Filosofia esistenzialista dello scatto digitale
di Simone Ciaruffoli
LA VI(S)TA IN SCALA
Oggi si cataloga procedendo in una tassonomia delle immagini non più in compagnia del supporto cerebrale della memoria, per via del nostro “software biologico”, ma attraverso lo scatto fotografico digitale. Si esperisce il mondo bypassandolo con l’obiettivo (o con lo schermino) e per farlo perdiamo l’istante originale-originario in cui il mondo si manifesta. E’ chi scatta che perde la vita nel suo farsi, è chi scatta a essere dentro l’atto fotografico più di chi quell’atto lo subisce divenendone il soggetto rappresentato.
Le fotografie che nella nostra vita abbiamo personalmente scattato, sommate a una a una, equivalgono alla totalità di un intervallo in cui siamo stati assenti, sottratti in questo modo all’esistenza come spiriti condannati all’esilio. Si scatta per bloccare un momento al regolare fluire del tempo, così da conservare la prova di una presenza, di un “essere stati lì” nel luogo e nel tempo dell’accaduto, ma senza accorgercene paghiamo un gravoso pegno, lo smacco che testimonia, paradossalmente, la perdita di quel momento. Il nostro sguardo, perso nell’inquadrare la scena, capitola nello schermino della macchina digitale, fermandosi a pochi metri dal luogo in cui quella scena si realizza. Vediamo, registriamo, ma non ci siamo; siamo lì fisicamente ma un meccanismo fotografico si occupa di confermare la nostra assenza. In quel preciso momento il mondo si sintetizza e riassume nelle misure di un piccolo schermo, lasciandoci l’eredità di un ricordo vissuto e veduto in scala. E’ vero che la fotografia cristallizza l’istante per regolarlo ai nostri desideri, sottraendoci il mondo per qualcosa di più ampio e inaspettato (Blow up), ma per capire e leggere certi segni condensati nella foto appena scattata, perdiamo la realtà poiché appunto mediata per noi dall’occhio fotografico. Le tre dimensioni si smarriscono per sottrarsi nello spazio di un vissuto non all’interno, ma di fronte alla bidimensionalità dello schermino.
ESSERCI O NON ESSERCI?
L’apparecchio digitale, grazie all’estrema disinvoltura nell’usarlo, ci permette, e ci permetterà sempre più, di liberarci dall’esperienza. L’onere della partecipazione attiva, dunque, viene surclassato dalla sua sterilizzata e distante registrazione, mancando l’atto sulla propria “pelle” e con il proprio sguardo. Come sopra si diceva, oltre a non vivere il momento soli con il nostro sguardo, ma assieme all’interfaccia di un obiettivo, per scattare dobbiamo anche dedurre il nostro corpo dalla scena. Farsi da parte per acquisire uno sguardo “oggettivo”, infatti, significa proporsi come regista della nostra vita e lasciare a altri il compito di viverla come attori protagonisti. Il Don’t think. Shoot della campagna pubblicitaria Sony ricordata da Gianni Canova in duellanti 0_12, può allora estendersi con tranquillità all’assioma: Non esserci. Scatta. Fatti da parte e lascia che le sequenze quotidiane scorrano senza di te, relegando a qualcun altro il compito dell’azione partecipante. Gli album dei ricordi fotografici si gonfieranno sempre di più, alleggerendo però il curriculum vitae dell’ hic et nunc esperienziale. E’ questa la cultura dell’inventario e del compiacimento visivo, dell’abolizione graduale di altri linguaggi di comunicazione. Non si prova vergogna nel ri-vedersi (“mio figlio è bello ma non l’hai visto in foto, è ancora più bello!”), tuttavia ci si accappona la pelle nel ri-sentire la registrazione della nostra voce, anzi, fuggiamo a gambe levate da quell’oggetto primordiale e obsoleto che è l’audio-registratore. Barthes e McLuhan ci avevano gia ragionato sopra, ma è probabile che, forse, sarebbero stati lontani dall’immaginare che questo mezzo senza verbo né sintassi avrebbe parlato e ricordato più della nostra memoria, anzi sostituendosi a essa, e spostando la lancetta della quantità delle esperienze vissute, dalla parte delle assenze da ricordare. Senza togliere che ora a rincarare la dose di riproducibilità dell’ordinario ci si è messo anche il videofonino (di cui duellanti si occuperà prossimamente), oggetto ancor più pratico e forse invasivo. E’ come se una cultura si stesse avviando in massa dalla parte di chi ha deciso di esimersi dall’esserci come protagonista pur di provare di aver visto. Tutti da una parte e nessuno dall’altra: come un etnologo senza la sua popolazione, un chirurgo privato del corpo su cui operare, come spettatori imbambolati su uno schermo senza film. Questo costume sembra pronosticare un atteggiamento di carattere anaffettivo, la funzione del rubricare le immagini di momenti quotidiani a tutto tondo, infatti, costringe a viverli-subirli non nell’istante in cui si manifestano ma nel loro ricordo. Il ricordo dunque si sostituisce all’e-sperimentazione dell’istante, la nostalgia all’impressione.
MASSIFICAZIONE ESTETICA
L’atteggiamento apocalittico di Charles Baudelaire nei confronti della fotografia, poi arrotondato e mitigato dal razionalismo benjaminiano, avrebbe sicuramente trovato nello scatto digitale qualcosa da mandare al rogo. Per Benjamin tuttavia era l’aura a perdersi nella desacralizzazione della riproducibilità artistica, ma al contempo l’arte ne guadagnava alla nascita delle società di massa. Ciò detto, era la pellicola però al centro del discorso, ed era la produzione artistica, o il suo profetizzato decesso, a essere posta in discussione dagli scritti critici di Baudelaire. Con il digitale invece, e qui per versatilità del mezzo viene alla mente Astruc (ma è un altro paio di maniche…), non si arriva nemmeno in sedicesimo a parlare di arte. Oggi con la fotografia digitale si integrano fenomeni comunicativi sempre più ampi, di conseguenza determinati confini, come quelli tra arte e cultura della comunicazione di massa, vengono ridisegnati se non cancellati. La massificazione estetica tra produzione fotografica “alta” e proliferazione incontenibile dello scatto tout-court, determinano l’idea di un processo di trasformazione storica senza pari. Forse è proprio per questa democratizzazione dello scatto digitale che l’arte non lo ha visto ancora entrare con decisione tra i suoi gangli.
NUOVO SPAZIO ANTROPOLOGICO
Il dilagare della fotografia digitale per forza di cose ci porta a riflettere ancora sulla distanza. Lo avevamo fatto con il set, ora ci ritroviamo a fare i medesimi ragionamenti con le scene della vita. Una nuova distanza si apre tra chi guarda e chi è guardato. Un differente approccio antropologico ci obbliga a ri-mappare il territorio. Naturalmente sempre lo stesso territorio poiché ogni nuovo spazio antropologico ingloba il vecchio, obbligandolo a rivederne le tendenze e i contenuti. Lo spazio del fotografare, come lo spazio antropologico del territorio, determina, soprattutto con l’espandersi del digitale, una distanza che non può più collimare con la geografia fisica. Lo iato che intercorre tra chi scatta e chi vive fisicamente lo scatto è un vuoto incolmabile, una distanza siderale, un percorso che non potendosi realizzare fisicamente, mette in crisi il discorso di contiguità geografica. Per portare rozzamente al nostro discorso Pierre Lévy, si può arrivare alla conclusione che la distanza che si apre tra due abitanti di Stati differenti è minore rispetto a quella che divide i protagonisti di una foto (chi scatta e chi “subisce” lo scatto), ancorché vicinissimi. I due, infatti, necessitano di un distacco materialmente incolmabile, in virtù del fatto che è l’occhio digitale a richiederlo e al contempo a saturarlo per noi. Di più, ogni sguardo mediato dalla macchina fotografica (come Eric von Stroheim col monocolo del suo ufficiale prussiano) pone nella situazione di superiorità chi inquadra, e in quella di oggetto da esaminare colui che è inquadrato. Uno scarto che può sembrare inezia, e invece mina direttamente lo statuto di interazione sociale a cui l’antropologia ha rimesso mano in età contemporanea con i non-luoghi della surmodernità. Chissà se ora Marc Augé penserà bene, grazie al quotidiano-digitale-fotografico, di insinuare nei suoi spazi d’indagine anche la locuzione quanto mai “surmoderna” di non-momenti. Momenti che, per una sorta di desiderio faustiano, tendono a non compiersi nell’attimo, ma nella nostalgia cui lo scatto di quel dato attimo darà vita nel futuro. Click!
(Pubblicato su “I Duellanti”, 2004. Nella foto: un fotogramma di “The Five Obstructions” di Leth/Von Trier)
Comments are closed.
Devo dire che trovo molto lucida quest’analisi, che mi pare vada a coprire il vuoto lasciato da Roland Bathes nella sua “Camera chiara”, dove il nostro si arrischiava nel descrivere il mondo fotografico dalla prospettiva dell’oggetto fotografato e del fruitore di fotografia.
Il concetto dell’assenza nel momento in cui si scattano le foto è assolutamente veritiero, e prende atto del sentiero che ci sta conducendo sempre di più verso una politica delle immagini che rischia di far diventare i nuovi analfabeti coloro che non riusciranno a decriptarle.
Però mi chiedo, se il fotografo si fa assenza, nel momento dello scatto, uno scrittore fa la stessa identica cosa all’ennesima potenza, poiché quando lui scrive, in senso assoluto, non c’è, e i suoi libri sono la testimonianza del suo non essere stato in nessuno dei luoghi descritti, di non avervi preso parte, mentre li scriveva. E se la fotografia invece possiede quel sottostrato che ci fa pensare inconsciamente “se è stato fotografato, quel qualcosa è stato” nella scrittura non abbiamo tutte queste garanzie.
Vaneggio?
A
Non vaneggi. Solo che il romanziere si sottrae alla diegesi, il fotografo alla realtà. Che se vogliamo è pur sempre diegesi, ma non ricostruita in vitro.
Sì. Un appunto però. Però possiamo considerare realtà ciò che viene fuori dalla fotografia digitale?
Perché non consideriamo realtà anche la diegesi di uno scrittore, che ne so, alla Saviano?
Questo discorso sarebbe stato azzeccatissimo con l’analogico, ma il digitale, nel suo mutamento della percezione, non assicura affatto che ciò che stiamo vedendo è reale.
Quindi forse il piano su cui dovremmo ragionare è lo stesso.
p.s.
suca se mi impadronisco del ragionamento ma sto scrivendo un saggio proprio su questo tema, e il tuo articolo mi ha mosso i neuroni :)
ehm: ovviamente non è “suca” (eheh) ma “scusa”
Semplicemente perché Saviano non “scatta”, scrive.
E dunque? Filosoficamente fotografare è scrivere con la luce, dal mio punto di vista.
Secondo te no?
Provate ad usare la Lomo, una piccola macchina fotografica a mirino galileano in grado di produrre fotografie ricche di luce e di colore la cui filosofia è “non pensare scatta”.
Ce l’ho. una holga tutta chiusa col nastro isolante. non capisco il nesso però, scusami.
A
Secondo me non si perde – l’istante -perchè se è vero che”le tre dimensioni si smarriscono per sottrarsi nello spazio di un vissuto non all’interno, ma di fronte alla bidimensionalità dello schermino”, è vero anche che “entriamo” in una nuova dimensione, quella del distacco analitico.
ma il discorso si fa complesso…
oltre lo scatto c’è anche il ricordo, altra dimensione.
non sono una fotografa, ma mi piace la fotografia, ho una macchina digitale che mi porto sempre appresso, di solito la macchina e quindi le fotografie segueno un mio percorso non quello del camminare, cioè far seguire un passo dietro l’altro, ma una mia idea, un mio pensiero. C’è stato un periodo che mi interessava la luce, come essa cambiava i contorni delle case, delle cose, delle persone, così mi misi a seguirla e a fotograrla. La fotografia era soltanto il risultato finale del mio pensiero, veniva dopo il mio occhio, quindi non è venuta prima dell’esperienza ma dopo, questo per dire che tutto dipende da come si usa il mezzo, secondo me è vera la considerazione fatta da Simone se si sostituisce la macchina con il proprio occhio, ma non se la fotografia nasce da un pensiero un’idea che inseguiamo.
Molto interessante l’articolo e le considerazioni che ne scaturiscono, faccio i miei complimenti all’autore. Lucia
La fotografia deve avere un’anima, come ciò che scriviamo, è questo il nesso.
Lucia, che sincronia!
A me sembra una considerazione molto Carmelo Beniana (l’atto che smentisce l’azione), del tutto rispettabile quindi, ma anch’io concordo con Lucia.
Sarebbe un argomento molto ampio questo.
La fotografia a prescindere dalla digitale non è realtà mai, ma non perché ne sottrae l’assenza del momento, bensì perché “ricrea” quella porzione di tempo decontestuallizandola da tutto il resto – cosa che ad esempio non succede affatto conla pittura in quanto partendo da una “tabula rasa” seppur magari con l’intento di rappresela la realtà, proprio perché non si parte da una base di realtà come la fotografia che poi nel giro di qualche anno scade.
Ovvero è più facile provare nostalgia per una fotografia che per un quadro, perché il tempo del quadro nella nostra ottica e molto più “duraturo” e non ci lega ad un passato così vicino e “che ci rappresenta” come quel “tentativo” di riesumazione che invece la fotografia crea anche negli scatti più belli e recenti.
g
Io fotografo molto mentre sono a contatto con la natura, ma non solo per catturare i bei paesaggi, anzi, con lo scatto digitale cerco di “provare” le stesse emozioni che sento nell’animo, in quel momento … e talvolta ci sono riuscito, tanto da sentir definire quelle foto come “foto buddista”. Tanta è stata la mia sorpresa nel rivedere quelle foto e scoprire “una presenza” di qualcos’altro oltre a quello che avevo creduto di vedre.
F.