Il cesto di pomodori
Io e mio fratello Alberto frequentavamo il liceo di un paese vicino.
L’edificio era una vecchia casa riadattata e la nostra aula conservava ancora i rubinetti e le piastrelle di quello che una volta, era stato un bagno. Su ogni piano erano stipate, dopo l’ultimo terremoto e nonostante l’inagibilità, 5 classi per un totale di più di duecento persone e bastava pestare un piede per sentire che i pavimenti ballavano.
Forse c’era in questo un insegnamento, perché quella struttura pericolante ci costringeva a ricordare che la solidità non dura mai a lungo e, più di tanto, certe cose non reggono. Ci leggo anche, ora che sono lontana, quell’antico affidarsi del popolo napoletano alla fortuna o ciorta, da cui nascono: il desolato fatalismo, la rassegnazione accidiosa e, come contrappunto, quell’arte di sperare nell’inaudito con un’ostinazione molto vicina alla fede.
Alle norme sulla sicurezza non credeva nessuno e anzi, in occasione della perizia edile, il nostro preside con spirito partenopeo, rispose citando Amleto quando dice: “Ciò che deve succedere succede comunque. L’importante è essere pronti”.
Questa frase la fece poi attaccare sulla porta di ogni aula e fu il suo unico e sensato contributo all’agibilità dell’immobile che, grazie a Dio, è ancora in piedi, nonostante gli anni e le scosse di assestamento!
In compenso, eravamo dotati di sismografo, laboratorio di chimica, vari computer. Questa insolita abbondanza era dovuta alla paziente questua che, il prof. Armano insieme al collega di fisica, prof. Esposito, aveva fatto in tutti gli osservatori e uffici della Campania, recuperando il materiale che non veniva utilizzato.
A entrambi, inoltre, devo il ricordo di alcuni esperimenti, tra cui quello di caricare la batteria delle auto usando gli alberi di limone, che il Prof. Esposito teneva nel suo giardino e da cui sperava di ricavare una fonte pulita e alternativa di energia.
Nei giorni in cui la tramontana soffiava forte da far volare le tegole, incontrandoci per strada, il prof. Armano ci faceva salire sulla cinquecento azzurra e ci accompagnava fino a scuola.
Prima di entrare, andavamo insieme a guardare un tratto di campagna abbandonata. Il vento faceva i colori nitidi, più concatenati, quasi mostrassero all’improvviso la grana di cui era tessuto il celeste dell’aria.
Restavamo lì a tremare, non di freddo soltanto, ma di una commozione che sempre ci prendeva quando osservavamo qualcosa insieme a lui e ne avevamo, all’improvviso, rivelazione di bellezza. Ci assaliva allora rimpianto di non averla guardata mai con attenzione e gratitudine per quegli occhi nuovi, che lui ci piantava dentro con poche accorte parole, con l’intesa di un silenzio.
Tra una lezione e l’altra sui fossili e la meraviglia di poterci leggere tutto il tempo del mondo, veniva ogni tanto arrestato, essendo – si diceva allora – vecchio amico di una delle più antiche famiglie della camorra locale.
Ne tornava come se nulla fosse accaduto, la borsa piena di quarzi e di ossidiane, il libro di Lucrezio di cui riprendeva la lettura, dal punto in cui altre necessità l’avevano interrotta.
Cominciavano allora due diversi dialoghi: la voce percorreva vie minerali o botaniche, ma gli occhi rispondevano ai nostri sguardi. Non era di colpevolezza o innocenza, che parlavamo in quel linguaggio muto. Siamo cresciuti nella convinzione che fosse inutile porsi la questione in certi termini, gli occhi dicevano piuttosto la nostra preoccupazione, ma lui la spostava più vicino o più lontano, sulla venatura di una conchiglia, sulla denominazione dei venti.
Soltanto una mattina, quando era certo ormai di non potersi salvare, mise da parte la biologia per dare risposta a quella domanda che non avevamo mai avuto il coraggio di fargli.
Disse che vivevamo espropriati sulla nostra stessa terra, in un continuo stato di eccezione ed esso era regolato da leggi di guerra, perché a contare tutti i morti, una guerra bisognava per forza supporla.
Mesi prima, anche a lui era arrivato un avvertimento, una bomba aveva fatto saltare in aria due stanze appartenute a suo padre. Erano strette e umide, ma davano su un cortile con al centro un ulivo – la sua infanzia -.
L’urto aveva spianato quelle quattro pietre e in quanto all’albero, non gli erano bastati gli sforzi di cent’anni per gettare radici, irrobustirsi, attorcigliarsi… a certi colpi non si resiste.
Pensando a suo padre aveva pianto. Gli sembrava anche non ci fosse più un posto, un segno, a dirgli che davvero era cresciuto lì. Ma questo segno, ormai, si negava pure ai morti. I dispersi finivano mischiati al fango e i napoletani, che con loro non avevano mai interrotto il dialogo, dimenticavano anche quest’ultima intimità che li aveva fatto profondi.
Fuori c’era vento ed era l’unico rumore.
Nessuno di noi parlò, non ne avevamo di parole. Lui riprese Lucrezio, ma gli mancò la voce per leggerlo e così quei minuti li passammo in silenzio a guardare dalla finestra, il cielo che si riempiva di nuvole.
Due giorni dopo, era in cortile, un uomo gli ordinò di seguirlo. Ebbe il tempo di vedere sua madre che arrivava dalla strada di fronte a portargli i pomodori raccolti. La sentì tremare nei panni scuri, col cesto troppo pesante…Allora lei capì che non voleva essere visto mentre andava a morire, così fingendo di non aver indovinato, disse: – Te ne lascio anche per questo tuo amico –
L’uomo aveva già eseguito altri incarichi senza esitazioni e senza mai commuoversi, ma anche a sua madre, forse un giorno, sarebbe capitato di dover recitare la stessa scena. Così, lentamente, scelse un pomodoro a forma di cuore e disse:
– Sono belli, vi ringrazio – lo disse abbassando la voce, con rispetto, perché in quei nostri paesi potevi calpestare tutto, ma certe cose erano sacrosante e una madre è una madre, annulla qualsiasi differenza.
Per un attimo, davanti a quella immagine, si rividero entrambi ragazzi, poi l’uccisore si ricordò perché era lì e disse: – Andiamo -.
Il professor Armano guardò la figurina dentro i panni neri, svuotati, pronunciò un – torno stasera – e si avviò.
Per gli anni che le rimasero da vivere, lei continuò a passare il crepuscolo affacciata alla finestra con la folle speranza che una crepa del tempo o un Dio meno sordo, con più senso della vergogna, potesse far mantenere a suo figlio la promessa.
Con gentilezza l’uomo lo portò oltre un campo, dietro un muro e gli chiese di voltarsi
Forse guardò un momento in alto e si asciugò la fronte. Forse faceva freddo e intorno era tutto molto calmo.
Il campo era deserto e non c’era nessuno.
Volse le spalle all’uomo e respirò senza tristezza.
Ci fu un unico sparo.
Quando arrivò la notizia della sua esecuzione, fu fatto sapere che nessuno avrebbe dovuto partecipare al suo funerale, ma noi ci andammo tutti insieme, anche quelli che avevano finito il liceo da anni, ci andammo per salutarlo e non lasciare il prof. Esposito a piangere da solo.
In chiesa, il parroco raccontò di un sasso bianco di fiume trovato nella sua tasca, ci leggeva speranza, ma a noi ricordando le sue lezioni sembrò al contrario, uno spreco insopportabile che si spegnesse con lui tutto quell’amore per il terrestre, tutti quei mondi intravisti nella più comune cosa.
Quando la messa finì andammo in campagna a guardare gli alberi. Se ne stavano fermi, in un modo che gli uomini dovrebbero imparare. Pensai allora a quanto sia bello tirarsi su dalla terra e affondare le braccia tra il cielo e le nuvole.
C’era silenzio e così, seduta a terra, suonai finché non si fece buio. Suonai per lui, per lo zio Totò e per Mimì Ramano. La mia musica erano i loro nomi, le parole mancanti che non sapevamo pronunciare.
Per questa vergogna, quell’unica volta non tornammo a casa insieme…
Stanotte, il prof. Armano è venuto a trovarmi, portava la giacca sciupata di sempre, i capelli appena un po’ più grigi
– Non vuoi sapere perché è successo? –
– No – mi sono affrettata a rispondergli – ci sono già stati troppi giorni riempiti di fatti e io, invece, volevo raccontare una storia –
– E dove sta la differenza? –
– Nei chiaroscuri – dico – le storie, l’ombra non la cancellano –
Lo vedo sorridere ed è l’ultima cosa che vedo.
Poi la stanza ritorna vuota.
(Tratto da Il testamento di Marlon Brando, Incontri editrice, 2006. Foto di Luigi Verde)
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Bello, intenso, magico…
Chi ha vissuto a sud, vi ritrova un’atmosfera troppo poco raccontata…
Non è facile raccontare un delitto con tanta dolcezza….
Mi sono commosso, poetico…
bello anche il sito Nobis, lo consiglio agli altri viaggiatori
Grazie.
La cronaca appiattisce e banalizza la crudezza e la pervasività del fenomento camorristico.
Pagine ispirate e liriche come queste riescono invece a restituire l’intreccio di orrore e bellezza, il mescolarsi nel ricordo delsnague degli assassinati, al familiare fruscio degli ulivi, che si tende invece a trascurare per pigrizia o per paura
grazie Jan, un vero crescendo. Antonello
Bello il racconto, toccanti le foto di Luigi Verde, ho visitato nobis, bravi!!!
Viene voglia di saperne di più, vedere altri lavori.
Intenso, commovente, Ti prende la gola e il Cuore, apre a visioni
e Sentimenti profondi. Un tuffo d’ Anima.
Complimenti sinceri
davide
Bravissima, scrivere è proprio il tuo mestiere
Tiziana è apparsa all’improvviso nella mia vita con le bozze dei suoi romanzi.
E’ stato un incontro sorprendente, emozionante e commovente, l’incontro con la scrittura più bello dei miei ultimi anni.
Il testamento di Marlon Brando e poi L’ordine del vento già pubblicato e che ho il piacere di custodire nel mio sito nella versione integrale (www.annalisasilingardi.it nella sezione New un pò sotto cliccando sulla copertina del libro l’Ordine del vento) .
Tiziana ha scritto ancora un romanzo bellissimo ‘1799’ , un pulcinella straordinario nella Napoli giacobina, sono certa che anche quest’ultimo verrà pubblicato molto presto.
Le dedico un paio di mie poesie:
34/06
In tregua
Di lavorio molesto
Tutto mi ribella
Al cielo
E’ cronaca di svagato sfacelo
Mi tolgo
Dai dolori piccoli
Con ali pesanti
Apro lo slargo
Fuori
Da falsi punti di vista
Non mi viene
Dolore
Qualcosa di largo
E di grande
E’ quello che voglio provare
Di un mondo
Con il cuore Impiccato
E’un coltello che
Mi spezza le ali.
27/06Il peso sotterraneo
Era
Sovrastante
Subculturale
Deflagrante
Languore riflessivo
In deambulazione provvisoria
Nasce dalle braccia
Che stringono
Il mio respiro
Poichè
Sono fuggita
Sono ancora leggera
L’avventura diffonde
Il suo odore infedele
Va detto
Solo quel poco
Le mie labbra
Portano in luce
Il mio orlo bianco..