La voragine di Secondigliano

di Luca Rossomando

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[Alle ore 16,30 del 23 gennaio 1996, a Secondigliano, crolla una palazzina di tre piani. L’implosione innesca un violento incendio causato dallo scoppio del metano fuoriuscito dalle tubazioni che corrono sotto l’asfalto, causando una voragine stradale larga 27 metri e profonda 20, e facendo precipitare le auto in sosta e quelle in transito.Nella zona erano in corso dei lavori per la costruzione di una galleria per collegare Arzano e Miano. In quel momento nella galleria erano al lavoro otto operai. Morirono undici persone, tra cui una ragazzina di dodici anni. Alle 15.30 di oggi, al Quadrivio di Secondigliano, i familiari delle vittime e gli abitanti della zona si incontrano per una fiaccolata. Pubblico un testo di Luca Rossomando, già comparso nel 2003 su Carta del Manifesto. Su quella milionesima tragedia annunciata, Rossomando ha scritto “La voragine. Una cronaca della periferia di Napoli“, pubblicato da Editori Riuniti.
P.S.]

“È A CAUSA DEI LAVORI per la galleria”. La giovane coppia lo aveva ammesso senza indugiare. Al prete che gli chiedeva perché volessero sposarsi così in fretta, i due ragazzi avevano risposto con semplicità. “Una casa non ce l’abbiamo. Per ora abitiamo dai genitori, vicino al quadrivio. Ogni sera sentiamo quei rumori sottoterra e vediamo le crepe aprirsi nei muri. Così, se succedesse qualcosa di brutto, almeno il Comune dovrà garantirci una casa”.
Poche settimane dopo, infatti, successe quel che molti altri, nel quartiere, avevano silenziosamente temuto. Alle 16,30 del 23 gennaio del 1996 la strada si aprì proprio al centro del quadrivio di Secondigliano, periferia nord di Napoli, inghiottendo le macchine che transitavano, i passanti e l’ala di un edificio. In quella zona erano in corso da alcuni anni i lavori per una galleria sotterranea. Nella voragine che si aprì morirono due ragazzine che attraversavano la strada, due uomini dentro un furgoncino, un altro in auto, una giovane che studiava nella camera da letto dei genitori e cinque operai che lavoravano in galleria. Undici persone in tutto.
Pochi istanti dopo lo sprofondamento della strada, una scintilla innescò il gas che usciva dai tubi tranciati nel crollo. Si alzarono fiamme altissime che i pompieri spensero solo quattro ore dopo, quando ormai era notte e Secondigliano era diventata una contrada buia e silenziosa, isolata dal resto della città.
Quel pomeriggio di gennaio si chiude, in modo tragico, una storia iniziata diversi anni prima, una storia piena di avvertimenti inascoltati, di paure e di segnali premonitori. È facile rintracciarli sin dall’apertura dei cantieri, se ne può ricostruire la cronologia attraverso la memoria della gente, ma soprattutto nei documenti dei vigili del fuoco, nei carteggi e nelle trattative tra le autorità di controllo e i responsabili dei lavori.
Il progetto della galleria venne approvato nel 1990, una delle tante opere finanziate con i soldi del dopo terremoto: il tunnel doveva misurare 1500 metri e agevolare i collegamenti con i comuni a nord di Napoli, risparmiando al quadrivio migliaia di transiti al giorno. Si aprono due cantieri, alle estremità del tunnel.
Gli operai avanzano sottoterra procedendo dai termini opposti. È previsto che si incontrino a metà strada, quasi sotto il quadrivio. Quando una squadra scava da un lato, l’altra consolida le pareti dall’altro. Nel gennaio del ’96 mancano circa 200 metri al ricongiungimento dei due scavi. Nei tre anni precedenti però la lavorazione è stata un susseguirsi di incidenti, interruzioni e faticose riprese. Sin dai primi mesi la superficie stradale sprofonda continuamente, in corrispondenza con l’avanzamento della galleria. A volte si devia il traffico o addirittura si chiude la strada e si tappano i buchi, ma quando il mostro sotterraneo si avvicina alle case e ai negozi cominciano le segnalazioni: crepe, danni agli immobili, le prime proteste.
Un giorno si scoprono fessure nei muri portanti di una caserma e i lavori vengono sospesi. Riprendono solo 15 mesi dopo. Le lesioni ai fabbricati, le porte che non chiudono più, i marciapiedi che si staccano dalla loro sede sono all’ordine del giorno. I reclami, i sopralluoghi dei vigili del fuoco e i fonogrammi alle autorità si fanno sempre più fitti.

Malcomune

Il Comune blocca nuovamente i lavori nell’estate del ’94. Le imprese producono una montagna di certificazioni per cercare di convincere i tecnici del Servizio sicurezza del Comune. Questi però, all’inizio di settembre, confermano la loro decisione. Sette giorni dopo, gli stessi tecnici revocano la sospensione: i lavori possono continuare. Cosa è accaduto di nuovo in quei sette giorni? Nulla che si possa rintracciare in documenti ufficiali. Il provvedimento si basa sulle certificazioni di eliminato pericolo che progettista e direttore dei lavori avevano esibito già due mesi prima. C’è solo una diffida, pervenuta al Comune il 30 agosto, in cui l’impresa avvisa che si rivolgerà al giudice, chiedendo un risarcimento dei danni se dovesse proseguire l’interruzione.
È forse il momento decisivo. Da allora gli scavi proseguono, così come gli incidenti, l’inquietudine e l’impotenza della gente che vive lì intorno. Eppure non ci saranno più interruzioni, fino al pomeriggio del 23 gennaio e al sacrificio di undici persone.

Vele spiegate

Nei sette anni trascorsi altri eventi, spesso altrettanto drammatici, sono affiorati alla superficie della cronaca, delineando per questa parte di città il perfetto profilo di “inferno urbano”. Secondigliano, Miano, Piscinola, tutti i quartieri della periferia settentrionale, ma soprattutto Scampìa, il più giovane e il più maledetto quartiere di Napoli, sono ormai disseminati di simboli negativi, emblema di qualcosa di oscuro e inestirpabile, che per estensione si applica alle decine di migliaia di persone che in periferia continuano a condurre una vita normale.
Questi simboli rimandano al male e non possono cambiare. Devono sparire. Solo allora si può ricominciare. Le “vele”, per esempio, che hanno fama internazionale. Quand’era sindaco, Antonio Bassolino volle annunciare alla popolazione il piano di riqualificazione di Scampìa attraverso lo spettacolare abbattimento di uno dei sette palazzoni a forma di vela che campeggiano al centro del quartiere.
Tutto fu curato nei minimi particolari. La stampa, i fotografi e le autorità sul balcone di una famiglia che abitava nella vela di fronte a quella da abbattere. In basso, transennata e a distanza di sicurezza, la popolazione beneficiata. Quando gli artificieri fecero esplodere 125 chili di dinamite sistemati nei pilastri di sostegno gli spettatori videro alzarsi una corona di fumo bianco intorno alla base del solido edificio. Rimasero in attesa, ma non accadde più nulla. La polvere bianca si posò e la vela rimase al suo posto, indifferente.

Tristi numeri

Una clamorosa fetecchia. Nei giorni seguenti ci si accanirono con diversi sistemi, senza quasi scalfirla, finché si prese atto del fallimento e la vela fu abbattuta solo molti mesi dopo, un poco per volta e senza fare troppo rumore.
Il piano di riqualificazione di Scampìa fu approvato dal Consiglio Comunale nel 1995, con due obiettivi chiari: sistemare gli abitanti delle vele in residenze più umane e dare impulso alla socialità e alle quasi inesistenti attività economiche sul territorio.
Oggi, più di sette anni dopo, dei 926 alloggi sostitutivi previsti ne sono stati consegnati 87, una media di 12 all’anno, 489 sono ancora da consegnare e i lavori dei restanti 351 non sono ancora iniziati. La facoltà di Agraria, che doveva insediarsi nell’area delle vele, ha definitivamente rinunciato. Due vele sono state abbattute, un’altra dovrebbe ospitare la sede della Protezione Civile, ma ne restano altre quattro senza destinazione d’uso.
La piazza telematica, spazio di socialità negoziato con le associazioni del quartiere, sarà aperto tra qualche mese, ma c’è il rischio che gli spazi in comune siano dati in gestione a entità esterne al faticoso processo di partecipazione. In una lettera aperta indirizzata al sindaco, il comitato delle Vele, denuncia tutto questo, ma soprattutto che “quando si sono svuotate le case dentro le vele, nessuno ha rimosso le scale di accesso ai ballatoi e quasi subito gli alloggi liberati sono stati rioccupati”. Il sogno di quelli del comitato, liberarsi una volta per sempre dei “mostri” in cui hanno vissuto per vent’anni, sembra ancora una volta sul punto di svanire.
Con i soldi che arrivarono dopo la voragine il Comune volle risolvere una volta per tutte la spinosa questione dei rom accampati a Scampìa, sempre più numerosi dopo le ultime guerre balcaniche. Così fu costruito un campo di prefabbricati, recintato e lontano dagli occhi dei cittadini, in una spianata oltre il carcere di Secondigliano, sulla strada che va verso Aversa. Naturalmente non si ebbero proteste e raccolte di firme contro l’insediamento, perché il primo centro abitato distava parecchi chilometri. Inoltre i rom fecero a gara per farsi assegnare un posto in quella specie di paradiso, dopo aver vissuto per anni in condizioni indecenti.
Solo un piccolo gruppo di attivisti e qualche professore universitario fecero notare che già altrove campi così grandi si erano rivelati dei ghetti altrettanto inumani che quelli abusivi; che l’isolamento avrebbe aumentato la diffidenza e la paura dei napoletani e complicato di molto la sopravvivenza dei rom; che le uniche a guadagnarci sarebbero state le associazioni di assistenza e carità, laiche e cattoliche, che sarebbero diventate indispensabili per la comunicazione tra i rom e il resto del mondo; che c’erano altrove esempi di villaggi più piccoli, vivibili e molto meno costosi.
Questi argomenti però non furono sufficienti e il nuovo campo fu inaugurato in pompa magna nell’estate del 2000. Nei due anni seguenti l’abbandono da parte dell’amministrazione, le difficoltà di sopravvivenza e il deterioramento delle relazioni all’interno del campo sono sfociate nella sparatoria del maggio 2002, con il ferimento di due bambini e tre adulti e la fuga di una parte degli abitanti del campo.

Riorganizzare la speranza

Padre Vittorio Siciliani sta in un rione che si chiama Monterosa. La sua chiesa sembra un’ostrica gigante, piuttosto che un bunker, come le altre chiese della zona. Sulla facciata ci sono i mosaici dei muralisti del Gridas, fatti con frammenti di mattonelle e specchi portati dalla gente del quartiere. E anche il paesaggio intorno, la piazza, i negozi, i portici con i banchi dei venditori, le case basse danno al rione l’apparenza di una vita quotidiana più serena, se confrontata ai vialoni deserti e ai grattacieli della vicina Scampìa.
Eppure padre Vittorio continua a ripetere che qui è come dappertutto: “La camorra controlla il territorio e gestisce gli spazi. Qui forse si nota di più, ma non ci sono zone franche”. Oggi i clan vincenti in città sono quelli del centro storico, ma si tratta di un’eccezione. È sempre stata la periferia a comandare, a impartire gli ordini da rispettare. L’Alleanza di Secondigliano, con a capo il clan Licciardi, ha dominato per anni la spartizione dei traffici, domando le periodiche guerre interne. Con i maschi della famiglia in galera o morti ammazzati, al comando del clan, si è issata l’introvabile Maria Licciardi, detta la piccerella. Poi anche lei è finita dentro, nel giugno del 2001. Eppure, dicono i preti di Secondigliano, vincenti o perdenti nelle loro faide, i clan continuano a controllare tutto. Lo dissero un anno dopo la voragine, con un documento comune che fu letto in tutta la zona nord durante la messa domenicale, un’esortazione a parrocchie, gruppi, scuole, singoli a ritrovarsi e ad agire “per riorganizzare la speranza”. Un moto d’orgoglio che suscitò molto clamore e diverse promesse, ma soprattutto alcune affollate assemblee di quartiere, che tennero dietro all’appello e fecero sperare, a chi vi partecipò, in un progresso verso l’unità e la dignità dei propri vicini, così spesso costretti a subire e a tacere. Le stesse parole le ripetono oggi, i preti di Secondigliano, ai giornalisti che vengono a interpellarli a ogni nuova emergenza, l’ultima appena un mese fa, quando a Scampìa un giovane poliziotto ha sparato, uccidendolo, su un ragazzo di 13 anni che voleva rubargli il motorino. Lo ripetono senza rassegnarsi, continuando a cercare la provocazione, mentre intorno a loro si riaccende sempre lo stesso, effimero, dibattito sul “degrado delle periferie”.

Sette anni dopo

Sono passati sette anni dal 23 gennaio del ’96. I lavori della galleria non sono più ripresi. Un anno dopo un’altra voragine si è aperta poco lontano dal quadrivio, a Miano, inghiottendo un padre e un figlio sulla soglia dell’officina meccanica nella quale lavoravano.
Alcuni miliardi sono stati stanziati per il quartiere, ma chi ha perso la casa e il negozio non è stato ancora risarcito. Solo due anni fa è stata ripristinata la completa circolazione nella zona. Ad alcuni familiari delle vittime il Comune ha trovato un impiego, ma trattandosi di lavori mal pagati, in posti lontani o con orari impossibili e di persone giovani, con poche risorse e a volte con bambini piccoli a carico, quasi tutti hanno ben presto rinunciato.
C’è stato anche un presidente della Repubblica che è venuto a rendere il suo omaggio e a esortare le persone colpite dalla tragedia, ma ormai da tempo non è più in carica, mentre il luogo che visitò è rimasto lo stesso da allora: una spianata brulla, una croce di legno con undici nomi e intorno un cancello di ferro.
Infine è stato istruito un processo con 25 imputati: progettisti, direttori dei lavori, responsabili delle imprese, collaudatori, consulenti, tecnici del Comune. L’istruzione ha richiesto approfondite perizie e un lungo incidente probatorio. Sulla base delle perizie e delle testimonianze dei sopravvissuti l’accusa sostiene che “i lavori di costruzione furono, in ogni caso, la causa iniziale della sciagura”, e quindi non una fuga di gas o il cedimento dei sottoservizi, come si pensò subito dopo i fatti.
Quelli ci furono, naturalmente, ma vennero dopo il crollo della volta della galleria. I tre imputati che hanno scelto il patteggiamento con il pubblico ministero sono stati condannati a una pena [sospesa] di un anno e cinque mesi di reclusione e a un milione e ottocentomila lire di multa, senza alcuna pena accessoria perché il patteggiamento la esclude.
Oggi, con il giudizio di primo grado ancora pendente presso il Tribunale di Napoli e i termini di prescrizione quasi scaduti, i familiari delle vittime si attendono almeno un risarcimento in sede civile. Nessuno lo dice apertamente, ma forse sono rimasti in pochi a sperare in una sentenza definitiva.

(l’immagine è tratta dal sito dei Vigili del Fuoco)

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