VIET NOW – I nipoti inquinati #2
di Gianluigi Ricuperati
In Vietnam, anno 2006, si tirano fuori le storie dalle persone dopo insistenze sfiancanti: come denti cattivi, molari dimenticati. Così provo a estrarne uno dalla memoria della nostra guida, mentre camminiamo lungo la strada sulla quale sorge l’ambasciata americana, quella della famosa fuga in elicottero del 1975, quando gli ultimi statunitensi rimasti a Saigon si sono letteralmente arrampicati verso il cielo per fuggire sconfitti. La storia di An, la guida, comincia con due peli che spuntano dalle guance di suo fratello, all’inizio degli anni sessanta. Due peli infantili, nella povertà sobria di campagna, in un villaggio nel Delta del Mekong, all’alba dell’occupazione americana.
Poi, l’indovino sentenzia: un pelo porta fortuna e l’altro porta sfortuna. Chissà quale, però: così il bambino cammina e gioca per il mondo con i suoi due ciuffi solitari, simili a chele sul piatto docile del viso. Un pomeriggio, in mezzo ai giunchi, il passo sbagliato, una trappola messa dai nordvietnamiti ai danni di quelli del sud – mezzo storpio per quasi tutta l’infanzia. Poi però l’infanzia passa. E tocca all’esercito – la marina militare del Sud, alleata di quella statunitense. Dove si arruola nel 1972, e rimane ferito durante un conflitto sull’acqua. Poi la guerra finisce, ma quando finisce le complicazioni lo tengono stretto all’ospedale. Intanto comincia la conta dei buoni e dei cattivi, e i soldati del sud e le loro famiglie vengono emarginati, ostracizzati, puniti. Gli anni passano: il fratello di An decide di riscattarsi provando ad arruolarsi nell’esercito, andando a combattere i Khmer Rouge in Cambogia. Viene ferito per la terza volta. Ma senza riconoscimenti, sussidi, impiego – nessun eroismo, qua la memoria non si celebra ma le vendette si consumano senza agitarsi troppo. Trascorrono anche gli anni ottanta. E pure i novanta. Oggi il fratello di An vive con la famiglia d’origine – mai spostato dal villaggio nel Delta del Mekong – mai avuto un’esistenza in levare, ma solo la domanda su quale dei due peli sarebbe valso la pena tagliare, e se poi non sarebbe stato stupido rischiare e farne saltare uno a caso. La morale di una barzelletta. D’incanto, mentre smetto di seguire con lo sguardo gli occhi di An che raccontano, le gengive paralizzate a molla in un unico apri-chiudi del sorriso, senza differenze per le cose tragiche o quelle comiche, perdo di vista l’orizzonte oblungo di ville coloniali e i filari di tamarindi, e mi sembra di vedere soltanto le facce incalcolate negli elmetti di milioni di soldati semplici, quieti e ammassati lungo il profilo delle strade, come su un fiume su cui galleggiano i corpi evocati da una vertigine del pensiero, e del calcolo, tutti i soldati semplici di tutte le guerre, questa moltitudine metastorica che attraversa i decenni e i secoli, un sindacato senza tempo di miseria e mancanza, tentacolare, puntuale, grigissimo. Poi penso all’altro capo di quella strana sorta di estuario che è la trasmissione degli ordini nelle strutture militari – i vertici politici, il mitizzato Nguyen Giap, la torturatissima psiche del segretario di stato Robert MacNamara, il generale Westmoreland e tanti altri, persi in altrettante circoscrizioni della mappa storica. E sento un peso che sentirebbe chiunque altro, niente di speciale – ma conico, rovesciato, difficile da numerare. E penso a quel che mi ha detto An scherzando, ‘sai, ho poche amiche, quando non so con chi parlare vado dall’indovino, anche se non ci credo, almeno sento che gli sto passando qualcosa, e quando me ne vado quel qualcosa non è più con me’. Il peso delle guerra rimane nell’aria, e non ha indovini.
In Vietnam, anno 2006, i poster originali di propaganda anti-americana sono più rari di una Ferrari. E una Ferrari, in Vietnam, è più rara di una nevicata. E la neve An dice di averla vista solo in una fotografia di Napoli che le ha regalato un vecchio turista italiano. Ecco le conseguenze di questi viaggi nel tempo dentro gli oggetti: circostanze introvabili, paragoni introvabili, pensieri che occorrono una volta all’anno: un mondo subacqueo a pressione altissima, in cui ogni reperto è definito dal suo valore non meno di un luogo, una casa o uno spazio in vendita. I viaggiatori in passato raccontavano vuoti orizzontali, ampi, definiti dalla vastità e dal possibile, uno spettro fantasioso di opzioni da far succedere – mentre da qualche decennio e nell’ultimo in particolare i vuoti da portare a casa si sono chiusi a spirale e conchiglia, tratti interstiziali, avviluppati abissi di spostamento mentale compresi fra gli atomi dei luoghi e il loro uso, tra il fare del tempo e il precipizio storico – un fantastico retroattivo, fatto di reperti. Che qua hanno bruciato, nascosto, sotterrato. E se li vuoi comprare, nel caso dei poster con il grano le falci e lo sguardo paterno di Ho Chi Mihn devi tirare fuori qualcosa parecchie centinaia di dollari. Ma prima devi perdere tempo, e una parte di dignità, e di correttezza politica. Non cedono di un centesimo, e allora diventa una escalation. ‘Ma qua è una cifra spaventosa’, ‘ma neanche in Occidente si riescono a vendere a questo prezzo’, ‘ma vi rendete conto’, e infine, stupido io e impassibili loro – ‘ma voi, qua, ci vivete due mesi con quei soldi’. C’è da sentirsi penosi come dopo un litigio in auto, mentre da una radio nel negozio accanto suonano le note di Like a Rolling Stone.
In Vietnam, anno 2006, ci si immerge in un traffico insostenibile, e il traffico può essere scambiato per energia, e non sarebbe uno scambio sbagliato. Le giornate iniziano alle cinque, insieme alla comparsa del cielo mattutino, e i clacson partono per una riscossa che durerà fino alle nove di sera. Copiano e falsificano, producono e vendono, coltivano e importano, affittano e appaltano. Di facce sopra i 45 anni non se ne vedono come ci si aspetterebbe girando per i canali generalisti delle metropoli. Le strade sono satelliti interamente dedicati all’ospitalità produttiva di legioni di ragazzi impegnatissimi, con l’obbiettivo collettivo, individuale e dichiarato di fare tanti soldi al più presto. Come altrove in Asia, si passeggia incantati in un asilo-monopoli inquinato: fluttuante di denaro contante, nelle dita e soprattutto nella testa. E in mezzo, ogni tanto, qualche europeo, simile a uno stelo antico, preoccupato, o nei casi meno sensibili, indaffarato a sfruttare la situazione. Amedeo Martegani, l’artista che ha ispirato questo viaggio, mi dice che noi occidentali, di fronte agli asiatici, siamo come dei nonni ricchi che vanno a guardare come giocano i nipoti, e i nipoti non hanno nessun interesse nei loro confronti, e aspettano solo di vederli morire, perché quando moriranno finalmente arriverà l’eredità – la bolla finanziaria in cui è immerso l’occidente, la struttura quasi invisibile che scherma i nostri vestiti: i nostri costumi: il benessere coscienzioso in cui lasciamo circolare la nostra dipendenza dal passato.
Apparso su La Stampa lunedì 19 giugno.
Le foto sono di Amedeo Martegani
(2 – continua)
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Reportage soffocato da incontinenza di metafore.
a me è piaciuto
L’incontinenza esiste, il reportage no. Apprezzo la stream of consciousness contenuta nei limiti del delirio di chi, non potendo liberarsi di sé, trova degli alibi nel mondo esterno. Liberarsi del problema di chi-dove-quando e allontanarsi dal perché in attesa dell’illuminazione è la nostra tradizione in Algeria. Sono curioso di sapere come andrà a finire.