Simmetrie e coefficienti di correlazione

ovum.bmpdi Sergio Garufi

Platonici si nasce, e io, modestamente, lo nacqui. Me ne resi conto un giorno di 8 anni fa, quando un amico, che conosceva la mia passione per Houellebecq e Cioran, mi consigliò di visitare un sito in rete che elaborava dei coefficienti di correlazione fra autori diversi, ossia stabiliva matematicamente quanto due variabili statistiche x e y fossero collegate fra loro. Il risultato per il rumeno e il francese era di 0,98. In sostanza, a un estimatore dell’uno non poteva non piacere l’altro.

Se non fosse che ho sempre dichiarato la mia insofferenza verso la semplificazione delle dicotomie, qui contraddetta in modo imbarazzante, aggiungerei che questo giochino vale anche per le contrapposizioni. Chi ama la crocifissione del Masaccio difficilmente apprezzerà l’enfasi e la retorica del compianto sul Cristo morto di Niccolò dell’Arca: nel secondo la Maddalena ha i tratti del volto stravolti dal dolore in modo quasi caricaturale e grottesco; mentre nel primo questo sentimento viene pudicamente suggerito dalla posizione delle braccia di lei, essendo ritratta di spalle. E, in genere, chi preferisce Niccolò dell’Arca è un estimatore del film Magnolia di Paul Thomas Anderson; mentre i “masacciani” (sempre restando su pellicole simili, cioè corali) sono soliti optare per il più sobrio e carveriano America oggi di Robert Altman. A questo punto nulla vieterebbe, se non un briciolo di buon senso, di fantasticare una futura applicazione sentimentale di quei coefficienti di correlazione, una qualche formula matematica in grado di preservarci dal dolore dei brutti incontri e dai traumi delle separazioni.  

 Se le affinità fra Houellebecq e Cioran erano in fondo abbastanza evidenti (il nichilismo, per es.), meno chiare mi apparivano invece le ragioni di altre mie infatuazioni giovanili, quale quella per Borges e Piero della Francesca, se non altro per le differenti epoche storiche e discipline artistiche. Cosa avevano in comune uno scrittore argentino del Novecento e un pittore toscano del XV secolo? Rintracciare il fil rouge delle proprie passioni è un esercizio meno ozioso di quanto possa sembrare. Per certi versi spiega molte cose anche di se stessi, aiuta a conoscersi meglio.    

 Quando studi un artista per anni, in modo quasi monomaniacale, arrivi a un punto in cui hai l’impressione – fallace o autentica non importa – di conoscerlo intimamente, come fosse un amico che incontri tutti i giorni. Per te rappresenta, a tutti gli effetti, una sorta di anima gemella che ti parla da un’epoca lontana. Può essere un persona vissuta 500 anni fa, di cui esistono scarsissimi documenti biografici, eppure ne percepisci con forza la personalità, ne intuisci le fattezze, comprendi le ragioni dei mutamenti del suo stile con gli anni. Forse tutto questo precede addirittura lo studio, nel senso che la scelta di studiarlo viene fatta in base all’intuizione delle affinità, piuttosto che rivelarsi successivamente. Successivamente te ne accorgi, ne sei consapevole, sai spiegare in qualche modo le ragioni di quell’interesse, ma queste preesistevano, e si erano manifestate sin dal primo contatto.  

 Pur sussistendo enormi lacune documentarie riguardo alla vita di Piero della Francesca, le poche cose certe che sappiamo sul suo conto autorizzano a istituire un parallelo verosimile con Borges. A prima vista entrambi condussero un’esistenza relativamente tranquilla, celibe e agiata. Certo, l’argentino formalmente si sposò due volte, ma i suoi furono matrimoni farsa, contratti di assistenza domiciliare. Entrambi inoltre furono molto legati alla loro patria e rimasero ciechi in tarda età. La prova che Giorgio Vasari diceva il vero sulla cecità di Piero nelle sue Vite fu una distratta menzione in una Cronichetta biturgense del 1556 ad opera di Berto degli Alberti, nella quale l’autore intervistava alcuni cittadini di Sansepolcro fra cui Marco di Longaro, un piccolo artigiano che realizzava lampade a olio. Leggere quel brano mi colpì, mi identificai un po’ con l’intervistato, ricordando i giorni in cui accompagnavo Borges per le strade di Roma o di Volterra. Rispondendo a una domanda di Berto degli Alberti, l’anziano Marco di Longaro rammentava che da giovane, molti decenni prima, aveva “datto il braccio” al grande pittore cieco per le vie della loro città; e, meno nelle parole che nel tono usato, in lui traspariva un misto di orgoglio e di rimorso, come se si fosse accorto soltanto in quell’istante che la sua lunga vita, fatta di lavoro e di affetti, sarebbe passata alla storia solo di riflesso, per quell’episodio che all’epoca gli parve insignificante.   

 “Tutti gli uomini nascono aristotelici o platonici”. Così sentenzia Samuel Taylor Coleridge in Table talk (1832). “Gli uni” – chiosa Borges – “sentono che le classi, gli ordini e i generi sono realtà; i primi, che sono generalizzazioni; per questi, il linguaggio non è altro che un approssimativo giuoco di simboli; per quelli è la mappa dell’universo. Il platonico sa che l’universo è in qualche modo un cosmo, un ordine; tale ordine, per l’aristotelico, può essere un errore o una finzione della nostra conoscenza parziale.” In questo senso, Borges e Piero (e pure il mio io di allora) appartenevano indubbiamente alla seconda categoria.  

 Studiando le loro opere, la prima cosa che notai fu l’amore per le simmetrie. Per entrambi la simmetria è il punto di sintesi, lo strumento grazie al quale ogni antinomia si placa e si risolve. Un evidente esprit de geometrie anima le loro opere. Penso alla riflessione verticale degli angeli della Madonna del Parto di Monterchi, disegnati con lo stesso cartone, o agli alani contrapposti di Sigismondo Malatesta a Rimini, o ancora ai ritratti dei duchi di Urbino e alla Madonna della Misericordia. In Borges la simmetria si manifesta in un gioco di contrapposizioni tematiche, vedi ad esempio la disputa fra i due teologi, che agli occhi di Dio sono le due facce della stessa medaglia, o i destini speculari del guerriero e della prigioniera. Ma tracce di questa ossessione simmetrica si potrebbero rinvenire pure nello stile, con l’uso insistito della doppia aggettivazione. La simmetria trasmette loro un senso di ordine, di armonia, di bilanciamento dei contrasti. Il fine dell’arte sembra essere quello di ridurre la massa caotica delle vérités de fait all’ordine divino delle vérités de raison. L’impersonalità e l’atarassia dei loro personaggi sono gli attributi di un mondo reificato, che anela alla grazia e all’innocenza dell’inorganico, un mondo in cui è bandito il dolore.  

 Le rare volte in cui l’asimmetria si manifesta nelle loro composizioni è come se la vita irrompesse brutalmente a urlare il suo strazio. La Pala Montefeltro è la prima opera di Piero che vidi. Sùbito mi balzò agli occhi quell’assenza sottolineata, come se tutte le linee della composizione precipitassero in un buco nero, ossia là dove era lecito aspettarsi la presenza di Battista Sforza orante in ginocchio sotto l’omonimo santo. Ogni cosa si bilancia intorno all’asse della Madonna con Gesù bambino, l’architettura stessa pare disporre le figure: due angeli per lato e tre santi da entrambe le parti. Poi il donatore, Federico, e dall’altra parte nessuno. Quel vuoto è l’elemento che ha permesso di datare il dipinto, realizzato successivamente alla morte della moglie, ossia dopo il 1472. Ma quell’asimmetria è soprattutto il dolore inconsolabile di un lutto. E in fondo cos’è un amore non corrisposto, se non un’asimmetria dei sentimenti? E le malattie?   

 Anche in Borges le asimmetrie compaiono di rado, e veicolano il medesimo messaggio. Al pari di Piero, il suo universo platonico, incorruttibile ed eterno, è fondato sulla geometria. Ne La morte e la bussola egli sviluppa un puro problema di logica e geometria, fondato sui simboli del numero 3 e del numero 4, del triangolo e del rombo. Dice bene Ernesto Sábato: Red Scharlach pensa ed esegue un piano matematico. Il criminale ucciderà il detective che gli dà la caccia in un punto prefissato della città, come chi termina una dimostrazione: more geometrico, perché in quel racconto non si commettono omicidi, si dimostra un teorema. La stessa ambientazione, opportunamente privata di precise e riconoscibili coordinate spaziali, serve alla dimostrazione, tanto che, a rigore, il testo avrebbe potuto cominciare con la formula rituale dell’universo matematico: “si prenda una qualsiasi città X”. Trasformandosi in pura geometria, il racconto entra nel regno dell’eternità, si sottrae alla maledizione di Eraclito.  

 Per Borges e Piero l’universo platonico è un invulnerabile rifugio di astrazioni in cui si annullano le differenze individuali e il dolore e i sentimenti non hanno cittadinanza. Lo spirito incarnato, la realtà sudicia e infetta va indovinata nelle pieghe nascoste dei loro giochi intellettualistici, là dove il pudore vien meno. E’ il caso del finale di Nuova confutazione del tempo, il saggio di Borges più lungo ed elaborato (incluso in Altre Inquisizioni). Dopo un estenuante e pedantissimo elenco delle teorie filosofiche che confutano l’esistenza del tempo, tutte presentate con una costruzione sintattica specularmente simmetrica, nella chiusa l’argentino confessa, in modo intenso e commovente, che “negare la successione temporale, negare l’io, negare l’universo astronomico sono disperazioni apparenti e consolazioni segrete […] Il tempo è la sostanza di cui sono fatto. Il tempo è un fiume che mi trascina, ma io sono quel fiume; è una tigre che mi divora, ma io sono quella tigre; è un fuoco che mi consuma, ma io sono quel fuoco. Il mondo, disgraziatamente, è reale; io, disgraziatamente, sono Borges.”
  
 

49 COMMENTS

  1. Se Borges oggi potesse entrare in libreria e acquistasse un bel pacco di libri contemporanei di fisica, direbbe del tempo, dell’esistenza e del reale quello che alla fine dice nel finale di Nuova confutazione del tempo? Non mi stupirei se la certezza che ha l’uomo della strada (diciamo pure quasi tutti) del tempo come processo esistente ed irreversibile in futuro crollasse. Che ne sarebbe del nostro modo di vivere e di percepire? Del resto Massimo Piattelli Palmerini, per dirne uno, spiega molto bene cosa sono le illusioni cognitive e come ingannino la percezione. O. Sacks è riuscito a divulgare efficacemente come la coscienza è un imprendibile trepidio, che soltanto la memoria riesce ad allargare arbitrariamente e a trasformare in persona. La realtà dipende dalla mente. Già Varela, Thompson, Rosch avevano affrontato nel 1991 al MIT la questione dell’emergenza della coscienza dalla mente e della realtà dalla coscienza. Penrose si chiese nel 1994 se la realtà dipendendo dalla mente, allora questa mente dipende dalle equazioni matematiche che ordinano il reale. Com’è che a livello macroscopico i processi sembrano irreversibili, mentre a livello micro risultano reversibili?
    Monroe nel 1996 ha riprodotto sperimentalmente il gatto di Schroendiger che finché è inosservato è vivo e morto simultaneamente, grazie all’uso di raggi laser in grado di creare una sovrapposizione di stati diversi di uno ione berillio (Monroe, C, et al., A Schroendiger Cat, Superposition State of Atom, in Science, 24 maggio 1996).
    Che cos’è il fenomeno, il dato che ci appare?

    Le filosofie del linguaggio ritengono generalmente di aver emarginato il pensiero fenomenologico, che concepisce il “dato” come dimensione semantica originaria che esiste indipendentemente dal linguaggio da cui è indicata. Ma, propriamente, con la filosofia del linguaggio l’atteggiamento fenomenologico è solo trasportato su di un altro piano: quello dove viene effettuata la “descrizione” – la fenomenologia, appunto – dei cosidetti “giochi linguistici”.
    In questo senso, la fenomenologia è l’orizzonte ultimo della filosofia contemporanea. Fenomenologia è il progetto di affermare ciò che appare, nelle misura in cui appare – sia, ciò che appare, il dato extralinguistico o il linguaggio.
    Quel che rimane del tutto impensato è che all’interno di questo progetto il contenuto che viene descritto non è mai ciò che appare, bensì ciò che si è premilinarmente “deciso” di assumere come il contenuto che appare, come il dato. Alla radice di tutte le forme della filosofia fenomenologica dell’occidente agisce la “volontà” che una certa struttura semantica sia il “fenomeno”,il contenuto del phainesthai.
    Tale struttura è il Tempo, la temporalità dell’essere. Ed essa rende possibile la volontà in generale. Che l’essere sia tempo non è l’originaria evidenza fenomenologica, ma è l’originariamente voluto (che si presenta a sé come l’originariamente veduto): e solo se la volontà originaria vuole che l’essere sia tempo, e quindi dominabile, la volontà può volere tutto ciò che, sul fondamento del proprio atto originario, essa è consapevole di volere. Quindi la stessa finitezza dell’essere e dell’uomo, che scaturisce dalla loro temporalità, non è l’evidenza originaria della coscienza, ma è il prodotto della volontà che interpreta come tempo il mondo, le cose, la vita. Questa volontà interpretante appartiene all’essenza del nichilismo.

    Perché tutto questo venga alla luce è necessario che il pensiero sia libero dalla volontà che interpreta l’essere come tempo. Occorre dunque muoversi lungo il percorso dove il linguaggio mostra lo stare oltre la volontà interpretante, cioè oltre il senso che l’Occidente conferisce al Tempo.

    Ora, certamente, ogni cosa è nel Tempo, ma nel senso che il Tempo è il “modello” – lo specchio deformante – all’interno del quale viene fatta apparire e viene pensata ogni cosa, e viene fondato il significato stesso dell’esser cosa della cosa, il significato del mondo e quindi anche del nostro essere nel mondo. La comprensione scientifica del mondo è l’espressione concettualmente più rigorosa di tale mondo (sebbene la fisica contemporanea la sta scardinando); e dunque è una delle varianti decisive dell’atteggiamento fenomenologico. Esiste, così, uno scarto incolmabile tra la vita e il modello del tempo, da cui proviene anche ogni specifico modello scientifico. Ma il senso della vita non si può lasciare ricondurre al significato vitalistico della vita, dove la vita finisce col coincidere con la volontà e bìos mostra la propria sconcertante vicinanza con bìa, la violenza.
    “Vita” è invece, il volto autentico dell’essere, quale si manifesta al di là di ogni progetto fenomenologico e al di là della forma originaria della volontà di potenza che vuole l’identità tra essere e tempo.

    Si tratta dunque di pensare il divenire in senso non nichilisto.
    Non la lettura del divenire sul fondamento dell’essere, né quello dell’essere sul fondamento del divenire, ma la testimonianza della loro cooriginaria unità, unità che muta radicalmente e rinnova il loro significato: questa appare la via per cogliere la natura più intima della nostra vita. Ed allora, solo allora che ciò che appare appare in altro modo.

    Alla stessa conclusione aveva già condotto Ramana Maharshi.

    Cioran, peccato, lui che è quasi invicibile, con la sua prosa è memorabile, ammaliante, non si scampa impunemente a essa. Aveva capito come pochi i mistici, ma si fermò proprio prima dell’ultimo gradino. Arriva fin dove i mistici parlano del pericolo che comporta il distacco che discerne in ogni forma il vuoto deserto e in ogni nulla Dio.
    Questo pericolo si chiama malinconia. Cosa fa Cioran? Reagisce alla malinconia trasformandola in rabbia benedetta alla quale occorre abbandonarsi.
    Eppure bisogna procedere oltre e opporre a Cioran la via del distacco di Eckhart. Procedere fino al nulla del mistico che ha estinzione la malinconia.
    Houellebecq, invece, mi sembra sempre più un pacco.

  2. @Luminamenti
    le certezze dell’uomo della strada sono già crollate, o comunque ormai sa che non sono certezze, matrix ha potuto più dei cinque sensi.

  3. @garufi
    E’ una bella trovata, quella delle correlazioni, ma poi non funziona secondo me, siamo modelli misti e variabili.

  4. La vedo così sulla Pala Montefeltro. Il committente deve entrare nel dipinto, Piero trasforma questo punto del capitolato nell’occasione per dipingere l’immagine dei due mondi, quello di sogno della religione e quello della veglia, quello terrestre.
    Poteva dividere in due la composizione come sceglie di fare El Greco nell’Entierro. Invece no, usa la simmetria, la prospettiva costruita con una limpidezza architettonica abbagliante, l’equilibrio tra cose e personaggi, per il sogno. Davanti colloca una figura separata da questo ordine, ma nella stessa immagine. E’ una trovata molto bella e penso che Piero sia riuscito a dipingere un “incontro” tra queste due dimensioni. Del resto chi lo dice che si deve essere platonici o aristotelici? essere terrestri è più complicato, queste due possibilità convivono in ognuno non come dei criteri filosofici per costruire la verità, ma proprio come emozione, come rapporto con l’esistenza. Forse Piero doveva arrivare alla fine della sua carriera per rappresentare quell’incontro.

  5. @luminamenti

    non stai facendo un po’ troppo un pastone di heidegger, scienza contemporanea, trascendentalismo e post-fenomenologia? chiedo, eh! :)

  6. Di sicuro non mi sento platonico.
    Nego l’esistenza di ogni possibile ordine (immanente) e vedo la simmetria come un’eccezione, una coincidenza del caos, che (chissà perché) riguarda principalmente le manifestazioni della vita.
    Nego l’esistenza di un ordine che non sia quello che i linguaggi si sforzano di conferire alle cose.
    Vedo i linguaggi come dispositivi di costruzione algoritmica per mettere ordine in un mondo che non solo ne è privo, ma è del tutto estraneo al concetto, che è completamente umano, come ogni altro concetto.
    Eccetera.
    Dunque mi sento affine, metti, alla pittura del Rosso, del Pontormo, a tutto ciò che è anti-classico e non prospettico.
    Per questo piace Fenoglio quando dice di Johnny che fugge a perdifiato nella macchia e neanche più pensa, ma cerca solo di restare vivo.

  7. Aggiungerei: a chi piace “Se mi lasci ti cancello” non può piacere “Ferro 3”, e viceversa.

  8. Quindi la figura logica (aristotele) si avvicina, regredisce, verso la figura maledetta (platone)?

  9. sissì. intanto quandi si avvicina l’inverno, tutti svelti svelti a cercare dove sono finiti i maglioni pesanti. eh, il tempo…

  10. @alcor sulle certezze che non sono più certezze stai dicendo proprio quello a cui io mi oppongo: l’interpretazione del senso ontologico del divenire. L’uomo della strada (per non dire quasi tutti) crede nel divenire. Interpreta il divenire come niente. Identifica l’essere del cose con la nientità delle cose.

    Io dico, ho detto un’altra cosa. Annientamento delle cose e libertà sono gli apriori della follia dell’Occidente: non sono tratti del volto dell’esperienza.
    Del resto già Nietzsche, Leopardi, Gentile hanno espresso nel modo più alto e profondo il tempo della distruzione dell’epistéme, fino a Wittgenstein, Jasper e Heidegger, quando l’intero pensiero filosofico occidentale ritiene che se il divenire è la fonte del terrorre, esso è anche la vita e la speranza dell’uomo. Dell’uomo della strada. Del resto è facile aderire al fatto che tutto cambia, muti, divenga. Ma è ciò che appare nel divenire delle cose che deve lasciare perplessi. Prendere consapevolezza dell’errore.

    @giorgio fontana. Heidegger intitolò il suo presunto capolavoro Essere e Tempo. Cioè non riuscì a uscire dall’idea dell’Essere come Temporalità.
    Trascendentalismo e post-fenomenologia non m’interessano, né mi appartengono.
    Le filosofie del linguaggio sono fenomenologia del linguaggio.
    La scienza contemporanea è una fenomenologia del linguaggio.
    Solo la fisica più avanzata si sforza di uscire da se stessa e dialoga ai massimi livelli con la filosofia, mettendola in crisi.

  11. @Luminamenti.
    Lo so, questo l’avevo capito.
    Io non ho una cultura filosofica, ho letto, ma non basta e sarebbe ridicolo che ti rispondessi su quel piano.
    Lo faccio su un piano diverso, quello della percettività che condivido con i miei contemporanei.
    La percezione dell’uomo della strada è quella del frammento che si ripete, della possibilità irrazionale che tutto avvenga per un attimo, nella più totale incertezza del futuro e non c’è individuo, volontà o rifiuto che possa cambiarlo.
    Che l’esperienza del fuoco che ti scotta esista, non impedisce che l’esperienza in sè non sia più un terreno sul quale raccontare. La follia dell’occidente sarebbe follia se ci fosse una sanità dell’occidente. Queste distinzioni fanno parte di una percezione ordinata del mondo, razionale, lineare, che viene contraddetta dai piani mai stabili delle immagini di noi, del nostro futuro, ma ormai anche del nostro passato. Che senso hanno tutti i nuovi negazionismi se non questo? Di ogni cosa l’uomo della strada può chiudersi, ma è davvero successo? E su questa inceretzza del passato costruisce l’incertezza del futuro e la terribile brevità dell’oggi. Il tempo esiste e va in una direzione? L’uomo della strada, non il vecchio che chiude gli occhi e ricorda e si ancora disperatamente alle certezze del suo passato, ma l’uomo per cinque minui nuovo, che tra un attimo sarà già vecchio perchè il suo pensiero sarà consumato, ha delle certezze? Sull’essere, sulle leggi della fisica, sulla malattia e la morte? Forse per ora sulla morte.

  12. @ Sergio Garufi: si potrebbe sapere qual’è il link a cui si riferisce il pezzo?

    Molte grazie.

  13. L’idea che l’essere che può essere compreso è il linguaggio, è il vertice del pensiero fenomenologico, del pensiero contemporaneo. Ed è espressione massima del nichilismo. Ed è anch’esso un apriori, da mettere in discussione, che nella filosofia contemporanea non viene mai messo in discussione. Il pensiero contemporaneo, non solo quello strettamente filosofico, ipotizza che logos non voglia dire puramente e semplicemente la ragione del mondo, ma che, come insegna Gadamer, voglia dire linguaggio. E’ quello che dicono Alcor e Tash. Si suppone, cioè, che quando Aristotile parla dell’uomo come animale logon echon – Aristotile sta parlando degli animali e dice che gli uccelli fischiano, cantano, mentre l’uomo ha qualcosa in più – non si riferisca alla ragione; che logos quindi non sia la ragione, ma il linguaggio articolato. Ora, il pensiero contemporaneo, sostiene che se il principio di non-contraddizione è un principio logico, e se, come non è inverosimile, un principio logico è innanzittutto un principio di funzionamento del linguaggio, sarà davvero così ovvio che chi lo nega, neghi anche ogni caratterizzazione positiva dell’essere? O meglio, che tale principio possa effettivamente valere come dimostrazione incontrovertibile che l’essere è e non può non essere? Ora, la filosofia contemporanea, ritiene una tale conclusione inaccettabile, e non crede che il principio di non-contraddizione possa fungere da fondazione. Ritiene invece che l’Uomo si muova nell’ambito dell’argomentazione, cioè di argomenti verosimili; nel logos – se il logos è prima di tutto linguaggio, parola, discorso, e non razionalità del mondo – l’argomentazione non è fondazione incontrovertibile, ma è persuasione reciproca, interamente umana.

    Ma, a questo pensiero contemporaneo, che ha tra l’altro molteplici implicazioni pratiche disatrose, si può rispondere così:

    Per questo tipo di logica che si difende , certamente i principi logici non hanno alcuna “presa” sulla realtà. Di qui i disastri!
    E’ invece “la presa” sulla realtà che caratterizza la logica in senso originario: quella logica in cui volenti o nolenti si colloca l’uomo della strada quando parla.
    Il pensiero ha “presa” sulla realtà nel senso che esso è l’apparire dell’essere, l’apparire dove l’essere si mostra nel suo opporsi al niente.
    Non solo: quando si sostiene che la logica riguarda il linguaggio e non il mondo, è chiaro che per chi sostiene questa tesi, il linguaggio per costoro “non è” il mondo, e quindi non solo si esclude che un qualcosa (per esempio, una stanza) sia niente, ma si esclude anche che qualcosa (ad esempio, il linguaggio) sia identico a un altro qualcosa (ad esempio, il mondo). Cioè, daccapo, si fa un uso “ontologico” di quel “principio di non contraddizione” che invece, a parole, si vorrebbe relegare nella semplice dimensione linguistica. Tutta la civiltà occidentale dice: Le cose non sono un niente. Però l’occidente aggiunge: Tuttavia divengono. E’ evidente che l’occidente, sin dalle sue origini ha un senso ontologico. Lo ha anche quando non sa di averlo. Chi crede nel linguaggio è in errore. Però molti di noi amano il linguaggio, amano l’errore. E’ bello amare l’errore. Ma “io” che amo l’errore non sono una fascio di luce che può cogliere la verità. Perchè il mio io è già errore. E da qui inizia un nuovo percorso per il mondo e l’uomo.

  14. @luminamenti

    E’ vero, io sono frutto del mio tempo e della cultura del mio tempo che tu dici, anche filosofica, arrivata fino a me.
    Ma quella cultura filosofica è stata una “scelta”? O non è stata anche lei una riflessione degli uomini sul loro tempo?
    Forse un grande inattuale potrebbe convincermi che la mia percezione del mondo è puro prodotto fallace delle menti.
    Fino a quel momento io credo che non capire il mio tempo e addirittura non desiderare di capirlo mi sposterebbe in una zona che posso chiamare soltanto della nostalgia. E anche se come singolo individuo la provo, non credo che si possa pensare al di fuori dei materiali del mondo, o meglio, non credo che si possa utilmente raccontarne.
    Come vedi da un lato ti do ragione e dall’altro necessariamente mi sottraggo.
    Nel resto non entro, come ho detto, per mancanza da parte mia degli strumenti tecnici fondamentali.

  15. leggo solo ora…molto interessante!
    il bello di questo “pezzo” ,che per me potrebbe essere definito un saggio, è proprio nel non potersi spiegare questo “fil rouge” capace di legare gli “opposti”.
    Non per niente gli emblemi più significativi vengono rappresentati da figure “bizzarre” legate simmetricamente tra loro….vedi la farfalla e il granchio, che illustrano il festina lente nella raccolta di emblemi cinquecenteschi di Paolo Giovio.
    Calvino sapeva qualcosa al riguardo…

    un caro saluto
    carla

  16. scusa mr. targets, ma devo contraddirti. i commenti di lumina sono già delle sintesi ultra ristrette. prova a pensare cosa potrebbe mai succedere qualora decidesse di essere analitico. ma ci pensi?

  17. ci sono mille modi per suicidarsi. questo sarebbe uno dei più analitici. (dammi del tu e niente mister, sono ancora un buon centrocampista offensivo).

  18. @alcor SULL’OSSERVARE. Nel mio pensiero non c’è nessuna nostalgia, perchè io riconosco la forza imponente e devastante del pensiero contemporaneo, che non prendo sotto gamba. Non ho bisogno di agganciarmi ad alcun passato. Il nostro presente è l’esito decisivo del nostro passato. Non posso avere nessuna nostaglia, devo guardare al passato perché solo questo mi può fare capire il presente. Solo allora il presente, il “dato” presente mi appare, lo percepisco differentemente. Si sta raccogliendo ciò che si è seminato. Riconosco al pensiero contemporaneo una forza e una bellezza straordinaria. Si tratta della volontà di potenza di Nietzsche, così ben descritta da Hiedegger nel suo Nietzsche, a mio parere il vertice del pensiero filosofico occidentale, nell’interpretazione del divenire. Non si tratta di pensare al di fuori dei materiali del mondo, si tratta di pensare diversamente sui materiali del mondo. Si tratta di pensare diversamente a ciò che ci appare, perchè ciò che ci appare non appare in maniera neutra rispetto a ciò che pensiamo. La fede in un certo senso ontologico del divenire fa apparire le cose in un determinato modo. E questo apparire in quanto appare è un ente reale. Ma ciò che appare, è evidente che non è tutto ciò che appare. C’è molto di più di quanto il pensiero fenomenologico ritiene di trovare. Che il mondo cambi, lo so anch’io.
    Ma la grande questione – per la filosofia, la scienza, la religione, l’arte – è che cosa significhi “cambiare”, “divenire”, “nascere”, “morire”.
    Nella percezione del mondo, il mondo appare, si mostra, si manifesta.
    Dunque appare che il mondo muta, solo se, quando il presente incomincia ad apparire, continua ad apparire il passato. La lampada esiste sia quando è accesa sia quando è spenta: permane nel mutamento. Quando appare che la lampada viene spenta, la lampada accesa continua ad apparire (che è cosa del tutto diversa dal dire che la lampada spenta rimane accesa). Quando appare che la lampada vien spenta, è necessario che continui ad apparire la lampada accesa, nel suo precedere il proprio spegnimento.
    In che senso, allora, la lampada accesa è un passato? In che senso è andata nel niente?

    Il pensiero occidentale risponde così: la lampada accesa che continua ad apparire è “l’immagine” della lampada accesa realmente esistente. Ed è questa esistenza ad essere annientata, quando la lampada vien spenta. La memoria trattiene immagini, fuochi fatui, ombre. Questa risposta persuade molto. Ma quanto è lontana dall’osservare, dal percepire – ossia dal modo in cui il mondo appare! Chiedamoci: quell’esistenza reale che, divenendo un passato, è andata nel niente continua forse, “essa”, ad apparire? E’ andata nel niente e, cionostante, eccola che appare ancora?! E’ ormai niente, e cionostante si mostra ed è manifesta?! No, di certo! Si dice: il passato che appare è soltanto un’immagine; la sua realtà si è annientata. Ma che ne sappiamo noi di questa realtà diversa da ciò che vogliamo chiamare “immagine”? Ciò che appare, del passato, è “soltanto” quel qualcosa che si vuole chiamare “immagine”. Che da qualche parte ci sia stata la realtà che poi sarebbe stata annientata e a cui si riferirebbe l’immagine è un’invenzione, una teoria, un’ipotesi, una fede, un atto di volontà: non qualcosa di osservato, di percepito; non qualcosa che appare, si mostra, si manifesta. Ma ogni teoria deve mostrare le proprie ragioni, può essere discussa. Di fronte al passato la volontà è impotente. Non si può decidere su cose passate. E’ questo uno dei motivi fondamentali che hanno spinto l’Occidente a credere che le cose passate sono annientate. La nostra volontà non può trasformarle? Vuol dire che sono diventate niente – si pensa. L’essere è ciò che si può volere ( e ciò ha implicazioni catastrofiche che vediamo ogni giorno. Parlo proprio dei materiali del mondo. Ormai l’annientamento di ogni immutabile ha spianato la strada all’essere come volere, cioè come divenire)
    Ma è proprio indiscutibile che la volontà è impotente rispetto al passato, perché esso è sprofondato nel niente? l’essere coincide proprio col voluto?

    C’è un altro senso del passato, al quale non si presta mai ascolto. Dice: passando, l’essere mostra il suo vero volto – proprio come le cose si lasciano vedere quando le allontaniamo dal viso -: appare nel suo esser inalterabile, rispetto a cui la volontà è del tutto impotente. Passando, e sottraendosi alla volontà, le cose rivelano quel che esse sono già nel presente e nel futuro: inalterabili, immutabili, eterne, libere già da sempre dalla volontà degli uomini e degli dèi. Il passare è un cenno d’addio all’illusione di avere potenza sulle cose. Le implicazioni di questo discorso sono diverse. Non si possono più allora separare i materiali del mondo da ciò che ne pensiamo e ciò che ne pensiamo non è decisivo perché i materiali del mondo sono libere dalla volontà degli uomini. Solo quando quest’implicazione abiterà il Cuore dell’Occidente, allora ciò che appare sarà più di ciò che noi vogliamo che appaia (che è ciò che fa apparire ciò che crediamo appaia). Il problema non è speculativo ma di filosofia della prassi. O di prassi di come si vive e si pensa. Il problema non è di ciò che “io” vedo, perché anche il mio “io” è volontà di essere. Non c’è soluzione individuale, singolare, se non c’è soluzione universale. Il problema è lo sguardo che l’intero mondo rimanda a se stesso. Per adesso, questo sguardo è quello nichilistico, nel senso che ho precisato. Ma i problemi non si fermano qui e tuttavia sono molto concreti. Il pensiero astratto sorvola la Terra per atterrare. Non è un niente. E’ la stessa storia del pensiero umano a illuminare il senso dell’astrazione.

  19. Sì in effetti sono stato troppo sintetico e insufficientemente analitico. La proliferazione semantica mi risulta insoddisfaciente, ma potrei rimediare…
    Io invece giocavo da libero.

  20. torna alla sintesi, lumina, ti scongiuro. la mia capacità di comprensione risulta ‘insoddisfaciente’ già di fronte ad essa, figurati come mi sento al cospetto della tua ‘disanima’ analitica. parce nobis.

  21. @orchid & PiùBaraledelbaro

    ho cercato di rintracciare quel link ma non ci sono riuscito, mi spiace.

  22. Lumina, non credo di aver capito bene tutto quello che hai scritto. Un punto però mi è chiaro: dici di guardare al passato per capire il presente.
    Ma il passato mi sembra troppo vasto e nello stesso tempo frammentario.
    E poi come orientarsi? Da dove uno dovrebbe iniziare?

  23. Il post è molto bello, e anche la discussione sui tipi intellettuali, platonico o aristotelico. Però se Platone si riconosce a vista, su Aristotele c’è qualche fraintendimento. Io, per esempio, dove mi metto?
    Vivo l’ordine dei concetti scientifici ma anche delle forme artistiche e delle leggi, insomma di tutto ciò che si può collocare nell’iperuranio platonico, come una realtà sui generis, che non si può paragonare al mondo dell’esperienza perchè ne è propriamente la misura, un po’ come dice tashtego che fa bene a ricondurre tutto questo al linguaggio, perchè la parola ne è in qualche modo l’emblema. L’ordine è il modo in cui diciamo a noi stessi cosa abbiamo sperimentato. Ma il modello è in attesa di verifica, e questo è Aristotelico, mentre ai Platonici pare che esso sia la vera realtà, perchè pastorizzato ed immutabile. Vero (fino a prova contraria), è ciò che ha mostrato di comprendere l’esperienza, rendendola intelligibile, mettendo in condizione di prevederla. La realtà è non il fenomeno esperito, nè il modello per comprenderlo, ma ciò che è affermato dal giudizio, e questo direi che è certamente aristotelico. Ma il giudizio è oggettivo, disinteressato, proviene da autentica volontà di conoscere ciò che è, rivela qualcosa di spirituale, che trascende le consuetudini di natura e questo è certamente platonico.

  24. @Valter Binaghi dice: “Vero (fino a prova contraria)”, poi: …in “condizione di prevederla” (l’esperienza). E ancora: “La realtà è non il fenomeno esperito, nè il modello per comprenderlo, ma ciò che è affermato dal giudizio, e questo direi che è certamente aristotelico”
    E finisce potentemente: “Ma il giudizio è oggettivo, disinteressato, proviene da autentica volontà di conoscere ciò che è, rivela qualcosa di spirituale, che trascende le consuetudini di natura e questo è certamente platonico”.

    Non avevo ancora letto nulla di più fantasioso su Aristotile e Platone. Eppure molti si sono cimentati! Che se poi quei due avessero detto queste cose, le avrebbero confutate in due secondi.

    Ma non è che li ha confusi con qualche teoriucula di qualche nuovo professorino di quelli moderni saliti in cattedra senza dare esami?
    (ormai questa specie ontogenetica si sta evolvendo con grande rapidità e progetta una nuova filogenesi)

  25. Tra i tuoi amici passerai pure per un Luminare, ma di sicuro non brilli per trasparenza argomentativa. Io Platone e Aristorele li ho studiati sulle loro opere, ma se vuoi un riferimento più contemporaneo alla gnoseologia classica, una rilettura in chiave trascendentale, ti consiglio Bernard lonergan. “Insight” oppure “Comprendere e essere”. E meno spocchia, amico.

  26. A me è sufficiente smascherare l’incompetenza e l’analfabetismo filosofico.
    Non c’è niente di nuovo nellle opere che mi citi. Ritengo da quello che hai scritto che hai parecchi vuoti.
    Ma, si sa, siamo in un epoca di relativismo spinto ed ermeneutica senza briglie. Del resto qual è il personaggio che è stato accolto dappertutto in questi ultimi anni?
    Derrida. Perfino le vecchie università inglesi hanno superato le esitazioni e l’hanno festaggiato, in America c’è un coretto di Università che si sforzano di tradurlo e studiarlo.
    Nella tua reazione, nelle tue parole c’è solo stizza per esser stato giudicato. E questo è normale, fisiologico, non può farti piacere.
    Ma se ti fermi a riflettere senza lasciare che il tuo io si faccia soffocare dal risentimento, ti accorgerai che occorre più cautela in quello che scrivi attribuendo certe deduzioni ad Aristotile e Platone.
    I miei toni sono duri è vero, in certi casi, ma è il mezzo che lo richiede.
    Non mi va che circolino in giro idee false.
    Non ne faccio un caso personale, come invece sembra dalla tua risposta.
    Sapessi con che durezza, esattezza ti avrebbe trattato un Philonenko, un Boutang, un MacKinnon, un R.P. Blackmur, un Jean Boorsch.

    Porta più rispetto del giudizio altrui. Se sei capace rifiutalo articolando seriamente il tuo pensiero senza scuotere la coda per il disappunto.

  27. Dunque figliolo, tanto per chiarirci, a me delle ermeneutiche Derridiane o delle scorribande di Severino e Cacciari (gente che sta alla filosofia come Moggi a calcio) frega un sacrosanto cazzo. Se invece di citare l’ennesimo esegeta a la page ci fermassimo al Platone letterale, quello del Fedone, per esempio, sarebbe facile vedere che la spiritualità dell’intelligenza è l’argomento centrale del dialogo, in cui si prova a dimostrare l’immortalità dell’anima. Quindi, senza volerti dare dell’ignorante, t’invito a smentirmi su questo punto preciso, evitando insulti gratuiti.

  28. ecco perché ve ne stavate belli tranquilli, cari indiani!!! avevate addirittura il padreterno in serbo da lanciare in rete e non ce l’avevate neanche preannunciato. perché non ci dite almeno in quale tempio andare ad adorarlo?

    ‘non mi va che circolino in giro idee false’.

    questo sì che è parlare chiaro!!!

    anch’io, vi prego, voglio unirmi alle schiere del nuovo ducio. dov’è che ci si iscrive? raccogliete voi le adesioni?

  29. @Valter Binaghi “Dunque figliolo, tanto per chiarirci, a me delle ermeneutiche Derridiane o delle scorribande di Severino e Cacciari (gente che sta alla filosofia come Moggi a calcio) frega un sacrosanto cazzo”.

    Sì, qui vi trovo molto della spiritualità dell’intelligenza. E’ evidente come hai assorbito Platone e Aristotile! ( a parte poi il fatto che quello che ora hai detto della spiritualità dell’intelligenza è diverso di quello che avevi detto prima che è profondamente sbagliato)

    E mi dai del figliolo perché questo soddisfa il tuo bisogno di sentirti mio Magister? come lo spiegheresti dal tuo vissuto spirituale dell’intelligenza questo “figliolo”? e dov’è che ti avrei insultato? lo vedi che non riesci a uscire dal personale? Se avessi assimilato Platone non saresti caduto su queste bucce di banana.

    @robivecchi Non occorre adorare nessuno, ma solo discutere sapendo parlare. La tua ironia non è una smentita al mio giudizio. Smentirmi è articolare un discorso e non connettersi a un modem perchè non si sa come fare passare il tempo e postare tre righine di ironia che non ci vuole molto a farsele venire in mente. Bene, hai comunicato il tuo dissenso alla mia persona. Ma si può dissentire alla persona e questa persona può lo stesso avere ragione. La tecnica di fare delle due cose una è da manuale di persuasione occulta. Non tanto occulta, perchè appartiene alla pubblicistica ormai ampiamente diffusa su Internet e nei mass media per screditare senza argomenti.

    Quando posto qualcosa su NI ci perdo del tempo, evito il chiacchericcio delle battutine su argomenti che sono di per sé poderosi.
    Se uno fa una affermazione e viene smentito, invece di agitarsi scompostamente, freddamente sviluppi le sue convinzioni. Non se ne può uscire con una frasetta: spiritualità dell’intelligenza. Che sarebbe questa? la prova di tutto quello che aveva detto prima?

  30. come molti sanno (lo so persino io) in rete esistono radio che funzionano proprio sul concetto di coefficiente di correlazione.
    queste radio sono capaci – a partire da una serie di brani che l’utente sceglie di ascoltare o che dichiara in qualche modo di gradire – di scegliere la musica che ti piace, cioè di seguire e alimentare i tuoi “gusti”.
    esistono ditte capaci di dirti il coefficiente di gradimento, in pratica di successo, di un brano prima di immetterlo sul mercato, non attraverso sondaggi, ma analizzandone al computer la struttura musicale per rapporto ad altri brani di successo, cioè stabilendo il coefficiente di correlazione con questi.

  31. @Valter Binaghi Dimenticavo, scusami. Naturalmente concordo con te su quanto dici in riferimento al Fedone. Ma non c’entra con prima (questo l’ho già detto). E io sempre al Platone ed Aristotile letterale mi attenevo.
    Ma anche tra i suoi esegeti non puoi trovare quanto tu sostenevi nel tuo primo post. E se qualcuno c’è, non posso escluderlo in assoluto, sbaglia, ha preso una cantonata ma di quelle grandi!

  32. @ Luminamenti
    Getto la spugna. Quelli che ho studiato io e che insegno a scuola non erano Aristotele e Platone, ma i loro gemelli cretini. Scusami tanto.

  33. ‘La tua ironia non è una smentita al mio giudizio.’

    infatti, caro, non c’era assolutamente niente da smentire, perché semplicemente mancava l’oggetto.

    senti cosa dice il demauro:

    giu|dì|zio
    s.m.
    FO
    1 affermazione che, superando la semplice constatazione di un fatto, esprime un’opinione, una valutazione…

    quindi, dove sarebbero i tuoi giudizi da smentire? non ne ho mai letto uno, che sia ‘tuo’: ogni volta che commenti qualcosa, sei un profluvio di citazioni, di frasi fatte, che attestano solo la tua presunta ‘erudizione’, il cumulo di sunti di opere che possiedi e tieni sempre pronti all’uso. e, guarda un po’ te, non ti ho mai visto, non dico dar ragione, ma convenire con il commento di qualcun altro: hai sempre un testo ‘nuovo’ da proporre per smascherare la presunta ignoranza o insipienza argomentativa degli altri. e spazi in tutti i campi, non c’è un angolo del pianeta sapere che ti è ignoto. ma ti rendi conto, almeno qualche volta, di essere semplicemente ridicolo nella tua presunzione? abbi almeno la bontà di lasciarci un elenco delle tue (sicuramente) numerose ed eccellenti pubblicazioni, a che noi si possa avere contezza piena della tua dottrina. oppure rilassati, che è meglio.

    ‘Bene, hai comunicato il tuo dissenso alla mia persona.’

    ma stai scherzando? la tua persona? come faccio a dissentire da una persona che non conosco? tu qui, lo voglia o meno, sei solo una presenza virtuale, un nick, né più né meno di quello che sono io. anzi, c’è più realtà nel mio nick, perché, non considerando l’aggiunta dell’articolo, contiene esattamente la mia identità: roberto (robi) vecchi. tu chi sei? se dissento o ironizzo (ma me ne guardo bene nel tuo caso, per le ragioni di cui sopra) lo faccio solo con una schermata che contiene un testo.

    ‘…connettersi a un modem perchè non si sa come fare passare il tempo…’

    e tu, di grazia, cosa fai se non passare il tempo? o credi di essere in missione per conto di dio, al fine di erudire gli ignoranti o di stupirli con effetti speciali in forma di montagne di libri letti e di citazioni a scoppio?

    le persone veramente ‘colte’, per quel che mi riguarda, si distinguono per una sola dote: l’umiltà, la capacità di porsi in ogni contesto, e di dare, come chi vuole condividere, senza far mai pesare, con spocchia o presunta superiorità, la qualità del loro contributo. tu questa ‘dote’ ce l’hai? te lo sei mai chiesto?

    e poi dici sempre che gli ‘altri’ offendono e sono volgari: ma ti sei reso conto di quanta volgarità ci sia nel sarcasmo della tua prima risposta a binaghi, al quale, dall’alto della tua onnipotenza e onniscienza, hai dato praticamente del dilettante della filosofia? ma lo conosci? lui almeno ci mette nome e cognome, tu chi sei?

    smorz’ ‘e lights, luminamenti e, soprattutto, cerca di rilassati nelle poche pause che ti sono concesse tra una prolusione ad heidelberg e una videoconferenza con il consiglio dei saggi del mit. cosa ci sta, uno come te, a perdere il suo tempo, con tutti questi ignoranti e illetterati che bazzicano per i blog?

  34. Sono sicuro che avremo modo di riparlarne, più serenamente, alla prima occasione. E non ti offendere perchè mi dispiacerebbe davvero.
    Non comprendo però perché alcuni di voi hanno questa idea così negativa di Cacciari e Severino. Lasciando perdere il lato personale dei personaggi, i loro libri non sono da sottovalutare. Si può discutere e criticare aspramente il loro pensiero, si può persino pensare che delirano, ma se uno prende in mano Destino della Necessità e dà un’occhiata alla parte del timbro del flessibile e dell’inflessibile, non può accorgersi della fatica, dell’impegno mentale che attraversano quelle pagine. Tra l’altro confermate, dopo, per molto aspetti dagli studi di Giovanni Semerano. E, questo, dovrebbe fare riflettere filologicamente, anche sulla lettura testuale di Aristotile e Platone. Ma già Colli era pervenuto a uno sguardo limpido su Aristotile e Platone. Ma è stato dimenticato!

  35. @il robivecchi Bene! dopo il tuo effluvio di bassa retorica, dove ogni riferimento è ad personam e privo di argomenti sulla sostanza dei miei interventi qui e altrove che dovrei aggiungere? Cmq mi limito a dirti che là dove tu vedi aspetti negativi, basterebbe che esaminassi con curiosità quanto dico, cito e pubblico. Insomma, con la semplice voglia di assimilare, di sapere, di condividere, di contestare, di aggiungere al tuo sapere, invece di roderti il fegato con compulsioni egoiche e sprecare il tuo tempo su internet senza aggiungere nulla di significativo alla discussione e di valutare arbitrariamente cos’è esattezza che confondi con volgarità, insulto che confondi con richiesta di rigore. Vedo solo un’esasperato ipertrofismo di se stessi accompagnato alla banalità dell’opinione e l’incapacità di concentrarsi sui contenuti. Ma non in tutti e non in tutti i blog c’è questo aspetto e così ho risposto sufficientemente alla tua domanda.
    In quanto al giudizio, al di là della questione dell’appartenenza che mi pare irrilevante e non sostanziale nel momento in cui uno sceglie ciò che afferma e quindi lo fa suo, non vedo per quale motivo ci si debba soffermare su chi lo firma piuttosto che sul contenuto.

    Un giudizio, inoltre, vale tanto più quanto è assunto impersonalmente.
    Ma su questo già disse Adorno.
    Un altra citazione come vedi, ma se hai spirito di conoscenza ti andrai a leggere Adorno e ti farai il tuo giudizio.
    Come vedi, nella mia risposta, non c’è praticamente nulla di personale nei tuoi confronti, cosa che non si può dire da parte tua e non da ora.
    Solo ironia di bassa lega, stizza e zero di critica seria

  36. @il robivecchi Aggiungo e noto che tutti i tuoi significativi interventi su questo articolo Simmetrie e coefficienti di correlazione riguardano me e non quello che ho detto.Su quello che ho scritto neanche un parola. Ma neanche una parola su quello che hanno detto altri, a partire dal suo autore su cui non dici nulla.

    Elenco del tuo pensiero su Simmetrie e coefficienti e correlazioni:

    “scusa mr. targets, ma devo contraddirti. i commenti di lumina sono già delle sintesi ultra ristrette. prova a pensare cosa potrebbe mai succedere qualora decidesse di essere analitico. ma ci pensi?

    torna alla sintesi, lumina, ti scongiuro. la mia capacità di comprensione risulta ‘insoddisfaciente’ già di fronte ad essa, figurati come mi sento al cospetto della tua ‘disanima’ analitica. parce nobis.

    ecco perché ve ne stavate belli tranquilli, cari indiani!!! avevate addirittura il padreterno in serbo da lanciare in rete e non ce l’avevate neanche preannunciato. perché non ci dite almeno in quale tempio andare ad adorarlo?

    ‘non mi va che circolino in giro idee false’.

    questo sì che è parlare chiaro!!!

    anch’io, vi prego, voglio unirmi alle schiere del nuovo ducio. dov’è che ci si iscrive? raccogliete voi le adesioni?”

    Ho sbagliato a risponderti prima, non avevo riflettuto su quello che avevi prima postato.

  37. Bellissimo! Passione, idee, stile, grazie Sergio. Con Christian sei il mio indiano preferito.
    ciao
    edi

  38. sei tu che ti rodi il fegato, e non solo quello, se vai alla ricerca dei miei commenti. e infatti, cosa vuoi che commenti uno come me, che al massimo legge la gazzetta dello sport?. quel pochissimo che so, l’ho imparato dalla settimana enigmistica, nella rubrica ‘forse non lo sapevate che’ e ‘l’angolo delle spigolature’. anche se la mia preferita è ‘il tenero giacomo vi rimanda all’ultima pagina’. sì, ho proprio ‘un’esasperato’ ipertrofismo di me stesso.

    e proprio sfogliando le annate rilegate della rosea ho appena scoperto che anche tu inventi nomi e commetti degli errori. per esempio, chi è questo adorno? da dove lo hai tirato fuori?

    adorni si chiamava, adorni. e poi danno pure dell’ignorante agli altri. ma tu vedi un po’. ma dico, come si fa a dimenticare il fantastico mondiale di imola?

  39. Su Cioran andiamo d’accordo: d’altronde devo proprio a te la segnalazione sui Quaderni che è una delle letture memorabili degli ultimi anni. Su Houellebecq forse un po’ meno – le particelle elementari mi liked – altre cose non così tanto – il penultimo di cui nemmeno ricordo il titolo (quello sul turismo sessuale) per niente a parte la “profezia” sugli attentati nei posti ecc…

    Però su altre cose concordo: platone anch’io e che questo è un gran bel post, d’ora e d’antan.

    Ciao Sergio.

  40. Vittorio Adorni era un ciclista, come Motta, Gimondi eccetera. L’altro che non troverai sulla Gazzetta, ma se avessi letto abbastanza le parole crociate invece sì lo avresti potuto incontrare, si chiama Theodor W. Adorno. Ma ascoltami non leggere, ti confonderesti. Ti ho capito. Mi arrendo.

  41. …… ma se, senza cercare di essere liberi dalla paura, riuscite ad ascoltare il fatto che l’attaccamento distrugge l’amore, questo stess fatto libera all’istante la mente dalla paura. non ci può essere libertà dalla paura finché non c’è comprensione del rapporto, il che significa, in realtà, finché non c’è autoconoscenza. l’io si svela solo nel rapporto. osservando il modo in cui parlo ai miei vicini, il modo in cui considero la proprietà, ilmodo in cui mi aggrappo a un credo, o all’esperienza, o alla conoscenza, scoprendo cioè la mia dipendenza, inizio a svegliarmi all’intero processo dell’auto conoscenza. ……

  42. @luminamenti

    “non vedo per quale motivo ci si debba soffermare su chi lo firma piuttosto che sul contenuto.
    Un giudizio, inoltre, vale tanto più quanto è assunto impersonalmente.”

    Non posso che darti ragione.
    Salvo verificare che è quasi impossibile, alla lunga persino un nick diventa umano e patisce antipatie e simpatie, che dipendono da stile e retorica, e a volte da equivoci.
    Ce ne sono un paio da cui io, non so perché, cavo sempre scintille.
    E un altro paio che caverebbero scintille da me, se fossi un segno di fuoco.

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sergio garufihttp://
Sono nato nel 1963 a Milano e vivo a Monza. Mi interesso principalmente di arte e letteratura. Pezzi miei sono usciti sulla rivista accademica Rassegna Iberistica, il quindicinale Stilos, il quotidiano Liberazione, il settimanale Il Domenicale e il mensile ilmaleppeggio.