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Da “Degli angeli minori” (2)

immagine-070.jpgimmagine-070.jpg di Antoine Volodine

Traduzione e notizia di Andrea Inglese

15. Babaïa Schtern

Bisogna salire le scale a piedi, l’ascensore è rotto, il motore è stato incendiato negli scantinati una trentina d’anni fa da non si sa chi, degli erranti o dei soldati, forse involontariamente o forse per malignità, o forse perché certi si sono immaginati che vi fosse una guerra o una vendetta in corso e che era in quel modo che la si vinceva o la si appagava. Gli odori d’olio bruciato e i vapori radioattivi si sono dispersi e l’edificio è nuovamente salubre. Abito al quattordicesimo piano, il meno devastato.

Appena torno a casa e raggiungo il pianerottolo del nono piano, prima di infilare la rampa di scale successiva, devo passare davanti alla porta del 906. Lì faccio una pausa, e riprendo fiato. Da cinque mesi l’appartamento è occupato. La porta è stata segata a mezza altezza, come una volta nei box da stalla, quando ancora c’erano dei cavalli, e sul bordo della parte superiore s’appoggia una donna con le braccia enormi. È Babaïa Schtern. È là notte e giorno, in camicia, lustra di sudore, larga e panciuta e adiposamente liscia come una volta gli ippopotami, all’epoca in cui c’era l’Africa; là soggiorna costantemente, con dei brevi intervalli durante i quali i suo figli la spostano per svuotarle il mastello o la tirano verso le profondità dell’appartamento per lavarla o ingozzarla.

Senza mai emettere altro suono che dei vasti sospiri o dei rumori di fermentazione intestinale o i sibili della piscia o della diarrea, sta immobile sulle vecchie carcasse di pneumatici che i figli Schtern hanno impilato sotto di lei, in modo che la loro madre abbia una buona seduta al di sopra del suo mastello e possa godere delle spettacolo delle andate e venute. C’è in realtà poco passaggio, perché a parte me nessuno abita nei piani superiori. Come una sentinella abbandonata nella corte di una caserma lontana dai combattimenti, Babaïa Schtern per delle ore non vede venire nulla. Scruta la scala che si copre di polvere, gli scalini che nessuno calca, se non io, in quanto i suoi figli entrano ed escono da un altro lato, per una scala che porta all’ottavo piano. Lei resta così, interrogando l’assenza totale di avvenimenti, inerte, la fisionomia deprimente, non asciugandosi le gocce di sudore che la percorrono, percependo in lei il grasso che lentamente si gelifica, indovinando le masse muscolari che in lei si rilasciano, sbattendo poco le ciglia, a volte esposta ad attacchi d’insetti, a volte importunata da farfalle o mosche. Il nulla è un po’ fetido, lei lo fiuta a piccoli colpi di narice, lo esplora. Nel muro crepato che le sta di fronte si annidano dei gechi. Lei li conosce a memoria, sa quello che vale ognuno di essi, sa chi tra di loro è maldestro, chi è dotato nelle lingue, chi non sormonterà mai i suoi traumi infantili. Li ama.

Nulla si muove sopra di lei appena ho abbandonato l’edificio. Allora Babaïa Schtern dirige l’attenzione verso le parti basse dell’edificio, verso la strada, perché di tanto in tanto dei rumori interessanti vi s’intrufolano, dei rumori di passi o le voci dei nomadi che trascinano dei carichi attraverso la cenere, la sabbia. Lei ascolta anche i rumori dell’aria negli alloggi vuoti, i canti del vento, il chiocciolio delle galline in una casa, in cui Bela Mardirossian, si dice, gestisce un allevamento. Il tempo passa. Babaïa Schtern deve spesso aspettare così un mezza giornata o perfino una giornata intera prima di contemplare una figura umana, cioè la mia.

Ogni volta che passo davanti alla porta del 906, incontro lo sguardo di Babaïa Schtern, l’avidità spaventata del suo sguardo che cerca il mio. Non abbasso gli occhi. Mi fermo qualche secondo di faccia a lei, ricevo il suo discorso muto a proposito della sporcizia fondamentale dell’esistenza. Taccio, non ho riposte da addurre a tali domande. Da tempo nessuno sa dire perché è necessario che l’esistenza graviti attorno ad un nocciolo fondamentale così crudelmente sporco. Scuoto la testa, sorrido, le labbra mi tremano. Provo della compassione per questa donna, ma non posso niente per lei. Prova a parlarmi, e io dispongo il mio organismo in modo tale che sia manifesta la mia disponibilità all’ascolto, ma quasi subito getta dietro di lei uno sguardo colpevole, verso l’appartamento dove risiedono i figli, e, proprio sul punto di trasmettere un messaggio, vi rinuncia. E manda un sospiro di una pesantezza eccezionale. La sua disperazione di colpo diluisce nell’obesità, e si sente uno dei figli Schtern che si raschia la gola da qualche parte in cucina. Un altro fa tintinnare una tazza. Babaïa Schtern ricomincia cupamente a osservare i gechi che graffiano l’entrata crollata del 912.

Ai figli Schtern non manifesto mai un segno che vada al di là della semplice cortesia. Nonostante noi si sia ormai vicini, li ignoro. Mi duole questa prossimità. Non mi ispirano alcuna simpatia, non abbiamo nulla in comune. È evidente che ingrassano la madre per delle pure ragioni cannibaliche. Fra poche settimane, la sgozzeranno e la cucineranno. È pur vero che l’esistenza è fondamentalmente sporca, ma, comunque, potrebbero andare a far questo altrove.

*

Notizie su Volodine

Antoine Volodine è nato nel 1950 a Chalon-sur-Saône. Volodine è uno pseudonimo adottato per amore della lingua russa. Dopo aver compiuto studi di lettere e di lingue slave, insegna il russo per quattordici anni a Orléans, per infine dedicarsi al mestiere di traduttore. Il ’68 e, più tardi, la contestazione della guerra in Vietnam, costituiscono per lui due esperienze fondamentali ed ancora aperte. Dal 1971 inizia a proporre i suoi testi alle case editrici, collezionando rifiuti per una quindicina d’anni. Finalmente nel 1985, per la collana di fantascienza della casa editrice Denoël, viene pubblicato il suo primo romanzo, Biographie comparée de Jorian Murgrave. Volodine non è per nulla uno scrittore di genere, in quanto la sua passione consiste piuttosto nell’inventare i generi. Ma per alcuni anni, il pigro mondo letterario francese guarderà a Volodine come ad uno strano scrittore di fantascienza.
Oggi Volodine ha alle spalle 14 romanzi e un saggio di poetica romanzesca intitolato Le post-exotisme en dix leçon, leçon onze uscito nel 1998 per Gallimard. Nos animaux préféres costituisce il suo ultimo romanzo, uscito nel 2006 per Seuil. In Italia, è in corso di traduzione per Fandango Alto solo, uscito nel 1991 per Minuit.

*

In un volumetto intitolato Une recette pour ne pas vieillir, uscito nel 1994, Volodine riflette sulla sua formazione e sul suo approccio alla scrittura. In poche righe rende manifesto il suo rapporto strettissimo alla storia, che rende impossibile il perseguimento, attraverso la scrittura, di una qualsiasi forma di innocenza. Se l’innocenza è perduta per sempre, è perché l’uomo penetra in modo irreversibile nella dimensione politica della consapevolezza e della lotta. Ma nei suoi romanzi, l’universo politico non si oppone al desiderio di evasione, anzi, l’agire politico nasce innanzitutto come strategia di evasione e fuga da tutto quando si rende identificabile e riconoscibile dal linguaggio del potere e dalle sue forme di rappresentazione.

« Mi sarebbe piaciuto descrivere qui, descrivere per voi una infanzia più pacifica, meno segnata dalle minacce militari e dalla morte, avrei amato paragonare i nostri anni cinquanta senza partire dalla guerra e dal dopoguerra e dalle sporche guerre coloniali che strisciavano agli incroci delle nostre strade perfino nelle province più ritirate, una infanzia più campagnola, più nomade (…) insieme avremmo immaginato dei campi di mirtilli coperti di brume, degli stagni al crepuscolo, avrei preferito un tale incontro senza data e memoria, o almeno ornato solamente da ricordi culturali o da chiacchiere da appassionato di piante, ma malgrado la mia lontananza vivevo, come voi, come qui, tra le tracce del massacro permanente che caratterizza la storia detta umana, sotto il peso del massacro mondiale che era appena accaduto, e nel silenzio degli adulti per tutto ciò che riguardava lo scannamento in corso.»

I due brani che ho scelto di tradurre sono tratti da una raccolta di narrats intitolata Des anges mineurs uscita nel 1999 per Seuil. Con il neologismo “narrats”, come spiega lo stesso Volodine nelle poche righe che introducono il libro, egli definisce una forma breve di racconti, che all’inizio si presentano al lettore come autonomi e slegati, salvo poi convergere progressivamente verso un intreccio globale, in cui vanno ad inserirsi come parti di un mosaico solo “parzialmente” componibile. Come in molti altri suoi libri, Volodine è portato a costruire architetture narrative estremamente complesse, che contengono vari livelli narrativi, diverse voci narranti, e una folla cangiante di personaggi. Ma non vi è mai in lui il perseguimento di un edificio narrativo coerente, simmetrico e cristallino. Il lettore si trova costantemente confrontato a smagliature, resti, incongruenze.

Ogni frammento narrativo prende il titolo da uno dei personaggi che in esso funge da protagonista. Ma tutti questi personaggi sono a loro volta evocazioni, frammenti mnemonici di una sola vicenda che un solo personaggio richiama alla mente. La vicenda ha come protagoniste una banda di vegliarde immortali che si battono contro la ricostituzione di un sistema capitalistico, in un mondo spopolato e violento. La serie di evocazioni è ascrivibile a Will Scheidmann, sorta di automa vivente, di golem creato dalle vegliarde come figlio e continuatore della loro ideologia egualitaria. Ma Scheidmann si rivela un traditore, colui che ha favorito la reintroduzione del capitalismo mafioso in seno ad una società atomizzata di superstiti. Su questa scarna fabula l’autore costruisce un ampio spettro di situazioni estreme, oniriche, che si richiamano costantemente tra loro, senza mai allinearsi però in un unico e semplice filo narrativo.

(Queste traduzioni inedite in Italia sono apparse inizialmente su il calzerotto marrone www.ilcalzerottomarrone.it/rivista/traduzioni.asp (n°4, 2006).)

Foto A Inglese

5 COMMENTS

  1. Grazie Andrea! (sto nel mezzo di una giornata un po’ grigia e ci voleva questo respiro, se pur… così crudelmente sporco). Mi interessa molto anche la sua visione narrativa (approfondirò).

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Andrea Inglese (1967) originario di Milano, vive nei pressi di Parigi. È uno scrittore e traduttore. È stato docente di filosofia al liceo e ha insegnato per alcuni anni letteratura e lingua italiana all’Università di Paris III. Ha pubblicato uno studio di teoria del romanzo L’eroe segreto. Il personaggio nella modernità dalla confessione al solipsismo (2003) e la raccolta di saggi La confusione è ancella della menzogna per l’editore digitale Quintadicopertina (2012). Ha scritto saggi di teoria e critica letteraria, due libri di prose per La Camera Verde (Prati / Pelouses, 2007 e Quando Kubrick inventò la fantascienza, 2011) e sette libri di poesia, l’ultimo dei quali, Lettere alla Reinserzione Culturale del Disoccupato, è apparso in edizione italiana (Italic Pequod, 2013), francese (NOUS, 2013) e inglese (Patrician Press, 2017). Nel 2016, ha pubblicato per Ponte alle Grazie il suo primo romanzo, Parigi è un desiderio (Premio Bridge 2017). Nella collana “Autoriale”, curata da Biagio Cepollaro, è uscita Un’autoantologia Poesie e prose 1998-2016 (Dot.Com Press, 2017). Ha curato l’antologia del poeta francese Jean-Jacques Viton, Il commento definitivo. Poesie 1984-2008 (Metauro, 2009). È uno dei membri fondatori del blog letterario Nazione Indiana. È nel comitato di redazione di alfabeta2. È il curatore del progetto Descrizione del mondo (www.descrizionedelmondo.it), per un’installazione collettiva di testi, suoni & immagini.