Farabeuf o la cronaca di un istante – Salvador Elizondo

Farabeuf

o la cronaca di un istante

di Salvador Elizondo

 traduzione di Giulia Zavagna per Liberaria Editore (marzo 2018)

 

 

Toute nostalgie est un dépassement du présent.

Même sous la forme du regret, elle prend un caractère dynamique:

on veut forcer le passé, agir rétroactivement, protester contre l’irréversible.

La vie n’a de contenu que dans la violation du temps.

L’obsession de l’ailleurs, c’est l’impossibilité de l’instant;

et cette impossibilité est la nostalgie même.

E.M. Cioran

 

 

Capitolo 1

 

Ricordi…? È un fatto indubitabile che proprio nel momento in cui Farabeuf varcò la soglia della porta, lei, seduta in fondo al corridoio, agitò le tre monete nell’incavo delle mani giunte e poi le lasciò cadere sul tavolo. Le monete non toccarono la superficie del tavolo nello stesso momento e produssero un lieve tintinnio, un leggero rumore metallico, appena percettibile, che si sarebbe potuto prestare a numerosi fraintendimenti. A dire il vero, non è possibile precisare nemmeno la natura concreta di quel gesto. I passi di Farabeuf che sale le scale, trascinando lentamente i piedi sui pianerottoli o il suo respiro affannato, che arrivava fino a te attraverso le pareti foderate di carta da parati, alterano completamente le nostre congetture sull’indole esatta del gioco che lei stava giocando nella penombra di quel corridoio. È possibile, comunque, ipotizzare che si trattasse del metodo cinese di divinazione mediante esagrammi simbolici. Il rumore che facevano le tre monete cadendo sul tavolo lo lascia supporre. Ma l’altro rumore, quel rumore forse di passi che si trascinano o di un oggetto che scivola sopra un altro producendo un suono simile a quello di passi che si trascinano, ascoltati attraverso un muro, può anche portarci a supporre che si trattasse della planchette che scivolava sulla tavola più grande, solcata da lettere e numeri: la ouija. Questo metodo di divinazione, tradizionalmente considerato parte del patrimonio magico della cultura occidentale, possiede, tuttavia, un elemento di somiglianza con quello degli esagrammi: su ogni estremità della tavola è incisa una parola significativa: la parola SÌ sul lato destro e la parola NO sul lato sinistro. Ciò non rimanda forse al dualismo antagonistico del mondo espresso dalle linee intere e dalle linee spezzate, gli yang e gli yin che si combinano in sessantaquattro modi diversi per darci il significato di un istante? Tutto questo, ovviamente non fa che aumentare la confusione, ma tu devi fare uno sforzo e ricordare quel momento che racchiude, per così dire, il significato di tutta la tua vita. Qualcuno, forse lei, balbettò o proferì parole in una lingua incomprensibile immediatamente dopo che si produsse il tintinnio delle monete sul tavolo. Il nome dell’uomo nella fotografia, un uomo nudo, sanguinante, circondato da curiosi, il cui volto persiste nella memoria, ma di cui si dimentica la vera identità… Lei pronunciò quel nome… forse…

 

«Lei è una persona estremamente meticolosa, dottor Farabeuf. Questa meticolosità ha contribuito, senza dubbio, a fare di lei il chirurgo più abile al mondo. È sicuro di non aver dimenticato nulla? Qualsiasi indizio della sua presenza in questa casa può avere conseguenze terribili e irrimediabili. Deve assicurarsi, con la meticolosità che la contraddistingue, che non manchi nessuno strumento, neanche uno. Passi in rassegna l’intera lista dello strumentario. Per farlo può avvalersi di diversi metodi. Può, per esempio, passare in rassegna ogni strumento in ordine di grandezza discendente: dall’enorme forcipe di Chassaignac o dallo speculum vaginale num. 16 di Collin, fino ai piccoli cateteri, alle sonde oftalmiche o alle pinzette per l’emostasi capillare o agli affilatissimi aghetti ipodermici o di sutura. Può anche applicare inversamente questo metodo, vale a dire in ordine di grandezza ascendente. È necessario, soprattutto, che non si dimentichi nulla qui. Ha già controllato il tavolino di ferro con il ripiano in marmo accostato al muro sotto il quadro allegorico? Si assicuri di rimuovere il cotone insanguinato e le garze intrise di pus; un ago indispensabile, una piccola sonda nasale di grande utilità vi si potrebbe nascondere. Ricontrolli, uno a uno, i suoi strumenti di lavoro; quelli che si pregia di aver inventato e progettato lei stesso e che le hanno reso il giusto onore in tutto il mondo; ma anche quelli che si devono all’ingegno dei suoi colleghi migliori. Non si distragga, dottore, nel fare quest’inventario mentale. Non faccia caso alla bella donna nuda raffigurata nel quadro che ha davanti agli occhi. Allo stesso modo, faccia attenzione a non abbassare lo sguardo sul pavimento; i vecchi giornali che vi sono stati sparsi potrebbero distrarla altrettanto. Forse sa già perché. Uscirà da qui tra pochi minuti e forse non metterà più piede in questa casa. Oggi ha dovuto fare una considerevole deviazione dal suo tragitto abituale per venire fin qui all’uscita dall’Ècole de Médicine. Ha esitato prima di azzardarsi a entrare in questa casa in cui ha vissuto per tanti anni. Quando è arrivato per la prima volta davanti alla porta non è entrato ed è tornato sui suoi passi per dirigersi nuovamente al Carrefour de l’Odéon ad aspettare l’autobus che l’avrebbe riportata a casa, dall’altra parte della città. Eppure poco dopo ha cambiato idea ed eccola qui già sul punto di andarsene, e forse per sempre. È per questo che si deve assicurare di non dimenticare nulla. Ci rifletta con calma… i diversi coltelli da amputazione le cui lame estremamente affilate la rendono tanto orgoglioso… gli scalpelli con le loro varie impugnature che si adattano perfettamente alla mano che li afferra… i bisturi appuntiti il cui solo peso è sufficiente a produrre tagli delicatissimi… la sega a dorso mobile che le ha dato risultati notevoli applicata sul femore… o la sua sega universale con lame intercambiabili, utile, soprattutto, quando si tratta di rimuovere le braccia mantenendo l’articolazione della testa dell’omero nella cavità glenoidea della scapola… la cesoia, anch’essa di sua invenzione, di incalcolabile valore per smussare le estremità lasciate dalla sega dopo la sezione di un osso o nel caso di fratture traumatiche, spesso d’ostacolo allo svolgimento di un intervento nitido, perfetto… le varie clamps e i morsetti, alcuni di bronzo scuro con viti a pressione ai lati, altri di gomma rossiccia e altri, infine, di gomma color ambra… le cannule… le tortuose sonde che permettono di penetrare attraverso le fosse nasali fino alle cavità craniche occipitali o che consentono, attraverso la bocca, di esplorare i meandri dell’orecchio interno… Non dimentichi, in particolare, i suoi complicati tronchesini, tra tutti gli strumenti di sua invenzione quelli che più le fanno onore poiché uniscono la rapidità istantanea, sì i-stan-ta-ne-a, alla precisione e alla pulizia del taglio nella disarticolazione delle ossa lunghe… e la sega a filo di Gigli, un altro complicato prodotto di inventiva medica mediante il quale si è risolto per sempre l’annoso problema della segatura ossea che aveva messo a repentaglio tante illustri reputazioni… È sicuro che non manchi nulla? Ha con sé tutti, assolutamente tutti gli strumenti debitamente avvolti in piccole pezze di lino, accuratamente riposti nella vecchia valigetta di pelle nera…?»

 

Nel varcare quella soglia – chi l’avrebbe varcata sotto la pioggia, provenendo da quell’incrocio? – il ricordo si confondeva con l’esperienza (forse a causa della tenacia di quella pioggia leggera che cadeva ininterrottamente da giorni). La vita era soggetta a una confusione nella quale era impossibile distinguere il presente dal passato. Nel varcare la soglia di quella casa lussuosa e decrepita insieme, un passante che si fosse fermato a contemplare la facciata rugosa di quel palazzo, progettata in accordo con la più pura tradizione del modern style, colma di cornici voluttuose impregnate di salnitro, di fumo, di nebbia e di pioggia, sì, si sarebbe fermato come per interrogare le pietre logore di quel parapetto scolpito in forma di enormi fauci – quello del lato destro, in cui avevano messo radici dei licheni grigiastri –, per interrogarle su quale fosse il vero significato di quell’appuntamento preso in un’epoca remota, di quel momento che solo ora si compiva. È un uomo – l’uomo – che scende frettolosamente da una piccola automobile sportiva di colore rosso, con le mani guantate e gli occhi nascosti dietro occhiali dalle lenti fumé, si dirige verso il cancello, spinge la porta di ferro per aprirla e penetra in quel dedalo di siepi di bosso abbandonate, cresciute oltre la loro originale armonia fino a trasformarsi in costruzioni tortuose che si confondono con gli arabeschi vegetali che fregiano l’architettura della casa. Com’è tutto trascurato…, pensa tra sé facendosi strada tra le siepi lasciate al capriccio della propria crescita. È un vecchio – l’uomo – che arriva a piedi sotto la pioggia dal Carrefour de l’Odéon, avvolto in un grosso cappotto di panno nero, sul cui bavero sono appuntati i nastrini di tre decorazioni, gli stessi che porta sul risvolto della giacca. In una mano regge una valigetta di pelle nera e nell’altra un vecchio ombrello attraverso il quale l’acqua cola cadendo a grandi gocce sulle spalle del cappotto incrostate di forfora secca. Ricordi i suoi gesti affaticati, non è così? Ricordi il suo passo artritico mentre attraversava quella strada lastricata, ricordi il suono lento – come quello della ouija quando inizia a muoversi –, il suono arido dei suoi antiquati stivaletti ortopedici sui gradini della scala deserta di quella casa – 3, Rue de l’Odéon –, ricordi l’inquietudine che il suo respiro affannoso emanava quando si fermava a riprendere fiato su ognuno dei pianerottoli tappezzati di una pelouche color vinaccia, appoggiato al corrimano della scala, mentre accarezzava nervosamente le decorazioni di bronzo della balaustra? Senz’altro hai registrato tutto questo nella tua memoria. Il tuo sguardo ripercorre queste pareti. Sei tornato dopo alcune ore – tu, io –; sei tornato dopo molti anni – lui, lei. Sei venuto perché lei – la donna – ti ha telefonato appena mezz’ora fa. Hai sollevato la cornetta e hai ascoltato la sua voce lontana che senza darti il tempo di dire una sola parola ti implorava di soccorrerla, che ti chiedeva di raggiungerla pronunciando una formula convenuta. Forse l’hai dimenticato? Non aspettavi più quella chiamata eppure il telefono ha squillato proprio quando sapevi che l’avrebbe fatto. Ora sei venuto in cerca del ricordo dell’Infermiera – la donna – sempre vestita di bianco. La tua vera identità non importa più: forse sei il vecchio Farabeuf che arriva a questa casa dopo aver amputato due o tre gambe e braccia nell’enorme anfiteatro dell’Ècole de Médicine, o forse sei un uomo senza significato, un uomo inventato, un uomo che esiste soltanto come rappresentazione di un altro uomo che non conosciamo, il riflesso di un volto nello specchio, un volto che nello specchio incrocerà un altro volto. Tutto qui. Quello che importa ora è ricordare il contesto. Tu lo ricordi, non è così? Ma la tua memoria non va oltre quel volto. Vorresti dimenticarlo. Vorresti dimenticare la sensazione che produceva quell’oggetto oceanico, putrefatto, tra le tue dita. È necessario che io ravvivi tutto questo nella tua memoria riluttante; ognuno dei dettagli che compongono questa scena inspiegabile. Non devi dimenticarlo perché solo così sarà possibile arrivare a toccare il mistero di quegli eventi singolari che qualcosa o qualcuno, forse una mano che scivola su un vetro appannato, tenta di cancellare. No… è necessario ricordare non solo il volto di quella donna vestita di bianco – o forse di nero –, ma anche le circostanze e gli oggetti che la circondavano nel momento in cui decise di concedersi, in preda – si crede – all’eccitazione suscitata da un’immagine che aveva contemplato a lungo mentre cadeva la pioggia, prima di telefonare e pronunciare la formula convenuta; un’immagine vaga che rappresentava, confusamente, un fatto incomprensibile, o forse terribilmente chiaro. Non avrai dimenticato, ne sono certo, quell’enorme salone, che solo per la sua enormità, duplicata nella superficie di quello specchio dalla complessa cornice dorata, sembrava lussuoso e splendido, ma che in realtà era frusto e macchiato dal tempo e da tutte le cose che nel corso degli anni vi si erano riflesse. La luce vaga del pomeriggio, torbida di polvere, filtrava dalle due finestre che davano sulla strada sopra il giardinetto abbandonato. In controluce non era possibile determinare le esatte condizioni del velluto dei tendaggi che avvolgevano le finestre. Sapevamo, tuttavia, che era un velluto sbiadito dalla luce degli anni: drappeggi funebri logorati dal loro stesso ondeggiare, sfilacciati nella parte inferiore per il tanto strascicare pesantemente su quel pavimento di parquet che la pioggia, filtrando dalla cornice della finestra, aveva corroso e reso ruvido. Fu proprio su quella parte del pavimento, muffita dall’acqua, accanto alle frange sporche delle tende di velluto sbiadito, che una mosca – senz’altro te lo ricordi, non è così? – cadde morta dopo aver svolazzato insistentemente vicino alla finestra, dopo aver colpito ripetute volte i vetri appannati. Avresti voluto correre su per quelle scale, posando appena le tue mani guantate sul logoro corrimano. Avresti sfiorato appena, arrivando al pianerottolo di quella scala scricchiolante, le decorazioni in bronzo, ma nel giungere di fronte alla porta chiusa di quel salone ti saresti fermato un istante per assicurarti che ci fosse una presenza ad aspettarti, ad accoglierti oltre quella soglia e la tua memoria avrebbe rievocato il frangersi delle onde e, per un istante, ti saresti creduto in riva al mare. Dei passi, il rumore prodotto da due tavolette di legno che si sfiorano, da alcune monete che cadono su un tavolo, ti avrebbero fornito la sicurezza che cercavi. Ma la porta e i muri erano troppo spessi e tutti i rumori che si udivano erano rumori lontani e senza senso per te in quel momento.

 

Tre yin… una linea spezzata… se si strappa via il frutto viene fuori anche la radicela perseveranza porta con sé la buona sorte

È necessario entrare nel salone senza dire una sola parola, pensò l’uomo quando arrivò in cima alle scale.

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