDE. Questo mi basta.
A genova, a fine maggio, si è tenuto un convegno organizzato da Marea, “la libertà delle donne è civiltà, donne e uomini che lavorano contro i fondamentalismi religiosi, per l’autodeterminazione e la cittadinanza”, prossimamente su arcoiris tv:). ti invito a leggere attentamente “qual’è la vostra tribù, le lotte delle donne e la costruzione dell’identità musulmana”, l’intervento di marieme helie lucas http://www.mareaonline.it/bottom/pezzi.htm.
(Lucas è parte del wulm, women living under muslim laws, http://www.wluml.org, se hai tempo e voglia dai un occhio al dossier 26, che considero abbastanza esaustivo http://www.wluml.org/english/pubsfulltxt.shtml?cmd%5B87%5D=i-87-89744).
Ecco,dimmi che differenza c’è col pezzo di sabahi, e se “qual’è la vostra tribù” potrebbe essere pubblicato da gnosis, magari a complemento del pezzo di sabahi:)
2.Hirsi Ali
non solo so chi è , ma
a.ho visto anche submission in versione integrale.
b.ti ho messo questo commento, sotto il trust orientalista
“ok,allora mischiamo le carte e complichiamo un po’:).
vi segnalo “una muchacha para los tigres” pezzo di mario vargas llosa pubbicato prima da el pais (spagna), poi da la stampa (italia). Parla delle ultime vicende olandesi di ayaan hirsi ali (submission, somala).
una muchacha para los tigres
http://www.elpais.es/articulo/elpporopi/20060604elpepiopi_5/Tes/muchacha/tigres
il multiculturalismo illiberale, se l’identità collettiva è un lager per l’individuo
http://www.lastampa.it/redazione/cmsSezioni/cultura/200606articoli/6205girata.asp
bene. Anche hirsi ali è una informante nativa. Anche hirsi ali parla in prima persona.Anche hirsi ali dice delle cose vere e buone e giuste. Ma guarda il pezzo di llosa. Chiaro il fatto che quel che è successo in olanda è vergognoso, Ma guarda un po’ che fa vargas llosa: come ne parla lui e quindi chi lo pubblica (el pais/la stampa) (qui non siamo in presa diretta) guarda come la usa (no), guarda i titoli, guarda l’immagine di submission e la didascalia della stampa come film documentario (di cosa?, mica si dice), guarda l’utilizzo delle parole, la finta perizia che si fa confusione nell’uso delle parole islam e/o musulmani e/o fondamentalisti studia nel pezzo la vicenda delle pratiche barbare, dell’infibulazione (che non è pratica islamica:), e poi piccolezze come la descrizione fisica di hirsi (la tranquillità, la serenità di questa bella e giovane ragazza) e di verdonk.(signora dalla fronte corrugata, mandibola volitiva) orientalismo “necessario”? direi proprio di si. Necessario a cosa?
necessario a questo
“ogni «identità collettiva» – nazionalista, razzista, culturale o religiosa – non è altro che un campo di concentramento nel quale scompaiono la sovranità e la libertà degli individui. E l’ho ringraziata perché ricordava agli europei quanto siano fortunati a vivere in società aperte, nelle quali, in linea di principio, si rispettano i diritti umani e gli uomini non possono trattare le donne come schiave, pena la prigione. La vicenda di questa somala che crede nella lotta non è l’unica, ma, sicuramente, è una delle più ammirevoli portate avanti da persone del Terzo mondo che sembrano comprendere meglio, e difendere con maggior convinzione e vivacità, il bene più importante che la cultura occidentale ha dato al mondo”
mi limito a sottolineare che la cultura occidentale è identità collettiva:), a rimandare all’occidente ANCHE con l’ultimo rapporto di amnesty sulla violenza contro le donne, e aLl’articolo 1 della legge italiana sulla procreazione assistita, che di principio e democraticamente (referendum) ritiene necessario affibiarmi un curator ventris.
senza dimenticare la pratica barbara della pluristimolazione ormonale (mai provata? conosci qualcuno che l’ha provata? sai cosa significa?)
curiosità:
può una informante nativa trovare posto nel trust orientalista?
http://service.spiegel.de/cache/international/spiegel/0,1518,417478,00.html
@gina
oggi sono andato a rileggermi gli appunti della tesi che avevo preso sulla trimurti. C’è da (ri)studiare, per bene, il nostro Gramsci, hai ragione.
Non sai quante idee mi hai dato con i tuoi commenti. Collegamenti, sviluppi, combinazioni. Ripensandoci, è strano che solo due donne** abbiano risposto a questo post sulla Giudici. D’altra parte, i ‘manifesti’ più frequentati di NI offrono una preoccupante unanimità maschile.
Ma veniamo alla tua domanda: può un’informante nativa trovare postro nel Trust orientalista? Non sapevo che Hirsi Ali fosse finita nelle grinfie dell’AEI. Ma non mi sorprende troppo. Provo a parlarne spesso, qui, di come i neoborg abbiano rivitalizzato la politica americana, e più in generale la cultura atlantica – non solo quella di destra (vedi come si dà da fare Hillary Clinton) -, costringendoci a inseguirli sul loro stesso terreno, a stare dietro alle loro ‘parole d’ordine’.
Da questo punto di vista, il TRUST è un esempio di prassi politica oppure no? Se Hirsi Ali si sente abbandonata dagli intellettuali europei di sinistra, da tutti quelli che fino a quando gli faceva comodo la corteggiavano, e che ora le voltano le spalle, e sceglie di andare a studiare in America che cos’era l’illuminismo, e di come potrebbe essere utile al mondo arabo-musulmano, e per di più viene protetta e pagata per farlo (proprio come da noi, eh?), non sarà che c’è qualche problema nella ‘nostra’ intellettualità, intendo nel pensiero critico in cui ci siamo formati, la vecchia sbornia postmoderna? E se avesse ragione Terry Eagleton e dovessimo ripartirte proprio dall’identità e dalla Voce, dopo aver esplorato la frammentazione e il silenzio del soggetto?
Non ti sembra strano che le idee più controverse, gli interrogativi e le contraddizioni, giungano tutte dal campo neoborg? Davvero non ci restano che certezze: pacifismo, pluristimolazione ormonale, veterowelfismo?
Per fortuna che il punto interrogativo è il segno d’interpunzione privilegiato di Spivak… Almeno lei…
Perché Hirsi Ali è passata con gli idealisti atlantici? Lo dico al di là dei soldi e della sicurezza personale. Forse perché li trova più CREDIBILI? E perché la scrittrice somala non è a fianco della Spivak?
Le hanno dato voce, a Hirsi, e – come dici bene tu -, facendola parlare l’hanno zittita. Ma non l’hanno salvata?
Penso a quello che hai scritto sul lessico segreto dei giornali, non il senso letterale delle parole, ma quello superfigurato, il significato accelerato delle foto e delle didascalie, l’uso inconsciamente orwelliano di certe parole ‘speciali’, delle descrizioni e delle digressioni che troviamo nel pezzo dello Spiegel: mi spaventa il quadro, il contesto, “il sorriso” di Hirsi Ali, “la cucina”, “il tavolo bianco”, “la sua segretaria”. E subito dopo i nomi dei suoi salvatori: Popper, Stuart Mill, Von Hayek. Come se ci fosse una diretta consequenza tra le mura protettive della casa occidentale e i maestri che quella dimora hanno costruito. Fragili mura che ci difendono da Maometto. Forse vuol dire questo?
“The Profet and the Western philosophers will engage in a struggle of ideas”, dice Hirsi a proposito della sua ricerca per l’AEI. Ovviamente, in questa battaglia di idee, a prevalere saranno “gli intellettuali arabi dissidenti” che combattono per la “modernizzazione” e la “liberazione” delle società islamiche.
E’ quello che sostiene Negri quando ci mette in guardia dagli ultimi ritrovati della teoria critica. Il capitale, per espandersi, ha bisogno di tutti, ma proprio di tutti, amici e nemici, preti e mangiapreti, pretendenti e dissidenti, protagonisti e comparse, eroi e disertori.
Mi chiedevo come mai fosse concesso a una donna islamica che si dichiara “atea” di varcare i cancelli celesti dell’AEI, dopo tutto quello che abbiamo detto sul software ebraico e cristiano in azione da una parte all’altra del mondo.
Mi chiedevo come fosse possibile che i (presunti) bacchettoni laici dell’istituto le permettessero di lavorare al progetto del sequel di “Submission” (il secondo episodio dedicato all’Islam e alla omosessualità).
Poi mi sono ricordato del materiale immateriale venduto dall’AEI. E ho capito che franza o spagna, femminismo o gay pride, modernismo o postcolonialismo, tutto fa a brodo nel calderone della Mercatone.
Hirsi Ali come Anna Frank, quindi. Gli americani, vuoi o non vuoi, sono destinati a salvarci?***. Per fare cosa, staremo a vedere.
**Che il dio dei nickname mi protegga.
***Said, Negri, Spivak, sono passati tutti dalle università americane.
@arte_misia
Mi sembra un problema grave.
Non certo per le donne.
Visto che forza la Gina?
Comunque pure te non scherzi.
Altri esempi?
roberto
prendo atto che qui si fa dell’essenzialismo strategico, e che il dio dei nick è maschio:)
Su hirsi ali
imho, che ci piaccia o no, l’aie la trasforma nel fior fiore dell’informante nativa, in un simbolo vivo, imprescindibile e ubiquitario, dentro e fuori il laboratorio d’oriente/occidente. una informante nativa sull’enterprise:) e qui ci si potrebbe anche sbizzarrire, nel dubbio che sia o no sopravvissuta all’attaco dei parassiti neurali di deneva ad esempio, o che non si tratti piuttosto di un clone romulano. nel frattempo, maometto discute animatamente con popper e james tiberius kirk:il think tank del pensa o affonda. quindi: ci rifletterò. grazie (anche ad arte_misia) per lo scambio d’idee.
DUSA MAREB, SOMALIA
Si sa che i giovani adorano il calcio. In Somalia come nel resto del mondo. Un paio di giorni fa, un manipolo di patiti del pallone s’incontra in un locale con megaschermo per godersi la partitissima Italia-Germania. Soffrono, tifano, si divertono. Viva Gattuso, forza azzurri, forza crucchi. Solite cose.
Se non fosse che, tra primo e secondo tempo, piombano nel cinema i miliziani di Hassan Dahir Aweys, il nuovo capetto fondamentalista che vuole esportare la sharia e le leggi talebane a Mogadiscio e dintorni.
Niente partita, calcio vietato, divertirsi dietro a una palla significa andare contro il Corano. I tifosi s’incazzano, se la prendono con i miliziani che reagiscono sparando sulla folla: una ragazza viene uccisa, insieme al padrone del locale (almeno quattro i feriti),
una nota di colore
(la storia siamo noi)
http://www.corriere.it/Speciali/Extra/2006/Germania2006/sconcerti/pop_sconcerti040706.shtml
Germania contro Italia, la Storia siamo noi
Italia-Germania è l’incontro delle due più grandi autonomie calcistiche rimaste. Siamo sempre molto preoccupati dall’invasione di stranieri, ma ci resta difficile capire che quello che conta in un calcio meticcio è la forza del movimento, la conferma delle tradizioni.
Anche i grandi stranieri che vengono in Italia non cambiano il nostro modo di giocare, si adattano, diventano come noi e si completano proprio perché aggiungono l’italianità al loro bagaglio di un altro mondo. Inglesi e francesi sono molto diversi. I francesi hanno rinunciato a un loro modo di essere (leggerezza, velocità, tecnica) per darsi completamente ai giocatori delle loro colonie. Ne esce fuori una squadra bella da vivere e da vedere, ma con l’identità universale della negritudine. Di francese ha poco. Il grande amore della gente per Ribéry, pallido e segnato dalla violenza dei carrugi marsigliesi, prescinde dal suo talento. È l’amore per un tipo di uomo e di calciatore che rappresentando la tradizione, la normalità francese, ormai ne rappresenta quasi la diversità. In Inghilterra è successo qualcosa di simile. Il calcio inglese di sempre, palla lunga, cross dal fondo e colpo di testa del centravanti, non esiste più. Cinque giocatori su dieci oggi sono africani, hanno talento e voglia di giocare. È come aver portato in un grande calcio muscolare la fantasia di decine e decine di trequartisti sparsi in ogni ruolo. La qualità aumenta, ma quel calcio diventa un altro.
Juventus e Bayern, campioni nazionali, sono invece squadre per metà fatte da stranieri, ma sono squadre esattamente italiane e tedesche, pensano calcio come si pensa in Italia e Germania. È questa conservazione di un modo di essere che mantiene la forza e salva la qualità anche nei momenti di maggiore distrazione. Italia e Germania che s’incontrano oggi non sono le squadre più forti del mondo. Hanno anzi molti limiti. La Germania è troppo piena di ragazzi, l’Italia è molto vecchia, il più giovane è Iaquinta che ha 26 anni. Italia e Germania arrivano cioè al punto in cui sono non per la loro forza ma per come hanno saputo gestire i loro limiti. Attraverso la solidità dei loro movimenti e delle loro esperienze, dall’insistenza e consistenza con cui hanno continuato sempre a giocare a calcio in modo italiano e tedesco. Detto questo, la partita è quasi una conseguenza. Noi per i tedeschi siamo un avversario scomodo perché non ragioniamo come loro. Anche con un trasgressivo come Klinsmann, la Germania gioca con ordine, più velocemente, con più ragazzi, ma con ordine. E un gioco ordinato i tedeschi si aspettano dai loro avversari. L’Italia invece magari marca Ballack a uomo, mette Totti fra le linee, costringe Toni a tenere impegnati due tedeschi, Mertesacker e Metzelder, lascerà probabilmente libero Friedrich e avrà invece una densità da Calcutta in mezzo al campo, intorno a Pirlo. Gente strana gli italiani, non giocano mai la stessa partita. È questo che fa soffrire i tedeschi e li ha portati spesso alla sconfitta contro di noi. L’impressione a freddo è che possa succedere anche stavolta.
La Germania è un’ottima squadra ma per giocare bene deve correre molto. Sembra più stanca di noi e anche un po’ schiacciata dall’aver dovuto crescere in fretta. Alcuni dei suoi piccoli fuoriclasse, Lahm, Schweinsteiger e Podolski, contro l’Argentina sono rimasti a lungo fuori partita.
L’Italia in campo ha meno obblighi. Perdere significherebbe per tutti l’apertura di processi e soprattutto Lippi sa che la stampa non perdonerebbe i suoi eccessi di sincerità. Torneremmo a essere un calcio cattivo che deve dimenticare la gloria e catapultarsi nei processi.
Il miele che gronda adesso dai media si trasformerebbe in un attimo in qualcosa di più agro. Masul campo, in quelle possibili due ore, noi staremo meglio di loro. Sono le nostre partite, sappiamo aspettare, siamo i maestri del controgioco, riusciamo a rimanere freddi, dobbiamo più spezzare che costruire, ci divertiamo a vedere in quali difficoltà mettiamo gente ordinata e onesta come i tedeschi con la nostra arte di vivere. Non so dire il risultato, né dare altre certezze. Ed è sicuro che avremo molti momenti di grande difficoltà. So però che la Germania calza come un guanto all’Italia e questa Germania in particolare a questa Italia.
Mancherà Frings, forse il più completo dei giocatori tedeschi. È stato fatto fuori dalla prova televisiva per la rissa con Cruz. Lo sostituirà Sebastian Kehl, un ragazzone di quasi un metro e novanta con grande forza e buoni piedi, più mediano di Frings, più adatto a vagare nelle zone di Totti. L’arbitro è il messicano Archundia, un avvocato di quarant’anni. Collina dice che è bravo. A noi basterebbe fosse onesto.
Mario Sconcerti
@arte_misia
@gina
‘Aprire’, scomporre il testo che avevo scritto, nel senso di un’autocritica spassionata (a venire). Cosa c’era di debole e ‘invendibile’ nelle idee che avevo raccolto grazie ad un faticoso lavoro di rassegna-stampa e osservazione personale?
Quando una ricerca diventa ‘libro’? Con quali effetti ‘lineari’ rispetto alla multilinearità dell’ipertesto? Con quali risultati sulle voci dei parlanti? Chi parla, ora che sto zitto? Semplificando: perché adesso questo pezzo su Giudici funziona meglio? Un tridente ha messo in rete quella palla che continuavo a trascinarmi tra i piedi da solista.
Anche all’università, qualche mese fa, le studentesse si erano mostrate attente osservatrici del metodo di Giudici, aggiungendo un saliente punto di vista sugli indizi scelti e poi sviluppati dalla giornalista. Avevano cominciavano a opporre ‘casi d’uso’, esperienze personali, fatti, alle parole, cioè alla ‘letteratura’ – come la chiama Petronio –, della reporter.
Ci siamo accorti che il metodo indiziario può essere usato con toni diversi, opposti, e che quindi lo stesso metodo può anche ‘ribellarsi’ al suo autore. Ogni cosa che dirai potrà essere usata contro di te. L’uso stilistico, retorico, sintetico, che Giudici fa della famiglia islamica, da una parte. L’uso tripolare, della condivisione, che ne faremo noi, dall’altra.
Arte_misia sta offrendo tracce di ‘vita’, senza dubbio ‘mediate’, intuitive, non del tutto sperimentali, ma che sono il segno di un pa(e)ssaggio esistenziale. Questo tipo di scrittura rientra a pieno titolo nel paradigma induttivo delle piccole narrazioni. Potrebbe essere la pratica del romanzo politico: l’autobiografica della donna islamica, contro le deduzioni e le generalizzazioni, come fa Hirsi Ali.***.
C’è bisogno di un aggiornamento lessicale nella critica per spiegare le nuove sensazioni in gioco: “Pneumatici grandi di fuoristrada allargano di poco la traiettoria per evitarle” (le donne nella prosa di arte_misia, una poesia minima, una frase appena).
A questo punto, mi viene da chiedere se un metodo del genere rappresenta un limite o un vantaggio. Non assolutizzare mai, relativizzare sempre, spartire invece di unire. Al di là dei racconti e dei fatti, al di là delle fonti, dove stanno le idee forti? la scrittura come prassi esaltata in Spivak? le indicazioni teoriche in grado di influenzare o determinare i processi storici e sociali?
Restare fuori dalla dimensione editoriale significa semplicemente prendere atto della propria subalternità? Siamo dei velleitari oppure potremmo davvero appartenere a una rete più estesa e invisibile della ‘comunicazione’, che va oltre i giornali, le riviste, l’accademia? Non c’è mercato per quelli che scriviamo. Se fosse così, come funziona questa rete sottomessa? Qual è la funzione progressiva dell’ipertesto in tutto questo?
***Rileggiamo la postfazione di Adriano Sofri a “Non Sottomessa”.
roberto
Parlo, ho parlato da qui: sono una irriducibile relativista, questa è la mia idea forte che è tentativo di sostenere, di portare su di me, e consapevolmente, il maggior numero di “contraddizioni” possibili, quelle tra testo intertesto e ipertesto ad esempio, Dove l’ipertesto, non è solo link in uscita, collegamento al resto che eccede, che in parte mi eccede, ma anche i(n)scrizione, àncora (in) un istante narrativo dato, cartografia istantanea del dove sono ad un determinato momento della storia, orientamento (che sostituirei a orientalismo:), un qui e ora che radica, e a partire dal quale fluttuo (continuo a partire). Senza nostalgia. Senza alcuna pretesa di completezza se non in divenire)
Quanto al tuo “libro”, mi soffermo sul debole, il rapporto tra debole e invendibile sottende una valutazione di mercato per quanto mi riguarda successiva e comunque sfalsante per l’attenzione. Trattasi di mera strategia. Con riferimento a quanto ho detto sopra, infatti, potrei (ri)partire dall’invendibilità in un altro momento, e magari in un altro spazio mantenendo comunque un debito di ri- conoscenza nei confronti di questa discussione . Per debole intendo infine il lato debole, “contraddittorio” nella sua doppia e valenza negativopositiva, insomma mobile, debole nel senso di vulnerabile (attaccabile), e liberatorio insieme (liberatorio dalla prigione, dalla trincea, dall’autismo insindacabile, debole cioè fruttifero cioè foriero d’incontro, di dialogo tra me e te, e altri forse). Il lato debole nel senso di luogo comune quindi. prendi l’idea debole come presupposto fondamentale della relazione (che altrimenti non ha luogo), radicala nel qui e ora cioè portala su di te, ed ecco che il personale subalterno è politico.
Dunque, chiedi cosa c’è di debole nel tuo libro (a scanso di equivoci, mi baso su quello che ho visto pubblicato su NI, altro non so. E nel dire mi porto dietro me stessa. Quindi nulla di personale da un lato, che non ti conosco nemmeno, e tutto di personale dall’altro:).
Da subito non mi è piaciuto il titolo, e lo svolgimento dell’inchiesta me ne ha dato “conferma”. Perché non mi è piaciuto il titolo? il giornalismo italiano e l’islam, lavoro titanico, mi sono detta, ambizioso e non delimitato, che porta in sé il germe che intende curare, quello di una visione universalista, onnicomprensiva e assoluta. A partire da cosa? Cosa intende per giornalismo, cosa intende per italiano (in che misura si differenzia dagli altri (chi critica fa del nazionalismo?). E poi, si riferisce ai giornalisti o ai giornali che sono italiani (finanziati? pubblicati su suolo italiano? oppure si riferisce ai consigli di amministrazione? E gli introiti pubblicitari? E i compensi sottobanco del sisde, e la cia?:) giornali che in ogni caso pubblicano anche roba tradotta, ci sono pezzi che fanno il giro del mondo, provenienti da giornalisti e non, europei e non, occidentali e non), e poi che cosa intende per islam (gli stereotipi sul mondo arabo e musulmano? Cos’è in realtà il mondo arabo e musulmano? chi critica lo conosce? Lo porta su di sé? Said è un punto di riferimento, di partenza o d’arrivo, said è tre punti in uno? un tutt’UNO? Ma soprattutto: Conoscere i meccanismi di dominio dell’imperialismo culturale è sufficiente? Ci mette al riparo? si può essere portatori sani d’imperialismo culturale?)
Ho letto che ti saresti inizialmente riferito a libero il giornale e il foglio, prima e al giornalismo di sinistra poi. quello di “sinistra” non l’ho visto, però. Ed Ecco che il giornalismo italiano diventa quello del foglio di libero e del giornale.
Se così non è, se la tua inchiesta non è stata integralmente pubblicata su NI e comprende anche una critica al giornalismo italiano di sinistra (qualsiasi cosa voglia dire), se il suo svolgimento per intero (qualsiasi cosa voglia dire) riprende gli stessi temi affrontati negli estratti pubblicati su NI, comunque il titolo in ogni caso io lo cambierei, focalizzandolo sulla costruzione mediatica dell’identità musulmana, che mi sembra il nodo, lo snodo dell’intera faccenda.
Un’altra osservazione, che accenno solo. Ho notato un particolare scarto linguistico, una coloritura emotiva rancorosa, quasi livorosa direi, a proposito di quel particolare meccanismo di costruzione identitaria del maschio islamico che hai identificato come “sessualità distorta” nel pezzo sul trust orientalista, e in questo pezzo su giudici. Ne ignoro l’origine ma credo che abbia distolto anche la tua attenzione da uno degli strumenti di dominio e di costruzione identitaria, che insieme a quello religioso, a me pare a dir poco essenziale: quello che gioca la guerra, ancora una volta, sul corpo delle donne.
Mogadiscio, Somalia. Miliziani delle Corti Islamiche sono intervenuti durante un matrimonio, per dividere gli invitati uomini dalle donne, e perché si festeggiava suonando e ballando. “Avevamo avvertito la famiglia a non accettare niente nella loro cerimonia che non fosse consentito dalla sharia”, ha dichiarato il punitore Salad, sceicco della zona. (“Avvenire”, 9 luglio 2006)
A Johwar, sempre in Somalia, undici adolescenti sono stati frustati in pubblico per aver fumato marijuana, e perché si erano macchiati di piccoli episodi di criminalità. (“Avvenire”, ibid.)
El Maan, Somalia. “L’ufficio marittimo internazionale ha dichiarato la costa somala uno dei tratti di mare più pericolosi al mondo. Dall’inizio del 2005 fino al marzo di quest’anno, ha rilevato uno studio delle Nazioni Unite, al largo della Somalia sono avvenuti 45 tentativi di dirottamento navale e 19 dirottamenti andati a buon fine” (Marc Lacey, “The New York Times”).
@gina
@arte_misia
Sarebbero magnifici degli aggiornamenti quotidiani lunghi “quanto uno scrolling”. E il contropelo di Gina è musica per chi ama l’editing. Altro che cortesi risposte di editori che non aggiungono un tubo a quello che già sai.
Quindi: 1) vera la generalizzazione del titolo (meglio i “razzismi quotidiani”?, stessa ampiezza, ma con un minimo comune denominatore); 2) verissima la dichiarazione di principio disattesa, il resto dell’inchiesta sulla stampa di sinistra. Però hai letto quel commento sulle “ricette scadute” del pacifismo? Credi che potrebbe essere una via di fuga?
3) E qui casca l’asino: stare dietro a un lavoro quotidiano di rassegna-stampa è semplice ma faticoso (certe volte vorrei essere l’ANSA). I pezzi che ho pubblicato corrispondono, grosso modo, a una rassegna del Trust che va dalla fine del 2004 all’autunno dell’anno successivo. Ecco perché dovremmo continuare a lavorarci insieme. Il passo successivo è:
4) il metodo. Trovare uno spazio critico embrionale, non mi interessa se sia minoritario o subalterno.
La “coloritura emotiva rancorosa, quasi livorosa” che spunta dalla difesa d’ufficio del macho islamico. Be’, dietro quel tono provocatorio c’è il marcio di Houellebecq. Uno scrittore bravissimo a captare (e calpestare) il desiderio di dominio del maschio atlantico. Non potrei immaginare la compagna che ho qui nel (suo) letto, né le donne mediterranee, arabe e musulmane, se non partissi da una egoistica discussione sul mio Cazzo. Per entrare nella mente di un talebano o di un odioso liberal celibe e pieno di stravizi, devo pensare, diventare come loro (“autobiografia altrui”). Devo tornare alla gelosia dei Patriarchi, per arrivare all’indifferenza gaudente dei discendenti.
Ecco il compito di un critico maschio bianco, con una predilezione per lo Street-Bang. Da qui il livore, il rancore, dei personaggi di Houellebecq, quando a un certo punto comprendono che il mondo non è più un principato ma è diventato un matriarcato, e che la ‘guerra dei sessi’ si risolverà in una pacificazione (pornografica?). E’ un altro stereotipo idealistico? Sta succedendo davvero?
Abbracci
ah beh, allora cambia tutto.
(in uscita per gli stereotipi di macho)
titolo “razzismi quotidiani”
sottotitolo: “il mondo è diventato un matriarcato e la guerra dei sessi si risolverà in una pacificazione (pornografica?)”
Autore:Roberto Santoro.
Note sull’autore: lettore di Nazione Indiana http://www.nazioneindiana.com, Santoro è anche un critico maschio bianco , con una predilezione per lo street bang. Di sé dice “non potrei immaginare la compagna che ho qui nel (suo) letto, né le donne mediterranee, arabe e musulmane, se non partissi da una egoistica discussione sul mio Cazzo.
(in uscita per gli stereotipi di macho’s)
auguri e abbracci, mentre scappo:)
“Albert Benschop è docente di scienze sociali all’Università di Amsterdam, ed esperto delle meccaniche dell’Hofstadt Group, la cellula islamista di cui faceva parte Mohammed Bouyeri, l’assassino di Van Gogh condannato all’ergastolo. Attraverso un vasto studio intitolato ‘Jihad in the Netherlands’, Benschop ha dimostrato che l’islamizzazione dell’Olanda è maturata sotto la brace dell’illusione e al caldo protettivo del multiculturalismo, quando ancora nessuna critica era piovuta addosso a quelli che il rapporto chiama eufemisticamente ‘i salafiti’. Alcuni membri di Hofstadt sono sospettati di avere legami con i terroristi catturati in Spagna per l’attentatto di Casablanca del 16 maggio 2003 (45 morti). Una di loro, la diciassettenne Malika, alla polizia ha raccontato magistralmente le biografie di questi ‘leoni del tawheed’, come si facevano chiamare. Nel settembre del 2003, l’intelligence olandese coniò il termine Hofstadt riferendosi a una decina di musulmani di seconda generazione che si incontravano a casa di Bouyeri. Lo studioso Rudolf Peters ha raccontato come la decapitazione degli infedeli fosse l’argomento più gettonato nelle discussioni all’interno del gruppo. Uno di loro, Nouredine el Fatmi, alla fidanzata Malika, aveva detto che, se decapiti qualcuno, devi farlo molto lentamente e senza tagliare completamente la testa. E’ molto più doloroso e prolunga le sofferenze della vittima. Questi giorvani non si sentivano affatto offesi dalla popolazione olandese, come sostiene il rapporto. Lo dimostrano anche le parole che Bouyeri ha rivolto in aula alla madre di Van Gogh: “Non la odio, sua figlio era un infedele”. Nouredine e Malika si sono sposati clandestinamente secondo il rito islamico, non riconoscevano lo stato olandese che li aveva cresciuti ed educati. Nessuno di loro amava l’Olanda, Bouyeri la chiamava ‘democratica camera della tortura’. Soumaya era intervenuta in un forum marocchino per invitare i fratelli e le sorelle al ‘Jihad in Cececenia”. C’era anche Samir A., sposato con un’olandese convertita, di nome Abida. Hanno un figlio, Sayfuldien, lo hanno chiamato “La spada della Fede”. Samir ammira Bouyeri: ‘Per essersi sacrificato per Allah’. Jason Walter, il figlio di un soldato americano convertito all’Islam, è ‘pronto al martirio’ e a combattere ‘la guerra santa per la creazione di uno stato islamico’ con capitale l’Aia e la sharia al posto dello stato di diritto. Con loro anche ‘l’imam dei giovani’, Abdul Jabbar van de Ven, convertito all’Islam a 14 anni, destinazione Medina. ‘Anche se applichi il novanta per cento della Sharia sei un infedele’, disse il giovane imam. Nel 2001 dichiarava: ‘Il Corano è la mia costituzione’.
(“L’omicidio di Van Gogh? Per l’Aia è tutta colpa degli olandesi, il Foglio, 11 luglio 2006, continua…).
@gina
Tornando per un attimo al discorso sulle “pluristimolazioni” et similia.
“Nel gennaio del 1970, su Lancet, viene descritto uno dei primi esperimenti, effettuato su quindici donne, da due fino a quasi sei mesi di gravidanza. La prostaglandina viene infusa per via intravenosa con un catetere epidurale, ’50 microgrammi per minuto e l’infusione è continuata finchè l’aborto si è completato (…). L’utero ha iniziato a contrarsi regolarmente e ritmicamente con un aumento delle contrazioni in frequenza ed ampiezza. Con l’infusione continua le contrazioni sono diventate più forti, la frequenza è aumentata, e hanno abortito 14 donne su 15′. Le contrazioni sono durate da un minimo di 4 ore e 20 minuti fino a 27 ore e un quarto. In alcuni casi, fra l’espulsione del feto e quella della placenta passano 7 ore. Secondo gli autori i risultati sono incoraggianti – ore e ore di travaglio, con contrazioni continue, con un catetere sempre in funzione, con vomito e diarrea come ‘unici’ effetti collaterali, in attesa di espellere feto e placenta – e auspicano una sperimentazione più ampia…”
(Assuntina Morresi, “Abortirai con dolore. Le battaglie femministe contro l’aborto chimico”, il Foglio, 12 luglio 2006).
caro maschio di houellebecq, in questo mondo, dove la realtà supera la fantasia fino ad eguagliarla, correttezza vuole che i pezzi riportati siano o citati per intero, o citati come estratto con link al pezzo originario (questo vale, tra l’altro anche per il pezzo precedente. A proposito, ma ferrara ti paga o maschio di houellebecq?)
Quanto all’aborto chimico e alla “genialata” dell’abortirai con dolore di morresi assuntina la questione, come si evince tra l’altro dal pezzo nella sua interezza, si inserisce nella battaglia del foglio contro la RU486.
detto questo, qualche link
RU 486 Misconceptions,Myths and Morals
BY RENATE KLEIN,
JANICE G. RAYMOND
& LYNETTE J. DUMBLE
http://www.spinifexpress.com.au/non-fict/ru486.htm
da feminist.org, la storia della battaglia per la RU 486 negli stati uniti
http://www.feminist.org/welcome/ru486two.html
dal feminist women’s healt center, qualche aggiornamento:)
http://www.fwhc.org/abortion/medical-ab.htm
Non mancano nemmeno studi femministi e non sulla storia dell’estromissione della donna dalla pratica medica, sul suo ruolo come cavia tester specimen:) di riferimento per quanto riguarda la ricerca , sulla biopolitica, sulla medicalizzazione della produzione/riproduzione come forma di controllo, sulla “naturale predisposizione” della donna al consumo, anche farmacologico. Anche sull’aborto e le sue declinazioni, infine, le posizioni femministe non sono unanini. E questa è una ricchezza.
un aiutino (sulla sostanza, misoprostol o sulprostone:), e la somministrazione), con l’avvertenza che il blog bioetiche ha un conto aperto con morresi, e non solo:)
http://bioetiche.blogspot.com/2006/03/altre-due-morti-per-la-pillola.html
Altre due morti per la pillola abortiva?
La notizia è apparsa il 17 marzo sul sito della FDA, l’ente americano che regola i farmaci (e ci è stata prontamente comunicata dalla più faconda dei nostri commentatori): altre due donne sarebbero morte negli Stati Uniti dopo un aborto eseguito somministrando la Ru486 («FDA Public Health Advisory: Sepsis and Medical Abortion Update»). Se confermata, la notizia porterebbe a sette la conta delle morti negli USA collegate in qualche modo alla Ru486 (tredici in totale in occidente, a quanto pare).
Nonostante l’incertezza che circonda ancora queste ultime morti (e gran parte di quelle precedenti, per le quali il legame causale con l’aborto farmacologico rimane da dimostrare), la FDA ricorda a tutti i medici che l’unica procedura approvata per l’aborto farmacologico prevede la somministrazione di 600 mg di Mifeprex (il nome commerciale della Ru486 negli USA), seguiti dopo 48 ore da 400 µg per via orale di misoprostol, una prostaglandina che serve ad agevolare l’espulsione del prodotto del concepimento dall’utero. In almeno quattro dei cinque casi finora noti negli USA, invece, erano stati somministrati 200 mg di Mifeprex, e 800 µg per via vaginale di misoprostol (nel quinto caso, verificatosi nel Tennessee, la morte era stata causata da una gravidanza extrauterina non diagnosticata; una conduzione professionale dell’intervento dovrebbe evitare esiti come questo). Questa deviazione dalla procedura consigliata è ammessa negli USA, e si basa su studi scientifici che avrebbero dimostrato la parità di efficacia della dose più bassa di Mifeprex, e la maggiore tollerabilità del misoprostol somministrato per via vaginale; ma rimane il fatto che si tratta di una procedura non convalidata. Sembra in effetti che anche nelle due morti appena scoperte la procedura medica prevedesse la somministrazione vaginale: il New York Times (Gardiner Harris, «After 2 More Deaths, Planned Parenthood Alters Method for Abortion Pill», 18 marzo; l’articolo contiene qualche inesattezza, anche se non molto importante) rivela che i due aborti sarebbero stati eseguiti in cliniche di Planned Parenthood, la più grande organizzazione americana specializzata in contraccezione e aborto; i responsabili hanno già dichiarato l’immediato abbandono della procedura non approvata.
È interessante notare come anche alcuni dei casi mortali registrati al di fuori degli USA potrebbero essersi verificati in corrispondenza della somministrazione per via vaginale del misoprostol. Così è stato sicuramente nel caso della donna morta in Canada nel 2001 (200 mg di Mifeprex più 800 µg per via vaginale di misoprostol, cfr. E. Wiebe et al., «A fatal case of Clostridium sordellii septic shock syndrome associated with medical abortion», Obstetrics and Gynecology 104, 2004, 1142-44); così è stato probabilmente nel caso della giovane morta in Svezia nel 2003: stando ad alcune fonti che affermano di riprendere il rapporto governativo sul caso, sarebbe stato impiegato misoprostol, e all’inizio degli anni duemila la prassi svedese prevedeva appunto la somministrazione di questo farmaco (o del gemeprost, un farmaco dagli effetti analoghi) per via vaginale (Ing-Marie Jonsson, Catharina Zätterström e Kajsa Sundström, «Midwives’ role in management of medical abortion: Swedish Country Report», paper for the conference «Expanding Access; Advancing the Roles of Midlevel Providers in Menstrual Regulation and Elective Abortion Care», South Africa 2-6 December 2001, p. 11). Purtroppo non si sa quasi nulla delle tre morti avvenute nel Regno Unito dopo l’introduzione della Ru486 nel 1991, neppure quando si siano verificate; per quel che vale, comunque, nel 2002 anche in Gran Bretagna la prassi diffusa prevedeva la somministrazione di misoprostol (o di gemeprost) per via vaginale (cfr. Rachel K. Jones e Stanley K. Henshaw, «Mifepristone for Early Medical Abortion: Experiences in France, Great Britain and Sweden», Perspectives on Sexual and Reproductive Health 34, 2002, 154-61, a p. 155). La controprova sembrerebbe offerta dalla Francia, dove a partire dal 1992, dopo che il decesso di una donna l’anno prima aveva portato all’abbandono della prostaglandina allora usata (il sulprostone, nome commerciale Nalador), il metodo raccomandato e – a quanto pare – quasi universalmente seguito, prevede la somministrazione di 400 µg per via orale di misoprostol (o, anche qui, di gemeprost per via vaginale); da allora non si sono più registrati decessi, su un totale di interventi che è sicuramente cospicuo (cfr. l’articolo appena citato, e E. Aubeny, «Methods of Abortion in Europe During the First Trimester of Pregnancy», in Contraception Today: The Proceedings of the 4th Congress of the European Society of Contraception, a cura di C. Coll Capdevila, L. Inglesias Cortit e G. Creatsas, New York – London, 1998, pp. 173-82, a p. 178).
Stabilire un eventuale legame di causa ed effetto tra la modalità di somministrazione e i decessi fin qui verificatisi non sarà impresa da poco. Ma è comunque fonte di sollievo il fatto che nell’esperienza da poco in corso in Italia la somministrazione del misoprostol avvenga per via orale, come in Francia, e l’intera procedura sia quindi da considerarsi estremamente sicura. Bisognerà tenerne conto, di fronte alle grida che prevedibilmente si leveranno di nuovo in questi giorni contro l’aborto farmacologico.
Aggiornamento: il 10 aprile la FDA ha reso noto che uno dei due decessi segnalati a marzo non aveva nulla a che fare con l’aborto farmacologico. Il secondo caso rimane sotto esame.
@gina
DIFESA D’UFFICIO
Lo sapevo la sparata hulbekkiana mi costava un seppuku. Ma non c’è niente di meglio che essere contraddetti da chi, su pluristimolazioni et similia, ne sa più di te. E’ la “ricchezza”, no? Ovviamente, non sono tra le fonti betullesche del Giulianone nazionale. Tutto gratis, baby (troppo volgare?). Sulle citazioni: di solito cito da pezzi della stampa quotidiana. Quando posso inserisco i link. Spero che basti il caro, vecchio riferimento bibliografico. (Da questo punto di vista ti inviterei, se hai tempo e voglia, a commentare i link – già lo fai, già lo facciamo, ma di più!-, così magari posso leggere le tue idee sull’argomento, e andare alla fonte solo se è strettamente necessario. Ripeto, il discorso vale anche per me).
LA VISITA DI VAURO NEL CARCERE AFGANO DI PUL-I-CHARKI
Il reportage di Vauro suona come una campana a morto per gli idealisti democratici. Dentro la più vecchia galera afgana si respira ancora un’aria talebana: “Buona parte delle donne recluse sono state accusate di adulterio da mariti che con ogni probabilità volevano sbarazzarsi di loro e dei bambini. Robina (…) è qui perché omosessuale…”. Insomma, il sindaco Karzai chiede più truppe agli amici occidentali, Londra risponde di sì, noi tentenniamo, ma intanto come procede la democratizzazione della società afgana? Bravo Vauro, anche se le “antiche sbarre” del titolo alludono a un passato remoto senza scampo, un tempo zero, assoluto, ancestrale, che in qualche modo impedirebbe (da sempre) a questa gente di avanzare e di cambiare. (Vauro, “La vita dietro le antiche sbarre”, il manifesto 12 luglio 2006).
VIVA LA PORNOGRAFIA!
Aceh, Indonesia. “I moderati si stanno battendo contro un progetto di legge antipornografica, sostenuto nel parlamento nazionale dal Partito della Giustizia, che imporrebbe un anno di prigione alle donne in minigonna e cinque anni alle coppie sorprese a baciarsi in pubblico” (Jane Perlez, “Si estende il diritto islamico in Indonesia e le donne pagano lo scotto”, The New York Times).
roberto
sulle citazioni
gli estratti citati COME estratto, dicevo. Insomma dire che è un estratto dal pezzo tot.
sui commenti
faccio quel che posso come tutti, compatibilmente a marasmi vari. In ogni caso, andare alla fonte è SEMPRE strettamente necessario:).
ciao
@gina
“Nell’esperienza da poco in corso in Italia la somministrazione del misoprostol avvenga per via orale, come in Francia, e l’intera procedura sia quindi da considerarsi estremamente sicura”.
Però leggo che “Umberto Nicolini, primario dell’Ospedale Buzzi di Milano, ha utilizzato il methotrexate***, una sostanza antitumorale che perfino l’OMS (…) invita a non adoperare. Ieri il Corriere ha pubblicato una lettera in cui una delle pazienti che ha abortito al Buzzi descrive la sua esperienza e difende il suo ginecologo. Prendiamo atto che si è trattata di un’esperienza fortunata***, anche se poco significativa: le donne che hanno utilizzato il methotrexate a Milano pare siano state solo 53”, ed ecco il passaggio che volevo sottolineare: “Dal racconto si desume che il protocollo adottato dal medico prevede la somministrazione vaginale del secondo farmaco, la prostaglandina: pratica da tempo messa sotto accusa, che la Food and Drug Administration non ha mai autorizzato”.
Invece senti cosa dicono dei medici indiani: “in India le donne abortiscono con i metodi più disparati (…): iniezioni extra e intra-amniotiche di soluzioni saline, acqua bollente, creme corrosive con effetti necrotizzanti sulle mucose vaginali, pubblicando questi esperimenti su riviste specializzate”. (“La via dei cocktail abortivi farmacologici per aggirare la 194”, il Foglio 13 luglio 2006).
***Sai di che si tratta? Cioè che medicinale è?
***Visto come fanno? Se le cose riescono è sempre colpa della fortuna!
di volata. credo proprio che regalzi di bioeticheblog si riferisse all’attuale protocollo di sperimentazione della ru486 (mifepristone/misoprostol, vedi discussione nei commenti al pezzo con morresi) e non all’utilizzo abortivo dell’accoppiata methotrexate-misoprostol , che Nicolini ha utilizzato off label.
(sul methotrexate: http://en.wikipedia.org/wiki/Methotrexate)
Sì, Regalzi di BioeticaBlog si riferiva effettivamente alla RU486… ;-)
L’aborto col metotrexato, comunque, non è un’invenzione di Umberto Nicolini, come sembrerebbe volerci far credere Il Foglio: è usato abbastanza ampiamente in vari paesi. Per quel che riguarda effetti collaterali, complicazioni e tasso complessivo di successo è paragonabile al mifepristone; la differenza cruciale sta nel tempo più lungo che occorre per terminare l’aborto (esistono due sperimentazioni che hanno messo direttamente a confronto i due metodi: Wiebe et al. 2002 , e Dahiya et al. 2005 ). Quanto all’Oms, ne sconsiglia l’uso per la possibile teratogenicità – si intende, nei casi in cui l’aborto col farmaco fallisca e la donna decida a quel punto di continuare la gravidanza (WHO 2003: 39 ).
Spero di aver soddisfatto gli esigenti criteri di Gina in materia di citazione delle fonti! :-)
Ciao.
Ehm, e i link dove sono finiti? Vabbeh, provo a ridarli qui:
Wiebe: http://www.greenjournal.org/cgi/content/full/99/5/813
Dahiya: http://tinyurl.com/kgza5
WHO: http://www.who.int/reproductive-health/publications/safe_abortion/safe_abortion.pdf
Ciao di nuovo.
@giuseppe
Ok, leggo, rileggo e intanto andiamo avanti.
Viva l’esigenza!
se interessa, tenendo presente che la ru486 dopo sperimentazione è ammessa negli usa dal 2000 (credo) e stando al “2005 national clinic violence survey” (ultimo rapporto sulla violenza antiabortista negli usa: http://www.feminist.org/research/cvsurveys/clinic_survey2005.pdf ), questa la percentuale di utilizzo del methotrexate tra i 337 abortion providers americani in oggetto
“Abortion constituted over 75% of the services provided for 39.2% of the respondents. The remaining 60.8% of clinics were fairly evenly divided among the other percentage categories. Eighty-six percent of the clinics administer mifepristone, an increase from 72% in 2002 and 17% use methotrexate as a form of medical abortion which has declined from 27% in 2002”.
Interessante, sì, grazie. Suppongo che al Buzzi disperassero di poter mai utilizzare il mifepristone, e che abbiano ripiegato per questo sul metotrexato.
A proposito, Gina, mi è rimasto il dubbio su cosa intendessi esattamente per «pluristimolazione ormonale» – dall’evocazione della quale, se non sbaglio, ha avuto origine questo piccolo détour dal pezzo dell’ottimo (ancorché houellebecqiano :-) Roberto.
Ciao.
mi riferivo alle conseguenze sulla donna del barbaro divieto di congelamento degli embrioni:) (la vitrificazione degli ovociti è un ripiego sicuro?)
(A dir la verità, conosco donne ingravidate al primo tentativo in regimi simili a quello precedente la legge 40 in italia, che si ritrovano angosciate, con un tot di embrioni congelati e non sanno cosa fare. mica facile Ne hai parlato anche tu, mi pare.)
ciao
La vitrificazione degli ovociti sarebbe un ripiego sicuro, se garantisse le stesse percentuali di successo del congelamento degli embrioni; il che per adesso avviene solamente in contesti sperimentali – e comunque in Italia i centri capaci di congelare ovociti sono ancora pochissimi.
In effetti, se la tecnica funzionasse, costituirebbe più di un ripiego: non solo eliminerebbe la necessità di decidere che fare dei propri embrioni congelati, ma garantirebbe alle donne un’autonomia procreativa molto maggiore di adesso: una donna potrebbe assicurarsi contro un calo previsto di fertilità (per malattia, o per l’età) senza dover più dipendere dalla presenza immediata di un partner (o del partner disponibile al momento… :-). Gli integralisti e i teocon che stanno pompando al massimo la vitrificazione sembrano non rendersene conto; e oltretutto i cosiddetti «dilemmi etici» si porrebbero anche con gli ovociti: si va ormai verso l’impianto di un embrione singolo, e sarà necessario selezionare in partenza gli embrioni che hanno maggiori probabilità di attecchire – il che comporta la necessità di fecondare più ovociti, e di scartare gli embrioni che non vanno bene.
Tu ti occupi professionalmente di queste cose? (Se lo ritieni più opportuno mi puoi anche rispondere all’indirizzo email che compare nel blog.)
Ciao.
No,non me ne occupo professionalmente.
PMA
E’ una opportunità che mi riguarda in prima persona in quanto femmina e soggetto di specie.
Ho cominciato ad interessarmene anni fa, in tempi non sospetti, quando ho dovuto fare un pezzo mainstream su un centro privato di fecondazione assistita, tutto fontanelle e divanoni puffosi e infermiere coi tacchi, e camici firmati. E due viscidi ginecologi col rolex e studi ovattati da mille e una notte, competenti, per carità, ma che non hanno fatto altro che parlarmi di felicità. di missione, di servizio alla comunità, di realizzazione dell’unico vero desiderio delle donne, la maternità, a qualunque prezzo:).Due Salvatori, insomma, due chierici.
Poi è stata la volta di un’amica, insegnante, ciellina:), che ha dovuto interrompere la cura al primo ciclo di stimolazione ovarica, causa effetti collaterali (è rimasta incinta sei mesi dopo, probabilmente per un miracolo:), miracolo che del tutto naturalmente si è ripetuto due anni dopo), e un’altra, di professione stiratrice, che dopo dodici anni di desiderio inevaso di maternità e di risparmi e contestuali privazioni si è decisa per la fecondazione assistita, col risultato di una bellissima bimba al penultimo tentativo, al quale è arrivata allo stremo causa diarrea, vomito, depressione e gambe aperte: metti dosa ficca rovista inocula preleva stavolta è andata si no forse.Speriamo. Non l’ha vissuta molto bene insomma. Tanto che l’ultimo embrione l’ha lasciato senza remore al suo destino, fatene ciò che volete, ma io basta. sono servita. Manco morta.
Poi è stata la volta di una compagna di corso preparto,infermiera in ostetricia, successo al primo tentativo, serena, tecnofilica e informata, ma con un “resto” di cinque embrioni congelati. Angoscia.
Ciò nonostante ho fatto campagna per il referendum sulla PMA perché è una legge di merda. In quella occasione mi sono resa conto dell’ignoranza, del ritardo culturale incredibile, dell’assenza di un vero dibattito pubblico su queste questioni, che riguardano tutti, e che NON vanno lasciate agli “specialisti” in gran parte maschi tra l’altro (vedi ad esempio la “normale”composizione dei comitati di bioetica:)
RU486
E’ una opportunità che mi riguarda in prima persona, in quanto femmina e soggetto di specie.
Fino ad ora, quanto ai casi di prima mano, ne ho sentito parlare solo bene. L’ultimo è il caso della figlia di un’amica, diciottenne che vive ancora con i genitori, ai primi mesi del primo lavoro, incinta per un incidente.Ne ha informato la madre, ma non il padre, che l’avrebbe “uccisa” in ogni caso. Ha deciso di abortire (sostenuta dalla madre, qualsiasi scelta avesse fatto) e seguito tutte le condizioni previste dalla legge, dai colloqui agli esami medici. Solo in ultimo, e in quanto considerata idonea (tempo gestazionale,età, condizioni psicologiche, assenza di indicatori di rischio), le è stata illustrata l’opportunità dell’aborto farmacologico, che lei ha accettato. Ha abortito consapevolmente dunque, ma a casa sua, e sanguinando poco più del normale. Solo Il Padre non si è accorto di nulla:).
A livello psicologico, delle conseguenze tardive degli aborti, naturali o indotti, e indipendentemente da come sono effettuati, le donne raccontano cose differenti, In ogni caso l’aborto, anche in assenza di rimorso, non è considerato un evento da poco, specialmente se in seguito si sono avuti figli.
Questo per dire, e poi la pianto:), che quando numeri, tecniche, sperimentazioni statistiche e medicine dai nomi impronunciabili si fanno carne danno e prendono VITA, e che la vita va considerata, sia dal punto di vista biologico che culturale, con particolare riguardo, dal punto di vista culturale, agli effetti dei meccanismi di dominio (biopolitica/biopotere, sociologia del corpo) e a quelli delle alleanze finalizzate ma “insospettabili” tra fondamentalismi (vedi il foglio), oppure “involontarie”, come quelle tra femministe libertari e neoliberisti (non si può dimenticare il businnes farmaceutico, in tutto questo discorso).
@gina
Quello che scrivi mi servirà (molto) presto.
Ad ogni modo, brava, brava, esempi su esempi, brevi commenti e giudizi taglienti. La scrittura che piace a me.
Io dico che dovresti pensare a pubblicare qualcosa, anche qui, sempre che te ne freghi qualcosa. Ripartiamo dalla battaglia delle idee, o saremo sommersi da poeti e racconti.
Saluti
roberto
vedi di far buon uso delle informanti native:) (me compresa)
quanto al resto, poesie e racconti non escludono di principio la battaglia delle idee, imho
ciao anche a giuseppe, che prima mi son dimenticata:)
Bene, siccome Roberto è contento, accantono i sensi di colpa e continuo nel détour. :-)
Gina dice:
«A livello psicologico, delle conseguenze tardive degli aborti, naturali o indotti, e indipendentemente da come sono effettuati, le donne raccontano cose differenti. In ogni caso l’aborto, anche in assenza di rimorso, non è considerato un evento da poco, specialmente se in seguito si sono avuti figli.»
Questo mi interessa tantissimo (e – aggiungo – interessa anche la mia co-blogger, ché sennò faccio la figura del maschio monopolista :-). Nel discorso pubblico riecheggiano spessissimo precisazioni come «l’aborto è comunque una tragedia», «l’aborto rimane sempre un dramma»; a destra come a sinistra, sia pure per differenti motivi e per strategie divergenti. Se vuoi dare autenticamente scandalo, oggi, devi proclamare che abortire non ti ha fatto né caldo né freddo. Ma – e qui sta il punto – è un dato ineluttabile che l’aborto sia un dramma, e che quindi una donna che lo vive senza pathos deve avere psicologicamente qualcosa che non va (non una degenerata, certo, ma una de-generata sì: una che agisce e sente non in conformità al proprio genere); oppure l’aborto ha il significato che una donna gli attribuisce, e può quindi con uguale legittimità essere un dramma o non esserlo per nulla (fermo restando che non è per ovvi motivi un atto giocoso)? E se fosse vera questa seconda alternativa, allora il mantra dell’aborto-tragedia non finirebbe per costituire nella sua ripetizione ossessiva un peso formidabile sulla coscienza delle donne? Un condizionamento culturale – di fatto, l’imposizione di un retto sentire – che si va ad aggiungere ai condizionamenti normativi e delle risorse in contrazione? Ci terrei a conoscere la tua opinione.
Ciao a tutti.
@giuseppe
@gina
SANTI MEDICI
Gianna, dodici anni fa. Nono mese di gravidanza. Praticamente qualche settimana prima del parto. Le dicono “suo figlio ha la sindrome di Down.
Il parto potrebbe avere delle complicanze. Se non se la sente possiamo interrompere la gravidanza”. Gianna è cattolica, al terzo figlio, se ne frega e va avanti. Ora, non m’intendo di ilaro-tragedia, ma credo che se Gianna avesse abortito, per ‘colpa’ di una sindrome che sindrome non è, allora sarebbe stata una vera pezzata di merda.
Con questo non voglio dire che Gianna non avesse il diritto di farlo, e infatti la legge glielo consentiva. Questo per quanto riguarda la legge dello stato. Quella che ti garantisce di salvarti la pelle (e se i santi medici non se ne accorgevano proprio e Gianna tirava le cuoia?). Poi c’è la legge morale che è dentro di noi. E qui entra in gioco, oltre alla singola scelta della donna, oltre alla naturale decisione della madre, l’idea che ha Gianna aveva (e ha) della famiglia, quello che le hanno insegnato in Chiesa, che non sono cose che stanno fuori, ma sono dentro di lei.
Credo l’aborto sia un fatto di singoli casi – decisioni ponderate, drammi, errori -, scelte insomma, che dipendono dalla ‘dimensione narrativa’ in cui si muove il soggetto (la sopravvivenza, la legge, i diritti, la morale, la fede religiosa…).
Qualche giorno fa “è vita” ha festeggiato il numero 100. La prima pagina dell’inserto di “Avvenire” è un’intervista a Giuliano Ferrara. Si respira (ancora) la vittoria al referendum sulla legge 40. Battaglia che fu, ed è, un argine contro il “nichilismo” della società moderna, contro l’arroganza dei tecnocrati che ci vogliono cyborg senza differenze.***
Oggi, secondo Ferrara, sarebbe in atto una separazione dei concetti di “modernità” e “vita”. Nelle società avanzate, la “divinizzazione del Desiderio” è diventata un diritto (quando parlo di nuove leggi del porno…). Per fortuna ci sono loro, i salvatori della “umanità della persona”, che mettono “un freno” al pensiero (“autoindulgente”, “povero”, “irenistico”) dei “neosecolaristi”, cioè al laicato liberal che in combutta con stregoni e femministe sta mettendo in discussione l’idea stessa di uomo (cos’è l’embrione?, cos’è la vita? e cosa potremmo diventare?).
Chiamo Orgonjland questo (prossimo?) Stato del Desiderio, una società liberata pornograficamente, in cui gli intellettuali come Ferrara, i laici ‘critici’, per le loro idee (e dobbiamo dargliene atto), rischieranno seriamente la subalternità, al limite ‘sovversiva’ e ‘fondamentalista’. Nonostante l’epica post-referendaria, infatti, il capitalismo va da un’altra parte. Quando avrà esaurito la sua funzione economica prevarrà la chimica dei desideri. Ferrara non può farci un bel niente. La grande colonizzazione del corpo umano è già iniziata, l’aborto chimico, la PMA, non sono altro che briciole in confronto alla rivoluzione orgonica che ci aspetta. Ma in queste tracce del nostro destino possiamo intravedere il futuro. L’eccitazione continua e la procreazione zero. Un nuovo regime produttivo senza pause, estremamente piacevole.
Nella loro battaglia di retroguardia – che come tutti gli anacronismi contiene alcuni elementi di novità (anche ‘vittoriosi’)-, i teocon individuano temi, figure, prospettive, molto interessanti se vogliamo provare a immaginare la “morale” e la storia postumana. Peccato che a questo attacco dello scientismo schiavo del mercato (ancora per poco), a questa intuizione della trasformazione reichiana della società, non segua poi l’analisi (realistica) dei cambiamenti della vita materiale, ma il solito, eterno, idealismo italico, cioè l’irrazionalismo travestito da realismo che è un’altra delle ricette scadute del novecento.
Dov’è l’illusione del razionalismo ratzingeriano? Scrivere, come fa Ferrara, che “la ragione è chiamata a misurarsi con lo sguardo del cuore” vuol dire credere (e cedere) alla cianfrusaglia passatista dei vecchi sentimenti – l’amore, il dolore, le gioie individuali -, che stanno per essere spazzati via dalla “intensità” del Fast-Porn (non lo dico con soddisfazione, mi limito a indicare dei processi).***
Ferrara parla di regime del “desiderio”, senza accorgersi che il desiderio stesso è stato già colonizzato. Difende la famiglia, ma non vede che i nonni sono in casa di riposo e che al posto della madre c’è una tata? (gli asili nido sono un miraggio, ma hanno la stessa funzione ‘materna’).
Un’ultima cosa sulla RU 486. Perché Assuntina Morresi ritiene che la diffusione dell’aborto chimico faccia “perdere sostanzialmente il controllo della situazione”, e che in Francia si “perdono le tracce” del 20% di donne che si sono sottoposte al trattamento”? Cosa c’è dietro questa “perdita”?, Una difesa della ospedalizzazione? Una questione di sicurezza personale? Oppure stiamo perdendo il controllo (di chi? delle donne…) perché non sappiamo più “quando e dove hanno abortito”?. In questo senso, ha ragione Gina: l’allentarsi dei vincoli medico-legali, permette alla figlia diciottenne della sua amica di sfuggire alla burocrazia delle grinfie paterne.
Ma le pillole aumentano la tossicità sociale. E restano gli effetti collaterali, i rischi, e qui non scherzo più, perché l’aborto fai-da-te mi sembra abbastanza pericolose (“il farmaco è teratogeno”, secondo Morresi).
La donna che aveva abortito al Buzzi di Milano, apparentemente senza problemi, poi si è ricoverata al Policlinio Gemelli di Roma per una emorragia.***
Biblio
***Francesco Ognibene, “Ferrara: laici conformisti, la bioetica vi spiazza”, è vita, n. 100, 13 luglio 2006
***Jameson lo diceva già negli anni ottanta
***Assuntina Morresi, “La RU 486 a dosi ideologiche”, è vita, 13 luglio 2006
Roberto: non sono sicuro che la legge consentisse a Gianna di abortire. L’art. 7 della 194/1978 dice: «Quando sussiste la possibilità di vita autonoma del feto, l’interruzione della gravidanza può essere praticata solo nel caso di cui alla lettera a) dell’articolo 6 [cioè quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna] e il medico che esegue l’intervento deve adottare ogni misura idonea a salvaguardare la vita del feto». Bisognerebbe conoscere i dettagli clinici, ma in linea di principio penso che un parto cesareo avrebbe risolto il problema.
In ogni caso l’aborto tardivo rappresenta, credo, un problema a parte (e percentualmente una frazione minima di tutti gli aborti). Il mantra dell’aborto-tragedia riguarda invece tutti gli aborti: non ricordo più dove l’ho letto o sentito, ma qualcuno ha affermato di recente che se lo IUD avesse davvero un effetto abortivo, questa sarebbe una tragedia per le donne che lo usano…
giuseppe e roberto
la seconda che hai detto, giuseppe ovviamente. Con un’aggiunta, che riguarda la compartecipazione femminile alla produzione di immaginario. Credo insomma che lo snodo dell’intera faccenda stia nel considerare la donna come oggetto E soggetto di rappresentazione. di produzione d’immaginario, un immaginario che è denso di aspetti vecchi e nuovi contraddittori, in lotta tra loro.
L’alleanza tra destra e sinistra, donne e femministe incluse (vedi il recente dibattito rilanciato da Anna Bravo), nel considerare l’aborto come una tragedia, si può ad esempio analizzare, nello specifico, anche con un occhio all’indietro, tenendo presente l’avvicendarsi dei ruoli sulla scena del parto dal punto di vista storico.
L’embrione soggetto e cittadino (così ben codificato dall’articolo 1 della legge 40) fa la sua comparsa (fino a monopolizzarla) sulla scena del parto a partire dalla seconda metà del 700 (stati nazionali). E’ in quel contesto che nascono la “polizia medica”, la donna come “semenzaio di stato” (più che moglie di un cittadino proprietà dello stato), il feto come “salvatore della patria”).
E’ in questo contesto/progetto di espansione demografica che la capacità riproduttiva, direttamente associata all’interesse generale, arriva a costituire IL presupposto della dignità politica e sociale della donna nello stato moderno, e che il corpo femminile guadagna le luci della ribalta, profilandosi sempre più come “luogo pubblico”.
È in questo contesto/cabina di regia della scena del parto, che lo stato affianca il ruolo medico a quello del sacerdote fino ad esautorarlo, tanto da spingere la chiesa nelle retrovie, arroccata, per quanto riguarda l’azione pastorale, sull’unico aspetto della doppia nascita (Cangiamilla, embriologia sacra) che può rimanere di sua competenza, cioè quello che fa coincidere la vita col concepimento.
E’ in questo contesto/potere/codice biopolitico che prendono il via la disciplina legislativa sul tema (aborto= delitto contro la persona), i reparti maternità negli ospedali, e la figura del ginecologo.
E’ in questo contesto/rappresentazione insomma che il feto conquista autonomia giuridica/politica e memoria (i musei degli embrioni), è in questo contesto che la sua raffigurazione ufficiale (filosofica e religiosa), e ab initio (quello che noi ora chiamiamo grumo di cellule) è restituita alla vista come piccolo uomo completo in tutte le sue parti.
E’ in questo contesto che si INSERISCONO le politiche successive, di inizio novecento, imperialismo, politiche eugenetiche, codice rocco, sostegni alla maternità e divieto delle pratiche contraccettive.
E’ in questo contesto, che l’eroica resistenza e le politiche successive non hanno spazzato via, che si INSERISCE la rivendicazione della donna come soggetto a pieno titolo sulla scena del parto, l’autodeterminazione, L'”io sono mia”, il fuori lo stato dalle mutande e tutto l’ambardan femminista che a partire da posizioni e alleanze differenti, portano alla 194 et similia.
Ora, quella femminista è la più grande rivoluzione del novecento, si dice, anche perché ha posto le basi per ulteriori rivendicazioni contro tutte le altre ingerenze dello stato nei confronti della persona, di qualunque sesso sia. Sembra importi poco, che alla disciplina penale sia subentrata quella amministrativa, più leggera, d’accordo, ma anche più subdola quanto a meccanismi di formazione del consenso (vedi dominique memmì e le “narrazioni conformi” richieste in caso di aborto, eutanasia, cambiamento di sesso eccetera), fatto che comunque si sostanzia in un rientro dello Stato debitamente cammuffato, ma in grande spolvero.
Ecco. Ed è proprio ora, invece, in questo contesto/tendenza di normalizzazione/interiorizzazione delle “narrazioni conformi” (io cittadina/o ti dico quello che vuoi sentirti dire per avere accesso a una pratica, per ottemperare alla condizione di esercizio di un diritto che tu/io (eteronimia:) Stato mi riconosci/mi riconosco, affinché io/la mia istanza siamo socialmente acettate) che si re-inserisce imho “la narrazione consapevole ma tragica” dell’aborto .
Con qualcosa in più però, che è l’atteggiamento ambivalente nei confronti delle “moderne tecnologie”, quel qualcosa in più che nell’immaginario di uomini e donne acquista dimensioni mostruose soprattutto quando applicato alla capacità riproduttiva e al “desiderio femminile”, e che riporta a galla vecchi dolori vecchi rancori, vecchie questioni non risolte, vecchie preoccupazioni, e che restituisce la ribalta a vecchi spauracchi a giustificazione di vecchi meccanismi di dominio, ma con nomi nuovi (uteri artificiali, clonazioni, disconnessione dal corpo, innesto corpo macchina, femmina/scienza onnipotente), quel qualcosa in più di mostruoso alimentato dal contesto attuale neoliberista, che ha risucchiato i medici nel far west manageriale di farmaci e profitto, che ha medicalizzato la vita/desiderio (di chi?), dalla culla alla tomba. Quel qualcosa in più che in italia e a furor di popolo (referendum) ha finito (o iniziato:) col restituire al concepito (la prima nascita, nuova alleanza strategica con la chiesa) autonomia e ruolo primario nella scena del parto (articolo 1 della legge 40), ruolo primario nell’ordine del discorso riproduttivo e quindi ruolo primario nella narrazione “tragica” dell’aborto, rimettendo tutto, di fatto, in discussione. E via di seguito con il primato della famiglia canonica (io sopra e tu sotto), la palude dei pacs, e via dicendo.
Ecco, è in un contesto come questo, allargato, plurimo, stratificato e discordante, un terreno di cultura:) radicato E mobile in divenire e spaventoso, che possono trovar buon gioco le interiorizzazioni di “autentiche” narrazioni tragiche, i fardelli per la coscienza, le alleanze più impensabili, le più disparate manipolazioni.I facili, acritici trionfalismi. Un contesto che non ha sesso e che ha tutti i sessi. Un contesto nel quale non sappiamo ancora muoverci, imho.
Ri-Segnalo un bel lavoro in limine, prima di venire abbattuta:) ULTRASOUND, il feto come pop star e tecnofeticcio (clicca sulle immagini)
http://www.thething.it/ultrasound/
biblio: debiti incommensurabili nei confronti di Nadia maria filippini, per quanto riguarda die Geschichte des ungeborenen, 2002 (ripresa nell’AAVV un’appropriazione indebita ‘uso del corpo della donna nella nuova procreazione assistita, baldini casoldi dalai 2004) di emmanuel betta (la donna, il feto e l’anima) di dominique memmi (verso una confessione laica, nuove forme di controllo pubblico dei corpi nella francia contemporanea) ripresi da Corpi e storia, donne e uomini dal mondo antico all’età contemporanea, viella 2002), e di “tutte le donne e gli uomini ai quali ho rubato le parole”:)
Gina: d’accordo su tutto – anche se mi pare che la narrazione tragica dell’aborto esuli spesso dalla finzione dell’embrione-persona, soprattutto «da sinistra», rimandando piuttosto un po’ confusamente al «desiderio naturale di maternità» frustrato dalle «difficoltà economiche», che sfocia appunto nella «scelta sempre drammatica» dell’aborto (sarebbe interessante sapere esattamente quanto e da parte di chi si parli ancora di aborto come diritto…).
È interessante quello che dici sullo spauracchio delle tecnologie riproduttive. La clonazione è un esempio da manuale di creazione consapevole della paura (e potenzialmente di caccia alle streghe) a partire letteralmente dal nulla.
Molto suggestivo «il lavoro in limine»!
Ciao.
imho la questione dell’embrione persona esula dalle narrazioni solo in apparenza (l’impatto sull’immaginario dell’ecografia, del vedersi dentro un’altra vita crescere dal grumo di cellule al’individuo completo, ha effetti che sono stati abbastanza ben evidenziati da barbara duden, compreso il cosiddetto senso di responsabilità, anche collettivo, un passare in secondo piano che è mettersi in secondo piano. Banalmente, e a costo di passare per mistica della maternità cosa che non sono, conservo anch’io la “foto” della faccia di mio figlio feto, che è identica, davvero, a quella del mio figlio bimbo e da quando è nato. E’ come se la contenesse per sempre, cioè continua a contenerla, identica a se stessa nei diversi stadi di crescita. Tutto questo ha i suoi effetti).
sulla clonazione hai ragione, tutto finisce nel calderone, chi ne abbisogna se ne serve:).
L’embrione pensato come persona è il fondamento implicito della superfetazione di tragedie (anziché di persone, se vale la pena di sprecare dell’umorismo). L’immaginario a cui allude Gina ha come fondamento sia delle credenze ben radicate che una cultura difficile da sradicare. L’evocazione di fantasmi ad hoc, come nel caso della clonazione, o meglio ancora delle manipolazioni genetiche in generale, dell’aborto et cetera, non è l’espressione di un buon senso dilagante, ma di una stupidità studiata, tramandata e socialmente accettabile e ugualmente dilagante, alla cui base ci sono infondate oscenità sui confini di specie, su ciò che è naturale, e una concezione del diritto che non si cura della giustizia ma della sua forma esteriore, e della sua corrispondenza ai pregiudizi che storicamente si sono rivelati utili, dell’accordo con le istituzioni, della conservazione dello statu quo; sulla libertà della donna come libertà condizionata, sul diritto della donna come “diritto subordinato”, su molta erbaccia intellettuale.
P.S.: la chimera era un mostro, ed era “femmina”, e non per caso.
Leggo, molto in ritardo, interessato
Per tornare brutalmente alla politica quotidiana, mi sembra che oggi il governo-tentenna abbia dato un altro colpo al cerchio e uno alla botte: il cerchio era quello della cosidetta ‘minoranza di blocco’, i paesi europei che si battono contro la ricerca sugli embrioni umani. Ne facciamo parte per colpa della legge 40, ma ora che l’aria è cambiata, e che ‘la minoranza’ ci sta stretta, allora ecco il colpo alla botte, le aperture di ieri, Mussi e D’Alema che tirano in ballo gli interessi superiori dell’Europa per far capire che la ricerca, in qualche modo, andrà avanti. Bel modo di cambiare il risultato referendario. Ma allora ‘sto referendum esprime o no la volontà popolare? Mi sembra un interrogativo abbastanza democratico. Se il governo Berlusconi avesse provato a cambiare la 194 – e ci hanno provato – che avremmo fatto? Ma soprattutto, cosa penseranno i nostri amici europei della solita schizofrenia italiana? Eppure nella “proposta Finocchiaro” si parla proprio di “coinvolgimento attivo dei cittadini nelle scelte di carattere scientifico e tecnologico”… Ma poi ce la caviamo con un colpo di palazzo.
@ggiornamenti Giudici
Nouredine Drissi, il demonio del Cremonistan, era stato rilasciato dal Gip Clementina Forleo. Adesso però è stato condannato per terrorismo. Non perché avesse messo qualche bomba, ma perché meditava di farlo. Tra Drisse e i suoi compagni di merende circolava un video in cui si incitavano i musulmani a sgozzare i cristiani. Tanto basta per sbatterti in galera. Se Drissi avesse fatto scoppiare il duomo di Cremona che facevamo, lo lapidavamo?
Roberto: solo che un risultato referendario non c’è stato. Ho provato a dire qualcosa a questo proposito qui:
http://bioetiche.blogspot.com/2006/06/quel-75.html
Ciao a tutti.
segnalo a tal proposito anche questa carrellata di opinioni
http://staminali.aduc.it/php_newsshow_0_5502.html
dalla quale copioincollo l’opinione di Carlo Flamigni e Demetrio neri, membri dell’ormai scaduto comitato nazionale di bioetica.
“La mozione dell’Unione? Stupida perche’ priva della premessa logica; per nulla chiara perche’ ognuno la puo’ interpretare come crede; assurda rispetto alla supposta base scientifica: sarebbe come far ricerca sul cuore ma escludendo il ventricolo destro.
E’ questo il duro giudizio del ginecologo Carlo Flamigni e del bioeticista Demetrio Neri, membri dell’ormai scaduto Comitato Nazionale di Bioetica (Cnb) sulla mozione dell’Unione approvata ieri dal Senato in merito alle cellule staminali che regolamenta le decisioni italiane in sede europea.
“Come si puo’ vietare qualcosa, la ricerca sulle staminali embrionali prodotte e non spiegare il perche’? L’embrione per me e’ una cosa e non una persona: lo diventa alla nascita quando da neonato e’ accettato dalla madre -attacca Flamigni- Bene, cosa si dice a proposito dell’embrione? Nulla, ma si vieta nei fatti la produzione di embrioni per la ricerca: come dare uno schiaffo ad un bambino e non spiegargli il perche’, cosa ha sbagliato”.
E Neri concorda: “resta irrisolto il problema morale, ossia cos’e’ l’embrione: e’ persona oppure no? Nel primo caso ovvio che si vieti la ricerca sulle staminali embrionali, nell’altro caso che si lasci libera la ricerca da imposture”.
Aver tolto la premessa, “rispetto della vita umana fin dal concepimento”, non ha risolto dunque ma ha peggiorato le cose? “Sono sbalordito ed esterrefatto -risponde Flamigni- sia per l’approssimazione che la superficialita’ con cui si trattano questioni cosi’ importanti e delicate per poi venir a dire che la ricerca e’ permessa tanto sulle adulte che sulle embrionali”. E A Neri aggiunge: “a quale base scientifica ci si riferisca non si capisce affatto: e’ come permettere di far ricerca sul cuore ma escludendo il ventricolo destro! La ricerca non procede, non si fa a compartimenti stagno: questa visione e’ scientificamente assurda perche’ embrionali e adulte non sono tra loro alternative ma complementari e l’una ricerca serve ed aiuta l’altra”. E a chi sostiene che gli italiani, con il voto referendario, hanno detto ‘no’ alla ricerca sulle embrionali, Neri ribatte: “e’ una grande falsita’ perche’, intanto 10 milioni di italiani sono andati a votare al referendum e hanno votato si’; poi non si e’ raggiunto il quorum; quindi l’astensione e’ non manifestazione di volonta’ e non voto contrario ma qualcuno furbescamente e arbitrariamente se ne e’ appropriato. C’e’ infine -continua Neri- un recente sondaggio a cura dell’Ue, l’Eurobarometer, che dice che il 66% degli italiani sono favorevoli (30% indecisi e 4% contrari) alla ricerca sulle embrionali e che l’Italia sta subito dopo l’Olanda e alla pari con la Spagna”.
Insomma, a cosa attribuire questa situazione assurda e anche stupida? “Da ateo non impongo a nessuno le mie convinzioni, ma da studioso ho molti motivi scientifici per ritenere l’embrione una cosa e non un individuo: la politica questo nodo cruciale ancora una volta non l’ha affrontato ne’ risolto”, conclude Flamigni. E a sua volta Neri: “cosa fa uno Stato laico e democratico come e’ l’Italia, difronte ad opinioni divergenti? Accetta supinamente la posizione etica della Chiesa Cattolica delegittimando ogni altra posizione che poggia, a differenza della prima, su studi ricerche evidenze scientifiche: la Chiesa difende bene i suoi interessi ed investimenti nella ricerca sulle staminali adulte mentre lo Stato non sostiene ma penalizza la ricerca pubblica che si fa in ben 8 centri pubblici con tanto di progetti europei, sulle staminali embrionali”.”
Con riguardo alle riflessioni sul referendum sono d’accordo con giuseppe (e demetrio neri) ma resta importantissimo per me, e sostanziale, il fatto che la legge 40 è comunque una legge della repubblica, e che il (non) risultato del referendum, dal punto di vista politico e soprattutto in prospettiva femminista, è stato un indiscutibile fallimento.
ciao
@ggiornamenti
Luigi Malabarba, esimio senatore della Repubblica, ha presentato una interrogazione parlamentare per: 1) verificare se la cittadinanza del giornalista italiano Magdi Allam sia valida o no; 2) se il giornalista ha contatti con i servizi segreti; 3) se sia giusto o no dargli la scorta; 4) quali costi comporta la difesa del giornalista.
In pratica la stessa storia di Hirsi Ali, solo che nel caso della ex-deputata olandese a fare casotto era stata la destra. In Italia è un senatore di Rifondazione Comunista.
Mi ricorda un aneddoto di qualche anno fa. Stavamo preparando un libretto sulle guerre dimenticate, e mi sono trovato a lavorare a fianco di compagni duri-duri-puri-puri della Milano NoGlobal.
Propongo di chiedere un pezzo al nostro Allam. I duri-duri-puri-puri scattano subito in coro e no, no, dicono, quello è un fascista!
Trovo conferme sui siti dell’antagonismo da bere:
http://www.infopal.it/det.asp?id=1321
http://italy.indymedia.org/news/2006/07/1115033.php
Gina: d’accordo ovviamente sul fatto che il referendum sia stato un fallimento (ed è un peccato che ben pochi dei promotori si siano posti seriamente la domanda su dove si sia sbagliato, invece di dare tutta la colpa a Ruini). Quanto alla legge 40: se parliamo del ritiro dell’Italia dal blocco di minoranza nel Consiglio dei Ministri dell’UE, allora non mi sembra che questo comporti una violazione della legge; tant’è vero che gli oppositori fanno quasi esclusivamente appello alla «volontà popolare» espressa tramite il referendum che sarebbe stata violata. Se invece parliamo della sperimentazione in Italia sulle cellule staminali, allora le cose sono un po’ più complicate. Anche se mi sembra evidente che la legge non proibisca la sperimentazione di per sé, bisogna comunque tenere in conto la proibizione di sopprimere gli embrioni (art. 14 c. 1 l. 40/2004). In Italia dunque non si possono ottenere staminali da un embrione; ma si possono comprare all’estero? Non sono un giurista, ma provo ad abbozzare qualche ragionamento (se c’è un giurista vero che legge questo commento, è pregato di intervenire!). Se chiedo a qualcuno in un altro paese di ricavare staminali da un embrione congelato, apparentemente sembro incorrere nel reato di istigazione a delinquere (art. 414 c.p.); con la complicazione, però, che lo straniero non è perseguibile dalla legge italiana (art. 10 c.p.). Se invece acquisto staminali da linee cellulari già esistenti, mi pare che non si possa più parlare di istigazione; se la fattispecie si configura comunque come un reato, allora non so quale possa essere. In particolare, utilizzando linee cellulari prodotte prima dell’entrata in vigore della l. 40 si dovrebbe essere, credo, al sicuro.
Ciao.
Non mi addentro in diagnosi giuridiche sulle staminali embrionali, ma non credo che la ricerca sia illegale.
Mi chiedo piuttosto, anche con un occhio ai risultati di eurobarometer e all’incazzamento di avvenire in ogni caso, perché cavolo, al posto di disquisire piû o meno sottilmente (e rasentando il ridicolo) sulla data di morte di un embrione criocongelato al fine di driblare le linee direttive della legge 40, o sula liceità della ricerca sulle staminali anche in italia perché sono cellule (morte) e non sono embrioni, non si metta mano alla legge 40, che pare intoccabile.
Anzi no, non me lo chiedo, va:)
ciao
C’è comunque un gruppo che dovrebbe stendere le nuove linee guida per la legge. Ne dovrebbe fare parte anche una persona che conosco: se hai proposte e suggerimenti… ;-)
Ciao.
@giuseppe
ecco quello che intendevo per “dettare l’agenda politica”. Siamo partiti dalle donne islamiche per arrivare agli embrioni. Con “proposte” e “suggerimenti”***. Ottimo giro tortuoso che potrebbe dare i suoi frutti. E brava Gina… Ma se colleghiamo questo discorso al post di Jan, su come andare oltre gli attuali confini di NI, sarebbero proprio questi i ‘servizi di consulenza politica’ da criptare e monetizzare. Gina deve essere pagata per quello che ha scritto e che scriverà. Anche se adesso magari mi contraddicete platealmente. Ben mi sta.
giuseppe
ma allora la sostanza della Legge (quaranta) è proprio intoccabile! Che ne pensa il tipo che conosci? (dell’incostituzionalità, ad esempio dell’articolo 1. che dobbiamo fare, aspettare che una femmina incazzata decida di sputare in faccia al curator ventris trasportando la questione in tribunale e immolandosi sull’altare della patria?)
roberto
criptare?
temo che la pensiamo diversamente, anche se c’è tutto un discorso da fare sul sul modo di fare informazione in rete.A tal proposito visto che la questione ti preme, ti segnalo un testo di tiziana terranova, cultura network,per una micropolitica dell’informazione http://www.manifestolibri.it/vedi_brano.php?id=380
ciao a tutti
Gina: il tipo è una tipa, in realtà (ah, i pregiudizi inconsapevoli! :-). Purtroppo, se la modesta mozione Finocchiaro è riuscita a passare per un solo voto al Senato, figurati cosa succederebbe con una nuova legge sulla procreazione assistita… Almeno le linee guida sono contenute in un decreto ministeriale, e quindi non hanno bisogno di approvazione parlamentare. Comunque nulla vieta che sia sollevata la questione dell’incostituzionalità di fronte alla Suprema Corte — in effetti, non capisco bene perché non sia ancora successo. E sono sempre più convinto che bisognerebbe in ogni caso elaborare una proposta di legge alternativa, con alle spalle un’idea robusta su che cos’è l’embrione. Attualmente combattiamo su un terreno scelto dagli altri, che non è mai una situazione ideale, e l’invocazione della libertà scientifica da sola non basta. Nel caso dell’aborto ci si poteva permettere di ignorare le questioni filosofiche sullo statuto del feto, tanto il diritto della donna al controllo del proprio corpo era predominante; ma con l’embrione fuori dal ventre la cosa è diventata problematica: secondo me serve un’elaborazione culturale forte, che faccia da premessa ad ogni altro discorso, e alla quale siano gli altri a dover rispondere.
Roberto: perché «criptare e monetizzare»? Così si rinuncia a gran parte del proprio pubblico. Piuttosto, secondo me, ciò che manca all’informazione in rete è la sintesi dei vari punti di vista. Siamo ancora completamente dentro il modello della carta stampata: io scrivo la mia opinione; tu rispondi altrove; io replico; qualcuno che avrebbe qualcosa di interessante da dire a tutti e due lo fa in una altro luogo, ma non lo veniamo a sapere; la discussione muore. Ognuno di noi ha ignorato qualche punto dell’altro, non ha citato le fonti di tutte le proprie affermazioni, ha fatto ricorso a qualche nota fallacia logica o — se le cose sono andate male — all’insulto. Non c’è stata battaglia delle idee, ma scambio di pernacchie a distanza tra due eserciti schierati. Eppure la rete non ha problemi di tempi di stampa e di spazio disponibile, e consentirebbe la creazione di arene virtuali in cui non si possa sfuggire all’avversario — in cui cioè la disanima dei punti di vista sia esaustiva — e in cui il pubblico possa dire la sua (anche al di là del pollice verso), se ha qualcosa da dire. (Uno dei pochissimi a sentire la mancanza di tutto ciò è stato David Brin, qui: http://www.davidbrin.com/disputationarticle1.html.)
Ciao.
PS Troppe metafore belliche? :-)
giuseppe
non è mica detto che si debba stabilire cos’è un embrione.Anzi forse è proprio quel che per legge NON si deve fare.
Non so se tu conosca già il testo, in ogni caso ti giro un link interessante, almeno come punto di partenza
http://www.giudit.it/documenti/ferrajoli%20embrione.pdf
ciao
roberto
altro testo interessante, questo interamente in rete:
l’alba dei network organizzati, di geert lovink e ned rossiter
http://www.filosofia.it/pagine/05_12_lovink_rossiter.htm
prova.prova
Hei! luogo che interessante avete fatto, ben cotto![URL]http://www.sexy.sollazzo.org[/URL]
Hello, i love http://www.nazioneindiana.com! Let me in, please :)