Rassegna dell’ultima narrativa italiana (prima parte)
di Piero Sorrentino
Sorprendere un’immagine unitaria e omogenea, al suo grado di massima nettezza di forme e colori, che sappia staccare, dal fondo del vertiginoso teatro della narrativa italiana degli ultimi anni, una cronaca felicemente compitata e un bilancio critico capace di fermentare per mezzo di inquadramenti netti e rigorosi, è un’impresa che lascia in partenza annichiliti. Alla stessa maniera i richiami a scuole, gruppi, movimenti, generazioni, poetiche, etichette o – peggio – ideologie, alla ricerca della figura nel tappeto o dell’emblema definitivo delle scritture che in Italia si fanno, fiaccano lo sguardo d’insieme costringendolo al tratteggiamento morboso e inerte di simboli e cifre e allegorie.
Esauritosi lo stato di mobilitazione ideologica e politica degli anni del secondo dopoguerra, smaltita la sbornia avanguardista degli anni ’70 e il “neo-neorealismo” degli Ottanta, il macrotesto unitario che secondo Calvino inglobava e dava senso al lavoro degli scrittori italiani almeno fino agli anni ’60 è andato a poco a poco stemperandosi, fino a dissolversi e a soccombere per sempre sotto i colpi dell’ultima e ultimissima produzione italiana. Nel mostrarsi sul finire dell’anno, a suggellare un’annata che se non ottima è certamente buona, e che rappresenta un timbro in più sul suo certificato di sana e robusta costituzione, la narrativa del 2005 sembra puntare a volte sulla corposità dello scheletro, sulla robustezza dell’intelaiatura, sulla maestosità architettonica e formale (Colombati, Parente) a volte sulle geometrie algide o bollenti della prosa (Pavolini, Mancassola, Niffoi, Piperno), a volte sull’individuazione di essenziali nuclei narrativi o biografici (Bajani, Fazzi, Moresco), a volte infine su un ritrovato, appassionante gusto dell’affabulazione (Parrella, Pincio).
In questa pendolarità e oscillazione tra una linearità narrativa più o meno solida, ancorata a una tradizione, e le ineludibili istanze di tentativi di sperimentazioni formali e linguistiche si muove – in parallelo a quello che qualcuno sta tentando di compiere in poesia col genere lirico – un percorso che della messa in crisi della centralità del genere romanzo ha fatto una bandiera e un obiettivo. Dentro a un quadro così complesso ogni libro, ogni scrittore testimonia sempre e solo per se stesso, e però allo stesso tempo si fa efficace portavoce – con una straordinaria capacità di accoglimento – di un diffuso senso (storico, sociale, politico, culturale) di collettività, da cui si può tentare di spremere un succo sostanzioso una analisi biochimica del quale si tenta nelle pagine che seguono.
***
Sbuca un inaspettato “io” dalle pagine di Per grazia ricevuta di Valeria Parrella (minimum fax). Nel tessuto fitto in cui immerge i protagonisti delle sue storie, una scucitura trascurabile apre squarci da cui fa capolino uno sguardo limpido, lucido, che zooma e inchioda sulla pagina volti, gesti, frasi, scorci urbani. I personaggi di Valeria Parrella, assieme all’ “io” che ne discende, sono personaggi (e in questo consiste la fertile stranezza) dalla fortissima attitudine mitica – prendendo l’aggettivo nel suo etimo più profondo – ma di un mito fuori tempo massimo, scaduto e marcio. La dimensione mitica, come si sa, è una dimensione ciclica, circolare, avvolta su se stessa. Il mito è una indefinita parentesi temporale. I protagonisti dei racconti di Per grazia ricevuta. agiscono immersi, quasi fosse un test da romanzo sperimentale dell’800, in un sistema vitale spontaneo, disordinato, eccessivo, che sembra trascinarsi dietro lo spazio e il tempo, l’infinitamente piccolo e l’infinitamente grande, storie e Storia. Valeria Parrella è irresistibilmente attratta dalle condizioni liminari di esistenza che in quel sistema attecchiscono e trovano un densissimo brodo di coltura: la moglie del corriere di camorra che da un giorno all’altro si trova suo malgrado scaraventata in prima persona a faccia a faccia col lato più puzzolente della malavita, per esempio, o gli operai di una tipografia clandestina tartassati sia dalle scadenze coi clienti che dai lampeggianti blu della Finanza hanno il sapore e il timbro di uno studio d’ambiente, di un cartone preparatorio di un affollato dipinto. Quest’occhio votato all’osservazione dei comportamenti – prima ancora che dei sentimenti – dà ai racconti di Valeria Parrella quella luce sempre un po’ schermata che illumina i palchi dei teatri. Come sulla scena di una rappresentazione fitta di personaggi principali che si muovono forsennatamente qui e lì, e comprimari che restano sullo sfondo, ai margini dell’occhio e delle vicende, Per grazia ricevuta adotta una prospettiva centripeta in cui dentro il perimetro luminoso dell’occhio di bue ci sono tutti e quindi non c’è, paradossalmente, nessuno. Tutto cambia nel particolare, ma niente si sposta nel quadro generale, nella visione di insieme di una vita troppo più grande. Gli eventi ritornano su se stessi, intaccati solo sulla superficie (di solito da una nascita, un amore inaspettato, una casa nuova in un altro posto della città) ma profondamente ancorati a una solida radice di fondo. E mentre le pagine si accumulano, mentre le vicende si annodano (sempre) e si sciolgono (quasi mai), mentre i piccolissimi congegni narrativi si proiettano verso il punto fermo che consegnerà loro solo una timida requie tipografica, l’autrice sembra allontanarsi sempre di più dai fatti che impaniano i suoi personaggi, affidando al suo grande talento d’osservatrice gli imprevisti che, come un dio della narrazione crudele e spietatamente giocoso, fa loro crollare addosso : “Non mi interessa accompagnare i personaggi dalla nascita alla morte, ma in un breve periodo di tempo, ore o anni, cerco di incontrarli e lasciarli, cogliendoli in momenti chiave della vita in una sorta di impossibilità di cambiare – ha detto la scrittrice in un’intervista – il sentimento muove le svolte: mi piace raccontare quando non si sta bene e si trasmuta, il superamento del limite”. Per poi concludere: “Io non faccio morale; io constato”.
Sul tronco dei quattro racconti che compongono il volume, la fusione di vivezza bruciante della testimonianza e allo stesso tempo la maestosa capacità di filtro, di distanziamento percettivo, di oggettiva anamnesi di un corpo collettivo in disfacimento qual è quello della città di Napoli innestano rami laterali e rigogliosi, foglioline sintattiche e narrative che rendono le storie di Valeria Parrella uno degli alberi più verdi del giardino della letteratura meridionale. La bellezza e il sapore del libro sono in questa continua sfaccettatura delle superfici, rese vibranti da nessuna invasione di spirito moralistico, da nessuno sfondamento di pretese didattiche o didascaliche, ma al contrario vivificate da abbondanti dosi di umanità, buon senso e ironia. Certo, la stessa Parrella a volte sembra far balenare, dalle sue pagine, la consapevolezza che in fondo umanità, buon senso e ironia possono rivelarsi strumenti spuntati coi quali incidere il corpo proteiforme di una città come Napoli. La tentazione di organizzare “adunate sediziose” in una piazza accogliente, di allestire paranze distruttive e radicali per spianare tutto e ricostruire daccapo, è forte (come nella Rivolta degli angeli di Anatole France, in cui un gruppo di angeli ribelli si incontra a Parigi per dare la scalata al dominio divino, o come nel processo a Cristo del Grande Inquisitore nei Fratelli Karamazov). Ma poi l’alzata di spalle o del sopracciglio spesso prevale, e Per grazia ricevuta assume la forma di un libro scritto da uno spirito ragionevolmente cinico che fissa la propria immagine nello specchio desolato di una città, e di un tempo, che non gli appartiene (che non gli appartiene più, o non gli appartiene sempre).
Anche il libro di Salvatore Niffoi, La leggenda di Redenta Tiria (Adelphi), sembra fare del racconto di una città, prima ancora che dei personaggi e delle loro vicende, un’opzione narrativa primaria. Abacrasta, il paese dei suicidi “in cui di vecchiaia non muore mai nessuno”, dove “l’agonia non ha sfottuto mai un cristiano” e in cui la Voce, prima o poi, chiama tutti (“Ajò! Preparati, che il tuo tempo è scaduto!”), galleggia nel tempo incerto di una modernità non ancora pienamente realizzata (“Abacrasta…ha duecentoquindici televisori, quattrocentonovanta vitture e millecentosessantatré telefonini”) e di un arcaismo temporale cristallizzato nella ripetizione luttuosa di gesti e riti di morte in cui alla vita si sostituisce il male di vivere. Ma il sospetto di provvisorietà di questa ipotesi di partenza, a mano a mano che si avanza nella lettura del breve libro di Niffoi, acquista sempre maggiore rilievo. Fino a quando infatti si consideri Abacrasta solo come un’ allegoria della condizione umana, che nel racconto delle brevi biografie dei suoi abitanti inscrive la cifra di esistenze già segnate in partenza da immedicabili caducità di destini ghermiti fin dalla culla dalla sventura del suicidio, si corre il rischio di fermarsi – e lì stazionare – a un primo, superficiale livello di lettura e analisi.
Se è vero che l’ambientazione del romanzo in un’isola (la Sardegna) che della reiterazione di miti e riti ha fatto un importante tratto distintivo sembra ricondurre il romanzo di Niffoi in un alveo di riconoscibile tradizione letteraria (Salvatore Mannuzzu, Ignazio Delogu, Sergio Atzeni…), è altrettanto vero che l’origine della leggenda di Redenta Tiria coincide con una perdita di identità che incrina irrimediabilmente la possibilità di un qualsiasi tipo di ritorno a un prima (prima della modernità, prima dei telefonini, prima delle vitture). Lo strappo dell’ordine pastorale, della scansione metodica e sempre uguale dei tempi contadini, in un tessuto ormai squarciato da una invadente contemporaneità, segna le individualità dei suicidi: il doppio che non si è (che non si è più o che non si è mai stati) si ripresenta sotto forma della Voce che chiama, fantasma di una speranza o di un desiderio nemmeno troppo nascosto di ritorno all’innocenza primaria. La tragedia prevale sull’epica. Non è più la Sardegna di Grazia Deledda, appunto : “Nel nome c’è tutto l’amaro di Abacrasta, – ha spiegato l’autore in un’intervista – Abacrasta è un termine crudo e letteralmente si riferisce al liquido corrosivo, non riciclabile e nocivo, che viene secreto dalle olive al frantoio dopo la prima spremitura”. Il narratore Battista Graminzone (che non a caso di professione fa l’ ufficiale dello stato civile, uno cioè che prende atto dell’altalenante svolgersi di nascite, morti, matrimoni, divorzi, limitandosi a una sterile verbalizzazione dell’esistente) sembra infine salvarsi dalla Voce (“Io la Voce mi sono stancato di aspettarla, per questo sono andato a cercarla sotto la quercia grande di mannoi Menelau Graminzone, al confine tra le tanche di Sas Animas e il Santuario della Madonna del Raccolto”), trovando nell’ urgenza della scrittura una parvenza di salvezza (fortemente sospettata però di temporaneità già scaduta; davvero non si scommette a cuor leggero sulla sorte del narratore, e la pagina bianca che, per convenzione editoriale e tipografica, separa l’ultima facciata coperta da inchiostro dalla terza di copertina, assume un sinistro aspetto di vuoto pneumatico, di spazio sgombro spazzato dai venti mortiferi della Voce che ha colpito ancora un’ultima, dolorosa volta…).
Non si può fare a meno di osservare come anche Lorenzo Pavolini, nel suo secondo romanzo Essere pronto (PeQuod) prenda le mosse da un’idea di città raccontata non nella statica immobilità di fondale teatrale o cinematografico (come quei film a budget ridotto dove i personaggi agiscono e si muovono su prospettive geografiche e spaziali manifestamente posticce), ma per mezzo di una compresenza di piani paralleli (città e personaggi, spazio e caratteri, luoghi e fatti) che si intersecano e che risultano comprensivi di elementi diversissimi: gli oggetti quotidiani, il corpo, la natura (vedi l’ossessione ecologica del protagonista sul cancro che colpisce i platani a Roma), coi quali si compone, sulla pagina, un orizzonte narrativo che in realtà è tramato da una forte vena concettuale. L’io narrante – un K. sopravvissuto in qualche modo al Processo e che ha trovato residenza a Roma, erede della nutrita tradizione di inetti letterari che in Svevo hanno trovato definitiva consacrazione letteraria – adotta un tipo di sguardo sul mondo e sulla vita che non penetra mai nel tessuto delle cose, non ne svela la complessità della trama, non mira al nocciolo dei fatti. Il suo sguardo è come allentato, assemblato con materiali dalla filettatura spanata e le viti marce. È un occhio che ha scordato la lezione di Dziga Vertov (“Io sono il cineocchio. Io, macchina, vi illustro il mondo come io solo posso vederlo. Io sono in continuo movimento, io mi avvicino e mi allontano dagli oggetti, striscio sotto di essi, vi monto sopra (…) io confronto tra loro tutti i punti dell’universo, dovunque li abbia fissati”); anzi, è una lezione mai nemmeno imparata. Il personaggio (senza nome) che dice io nel romanzo di Pavolini sembra piuttosto un nipote di Pierre Flourens, fisiologo francese del diciannovesimo secolo che riteneva possibile dimostrare che il cloroformio lavora solo al livello delle connessioni neuronali della memoria (lo racconta Slavoj Zizek in Il godimento come fattore politico). Mentre vengono squartati sul tavolo operatorio, argomenta Flourens, i pazienti sentono tutto il dolore dell’operazione (la pelle lacerata dal bisturi, la lama che recide i muscoli…) ma poi, dopo il risveglio, non ricordano nulla. Il cervello registra perfettamente il dolore; solo che, attraverso la rimozione indotta dall’anestetico, il soggetto non se ne ricorda. Allo stesso modo, in Essere pronto (titolo fortemente antifrastico che gioca anche sull’ambiguità semantica della prima parola, alla quale si può associare sia l’infinito del verbo che il sostantivo sinonimo di “singolo”, “creatura”, “organismo”) se il dolore c’è non si vede, e se c’è stato non ce n’è più traccia.
L’anestesia dei sensi diventa piombo nelle gambe, spezza il fiato e il ritmo dei corpi, ottunde e stinge qualunque volontà d’azione, piano, progetto. Il dolore non è una via per la conoscenza del sé, o una modalità di espiazione di eventuali colpe pregresse. Pavolini mette la sordina a qualunque riverbero emotivo, sentimentale, psicologico che possa venire da (o andare verso) i protagonisti del romanzo. La cache di memoria dei personaggi viene continuamente cancellata da un virus che divora tutte le seppur minime e essenziali forme di esperienza, di passato, di conservazione di un patrimonio – culturale e politico – comune. Anche qui, come in molte pagine di Niffoi, a prevalere è l’angoscia del mutamento, il timore della variazione, l’incombere dell’imprevedibile (che invece puntualmente arriva sotto forma di due poliziotti violenti e dell’accusa di terrorismo: “Sono uno che non pensa a quello che gli sta succedendo, non si domanda cosa ci fa in quel posto, perché proprio lui. Non mi viene in mente, ho pochissima prontezza di spirito. Mi davano dei cazzotti fortissimi ai fianchi e anche al centro dello stomaco (…) mi urlavano che il potere fa strage dei suoi figli, che nessuno può dire il male della polizia”). In una lingua sorvegliatissima e evidente frutto di numerose riscritture, Pavolini (che si direbbe aver molto amato, per certe assonanze atmosferiche e strutturali, Ti vestirai del tuo vestito bianco di Ferruccio Parazzoli) dissemina la narrazione di notazioni che oscillano tra metamorfosi e rinuncia, tra timidi vagheggiamenti di cambiamento e devastanti ritorni alla realtà, tra estasi visionaria (soprattutto nelle pagine in cui compare Perla, modella del pittore Alberto, che forse esiste o forse è solo una proiezione di quei vagheggiamenti del narratore) e disperata cognizione della propria immedicabile immobilità (“Passo molto tempo sdraiato sul pavimento e non sento più dolore. La finestra inquadra soltanto cielo, e tutto ciò che può abitarne la luce costante (…) Mi agita una idea continua di turba e sommossa, di vita che si monta e si disfà, costruisce per disperazione, e distrugge per amore”). E una volta portata a compimento questa operazione di progressiva e inesorabile spoliazione morale ed emotiva, la ricomposizione della frattura che percorre le pagine di Essere pronto resta nel limbo delle possibilità inespresse, aerea e impalpabile. Lo spazio di manovra lasciato all’arbitrio decisionale lettore è ridotto all’osso.
Forse non c’è speranza. Forse non c’è mai stata.
(continua)
(pubblicato su Nuovi Argomenti n° 33/2006, “Otto libri che hanno fatto l’Italia”)
Sono un giovane lettore che probabilmente capisce poco di libri, ho già scritto qualche altra volta su NI e adesso mi chiedo: cosa possa dare alla narrativa italiana l’ultimo libro di tale T. Pincio, “La ragazza che non era lei”, se non una rapida carrellata di vuoto citazionismo americanista. Una sterile sequela di scopiazzature altrui al solo fine del colpo di scena finale alla Foster Wallace, di Oblio???
Perdonatemi perché non so quello che faccio.
In una rassegna dell’ultima narrativa italiana, non so come si possa omettere il romanzo di Pietrangelo Buttafuoco.
O meglio:sull’omissione , qualche idea mi viene.
buttafuoco avrebbe scritto un libro? ma dài zelda, ti diverti a prenderci in giro
che burlona che sei, però
Sorrentino è calato, ma non calato assai, nel grumo delle Patrie Lettere. Blog, riviste, case editrici. Ma di questo silente potere gordiano nulla risale in superficie, nemmeno una bolla. La realtà non intacca lo STILE. Non c’è tremore, al contrario adesione. Sorrentino non batte la fiacca, ma balla un liscio senza increspature. Lento è l’incedere pontificio, il trapasso dai lidi dipartimentali della critica che fu accademica nell’oceano della comprensione popolare. Ma quello STILE conserva la sua tara originale. L’incapacità di fondersi carnalmente, o perlomeno ‘scientificamente’, con l’oggetto della propria analisi. La critica, oggi, è un limitarsi a sfiorare parole e cose, senza rincorse teoriche e affanni didattici (Panzeri ci riesce perché ha più esperienza, e decisione). E poi come si fa a non infierire con uno che ha deciso di chiamarsi Pincio? Sorrentino ci riesce ugualmente, arbiter elegantiae, e parla di “un ritrovato, appassionante gusto dell’affabulazione”. Si riferisce per caso al soprannome? Insomma, il “succo” di questa rassegna è un monadesimo autoriale oltre il quale null’altro si ha da cogliere che il monachesimo stesso (contro “scuole, gruppi, movimenti, generazioni, poetiche, etichette…”). Di che cosa stiamo parlando allora? Del “fermentare per mezzo di inquadramenti”? O delle “geometrie algide o bollenti”? Solo una volta l’autore che, per precauzione, non si espone (mamma mia, dimenticavo “l’ideologia”!), si fa prendere per mano da Madonna Allegoria. E racconta di traverso se stesso, i suoi segreti di bambino, ricordando chi fummo e cosa fummo. Piedi di bue.
@S.Ballo
E già, sono proprio una burlona; pensa che per me ‘Le uova del drago’ è il romazo più bello di quest’anno (targato Mondadori, come Saviano:la par condicio è salva)
mhm, diavolo d’un Roberto … :-)
dice bene roberto, con i tremori pulsanti e beffardi che sono propri del suo stile. in effetti mi ha colpito subito del post di sorrentino il suo, di STILE. dopo le prime 3 righe sono corso alla coda del pezzo: facile e prevedibile riscontro. non un post pensato per un blog, ma per una rivista. che non è certo organo della ‘massoneria’ accademica, eppure evidentemente ti spinge a indossare la maschera di un ‘affiliato’. non sono andato molto oltre. proprio perchè da un pezzo così potrebbero emergere stimoli interessanti per un discorso non tanto sui nuovi narratori o sui ggiovani poeti, quanto sul linguaggio della critica (dei ggiovani, quella che oggi facciamo o leggiamo).
rassegne, mappe, cartografie, genealogie sull’ultima poesia e sul romanzo dell’altro ieri. gli esclusi e gli inclusi, lo stucchevole gioco che è anche di ogni sforzo antologico (è la prima parte della rassegna: rassegniamoci alle deficienze della campionatura, alle scelte che derivano dalla specola soggettiva del curatore di turno). è il misterioso effetto linguistico della critica che mi interessa.
roberto, in fondo, parla di freddezza, della distanza di un linguaggio critico come standardizzato. il che è buona cosa, nel metodo. in generale. ma se poi si concretizza in un certo manierismo delle forme e nell’impersonalità del lessico adoperato, la cosa assume connotati preoccupanti. quantomeno si aprono interrogativi. e anche, caro roberto, si squadernano le possibili alternative.
mettiamo che qui si stia tentando una guida topografica, benchè letteraria. quasi come una guida turistica. non ti darebbe ugualmente fastidio se l’autore (pavone) si mettesse troppo in mezzo tra te, neofita e curioso, e i luoghi che ti sta decrivendo, che poi magari andrai anche a vedere (a verificare, a ‘leggere’) di persona? è insomma il difficile compito del mediatore, della mediazione.
ma si potrebbe andare a spasso con questi aspetti del linguaggio critico. con schemi latamente psicoanalitici o ‘politici’. per chi si parla; per conto di chi si fa il discorso critico; il super-io che sopravanza; l’interlocutore che si ha in mente è davvero una ‘comunità’ o una cerchia di eletti? eccetera.
era solo per dirti, a prescindere dal post, che il problema a mio parere è spinoso. e che se a darti fastidio è la ‘tecnica’ impersonale di un linguaggio assai spesso algido, elitario, spersonalizzante (il ‘mestiere’); così ad un altro ‘visitatore’ potrebbe dare uguale noia la presenza, magari dissimulata, di un soggettivismo narcisista, anche se burlone. tipo un risi d’annata che diceva, come saprai, dei film di moretti: spostati, fammi vedere il film… in medio stat virtus?
Buttafuoco fa cagare ed è nazista. Mi pare abbastanza per ignorarlo.
mullet, anche céline non era quel che si dice un sincero democratico. pare non sia necessario per scrivere bene.
bambi, se il nazista di cui parla mullet è uno scrittore, tu sei un finissimo critico e il parallelo che fai con Céline è già negli annali delle storie letterarie
ma secondo me tu sei un amico di zelda e vi divertite tanto tanto a fare i burloni, vero?
sballo, tu vedi un parallelo letterario dove c’è un semplice accostamento di opinioni politiche (céline era di ultradestra, assai più che buttafuoco), che ha il solo scopo di far balenare il dubbio – il dubbio balena di rado nelle menti deboli – che queste stesse non siano significative nel giudizio di valor letterario, come mullet sembrava invece pensare.
Il finissimo critico sei tu, a quanto pare; come quando pensi che si debba essere amico di qualcuno per parlare.
grazie per il “debole di mente”, bambi, si vede che mi conosci bene
prova invece a considerare quello che hai scritto in quest’altra forma:
“mullet, credo non sia necessario essere un sincero democratico, a quanto pare, per scrivere bene”
la tua formulazione, se ci rifletti, contiene un parallelo buttafuoco-céline che fa inorridire anche un analfabeta
e poi:
“pensi che si debba essere amico di qualcuno per parlare”
e anche qui, a quanto pare, dimostri di conoscermi molto bene
solo che, permettimi, non ho capito bene in quale album hai trovato la figurina che mi riguarda
p.s.
non mi chiamo sballo, caro bambi, ma S. Ballo
A proposito di Parrella.
Ho capito solo a sprazzi la recensione, troppo colta per un artigiano delle parole come me. Però mi ha sorpreso non trovare nessun accenno al linguaggio che usa Parrella, a quello strano slang italonapoletano che, a mio inutile avviso, è la nota più fresca di questa 31enne napoletana dagli occhi di gabbiano ( sì, è anche una bella ragazza ).
E’ un linguaggio nuovo, che non ha nulla di oleografico nè giovanilistico ( alla Morozzi o Brizzi, per capirci ), originale e discreto. Accattivante.
E mi ha sorpreso che si citi di Valeria solo “Per grazia ricevuta” e non “mosca più balena”, la prima raccolta che, in effetti, non ha grosse differenza col secondo lavoro, tanto da farmi pensare che alla Minimum ( furbetti ) hanno spezzato in due un’unica raccolta.
Penso poi che non citare il Premio Calvino giovani attribuito al primo lavoro e la finale dello Strega al secondo sia voluto. I premi, si sa, sono volgari.
@ S.Ballo
Prova a leggerlo, il libro di Buttafuoco.Vedrai che magari ti piace.Il mio scrittore preferito è il veltroniano di ferro Veronesi, ma quando c’è ilvalore , dell’opinione politica non mi importa.
E’ un romanzo scritto benissimo, non è certo più amorale di American Psycho, di Houellebecq, e neanche del cinema tarantiniano, del pulp e dell splatter tanto in voga fra i giovani scrittori di sinistra di qualche anno fa.
Per Bruno Esposito: la rassegna prende in considerazione libri usciti l’anno scorso (in qualche modo bisognava tracciare il campo di battaglia…), per questo cito “Per grazia ricevuta” e non “Mosca più balena”. Non cito i premi ricevuti perché non mi pare aggiungano o tolgano niente, quella è materia – rispettabilissima – per quotidiani.
un saluto
Anzi, mi pento di aver minimizzato un bravissimo scrittore come Veronesi come ‘veltroniano di ferro’, tanto sono assurde e insensate queste etichette politiche associate alla scrittura.
Veronesi secondo me è un bravvissimo scrittore, punto.
Buttafuoco secondo me è un bravissimo scrittore,punto.
“Prova a leggerlo, il libro di Buttafuoco…”
Grazie zelda, ma nemmeno se minacciassero di tagliarmi la coscienza e le due appendici di sostegno. E poi, diciamola tutta, sono un salutista, non faccio uso di droghe pesanti.
Ok S.Ballo,non insisto.Forte quella del ‘salutista e delle droghe pesanti!’
cioè, sbal, tutta sta pippa e manco hai letto il libro di cui parli, ma va va :))
(poi hai bisogno di un po’ di analisi logica, ma che te lo dico a fare)
zelda, non fraintendere, il riferimento alle “droghe pesanti” era relativo solo all’effetto che gli appicciafuochi hanno su di me, non ad altri o al loro grado di tollerabilità di certi prodotti
capriolo, io non ho solo bisogno di analisi logica, ma anche di tante altre cose che nemmeno immagini. comunque si vede, anzi, si sente, che sei uno colto, devi aver fatto le scuole “alte”
in ogni caso, se mi indichi un caso di connettivo o di costrutto logico fuori posto, lo correggo con piacere e, in cambio, ti dico pure se, oltre al buttafuori, puoi aspirare a leggere anche qualcos’altro :))
“tanto sono assurde e insensate queste etichette politiche associate alla scrittura”. Insensato come l’ultimo Strega, finalisti lo stesso Veronesi e Madonna Addolorata del Secolo Scorso. Segretario addetto allo smistamento-voti quel che resta di Maggiani. Ma in fondo è stato sempre così. Però insensato no, a me sembra sensatissimo.
Pietrangelo Buttafuoco, ”Fogli consanguinei”, Edizioni di Ar, 2002. Il testo raccoglie diversi articoli e interviste curati da Buttafuoco e usciti precedentemente sul ”Foglio”. Tra le interviste ce n’è una a Freda. La prefazione è di Giuliano Ferrara, preceduta da una ”Avvertenza” di Freda, l’editore.
@Zelda
Passo in rassegna velocemente tutti i post e mi balza agli occhi solo un American Psycho, di Houellebecq.
In realtà è di Bret Easton Ellis.
@C
Svista dovuta alla fretta.
E’evidente che America n Psycho è scritto da Bret Easton; vista se non issima popolarità, difficile attribuirlo a Houellebecq.
Grazie per la puntuale precisazione.
Refusi:’è scritto da Bret Easton Ellis’; vista se non altro la vastissima popolarità’