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Conversazioni con Italo Testa su poesia & città

Conversazioni a cura di Stefano Modeo

con Italo Testa

Su Poesia&Città (pubblicata su “Atelier” n.96 di dicembre)

 

 

S.M.: La città è il luogo in cui si muove il poeta. Nel corso del secolo scorso la letteratura ci ha mostrato le diverse trasformazioni del rapporto individuo-città. Basti pensare alla città-ciminiera a cavallo tra la fine dell’800 e l’inizio del ‘900, quella elettrificata dal progresso e dalla velocità dei futuristi, e poi ancora la città-mercato, luogo eletto al consumo, la città della società di massa che diventa un deserto, vuota e sorda nei confronti del singolo; sino ai giorni nostri in cui probabilmente è il luogo del turismo mercificato, del decoro, la vetrina in cui la città intera si fa business.

Dopo il rapporto alienante con la città del ‘900, esiste, secondo te, una percezione comune della città nella poesia contemporanea? Quale evoluzione ha avuto, secondo te, il rapporto tra poesia e città?

 

I.T.: La sentenza lapidaria, contenuta in Doppia vita, per cui “nella city, soltanto in essa, le muse prendono voce”, mi è sempre sembrata una boutade, frutto di un’esagerazione di cui si è compiaciuto non solo l’estro sarcastico di Gottfried Benn, ma che ha segnato più ampiamente una stagione del moderno, riflettendo una concezione epocale lineare e progressiva, connessa ad una topologia che collocava alcuni luoghi – come la città – nei dintorni dell’avanguardia del pensiero, mentre relegava altri spazi ed esperienze in scialbe periferie temporali, una sorta di retroguardia rurale dello spirito che suonava come una condanna estetica a priori. Una posizione che, nonostante la concezione qualitativa e intensiva della temporalità di Benjamin, con le sue torsioni retrograde e fenditure messianiche, si risente anche nel Passagenwerk, nell’immenso cantiere dedicato a Baudelaire quale poeta lirico che, muovendosi nella Parigi del XIX secolo, sarebbe a diretto contatto con l’epoca del capitalismo avanzato. Sebbene il quadro sia profondamente mutato, anche a prezzo di una restrizione dell’orizzonte vitale in cui ci muoviamo, permane tuttavia un riflesso condizionato che tende a farci pensare alla città quale spazio privilegiato di un’esperienza la cui densità non sarebbe riscontrabile altrove. L’affermazione per cui “la città è il luogo in cui si muove il poeta” ha in tal senso la verità di una esagerazione, storicamente indicizzata, che a prezzo di una deformazione unilaterale ci lascia cogliere qualche tratto distintivo di ciò che siamo stati, e del modo in cui certe pratiche espressive hanno concepito se stesse, collocandosi in un campo semantico strutturato da una serie di dicotomie convergenti quali città/campagna, cultura/natura, centro/periferia.

Oggi siamo però di fronte ad una grande trasformazione, che interessa anche il modo in cui la città può avere significato per noi, e che tali opposizioni consolidate non ci lasciano cogliere sino in fondo. È qui necessario uno spostamento dello sguardo, che ci permetta di aggirare questi schemi e osservare da un’altra angolatura la città stessa e la matassa di differenti piani temporali e spaziali che in essa si intersecano. La prospettiva eccentrica di Osip Mandel’štam, che guardava alla città moderna dalle lontananze della steppa eurasiatica, e nella lunga durata del tempo profondo della storia naturale, è forse più vicina alla nostra esperienza contemporanea di quanto non sia l’atteggiamento blasé di Benn e dei sacerdoti della città moderna. “Gli steli d’erba sulle strade di Pietroburgo”, scriveva Mandel’štam in La parola e la cultura, “sono i primi germogli d’una foresta vergine che andrà a ricoprire le città moderne. Questo vivido, tenero verde, stupefacente per la sua freschezza, è espressione della nuova natura spiritualizzata”. La città ciminiera dell’Ottocento, la città elettrificata futurista, la città mercificata della società di massa, la città vetrina postindustriale, sono sempre state anche una selva nella quale il poeta poteva muoversi come in una foresta pietrificata. Una seconda natura minacciosa e suadente che solo una particolare cecità impediva di vedere come a sua volta attraversata da incessanti, per quanto spesso inapparenti, processi di mineralizzazione e vegetalizzazione, una pressione naturale che ha continuato a premere anche sotto e a lato del manto colloso dell’asfalto. La decomposizione della città industriale e delle sue gerarchie ha accelerato questa dinamica di rinaturalizzazione. Ritorniamo al lavoro su Milano. Ritratti di Fabbriche (1978-80), con cui Gabriele Basilico offriva un’anticipatoria visione delle periferie milanesi. Sembra quasi che le architetture entropiche fissate in questi ritratti di fabbriche che appaiono prive di funzione,  indeterminate, ove le figure umane sono pressoché assenti, vadano a comporre un paesaggio di monumenti naturali o rovine preistoriche che si possono immaginare, a breve, invase e disgregate da erbacce e piante vaganti. Lo sguardo di Mandel’štam ci immunizza però dalla tendenza a vedere in ciò solo detriti di futuri in abbandono, il segno dell’obsolescenza cui sarebbe andata incontro di lì a breve la nostra idea di progresso. La natura-psyche profetizzata da Mandel’štam riguarda piuttosto l’insorgenza di interazioni specifiche tra città e natura, con la proliferazione di paesaggi ibridi, secondari, in cui si registra una tendenziale indifferenza tra elementi naturali e artificiali. La periferizzazione della città contemporanea, l’espansione caotica della periferia diffusa, infatti, sta andando a costituire un paesaggio ibrido dal carattere indeciso, fatto di residui sconnessi, frammenti di natura, luoghi privi di funzione o in attesa di destinazione. È la città dell’antropocene, intesa come l’epoca geologica in cui, piuttosto che assistere ad una umanizzazione completa, senza residui, incontriamo una generalizzazione degli ambienti secondari. Si tratta di processi spesso caotici, ma in cui emergono anche nuovi ordini da decifrare, attraversati da forme di eterogenesi che ne rendono non del tutto prevedibile lo sviluppo. Dopo la città dell’alienazione del Novecento, in tal senso, assistiamo alla città in cui l’alterità rimossa diventa una logica diffusa. I tentativi di appropriazione dall’alto e sussunzione capitalistica di questa metamorfosi, espressa in forma mercificata dall’immagine del Bosco verticale, ne confermano la consistenza epocale.

 

 

S.M.: […]così cammini, in trance, lungo i viali / macinando un solo pensiero
dopo giorni che nessuno ti parla / ti ammali di luce, di passi
votati alla strage, scagliati a caso / sulla mappa degli abitati,
la raggiera delle strade a scomparsa / dove il nulla ti ha invaso;
e passare l’incrocio che nessun dio / contadino guarda e protegge
è esporsi al vento gelato che spira / dall’ombra lunata del male:
o sarà come il bambino velato / dell’apologo che a tastoni
risale sulla cresta del cuscino / e incosciente si lascia andare
fino al giorno in cui avrà il cuore pesato / e gli occhi offerti su un altare
di nuvole, sino al nido del merlo / dove una corona di piume
sul fondo azzurro cupo dell’infanzia / lo inchioderà al suo dolore.

 

Questi versi de Il cuore pesato fanno parte della tua ultima raccolta, L’indifferenza naturale (Marcos y Marcos 2018). Credo sia importante, poiché citata nella tua risposta ed espressa in questi versi, parlare dell’indifferenza in relazione ai nuovi paesaggi ibridi e secondari che descrivi. È questa una manifestazione nuova in un campo, quello della città nella sua interezza, che non è mai stato neutro, e non lo è tutt’ora, ma attraversato da profonde contraddizioni, conflitti e dicotomie. E a proposito di queste, credi che alla parola indifferenza si possa opporre, seguendo un tuo recente intervento uscito su Le parole e le cose2, la parola speranza[1]? In questo senso, credi che la poesia contemporanea possa o debba avere un nuovo ruolo sociale diverso da quello che abbiamo conosciuto nel novecento?

I.T.:

L’indifferenza di cui scrivo non si oppone alla speranza. Siamo abituati a pensare questa parola, quando ci riguarda come esseri umani, persone, sulla falsariga dell’apatia de Gli indifferenti di Moravia o come indifferenza morale e inazione – ciò contro cui scagliava Gramsci nel suo pamphlet Odio gli indifferenti. Quanto all’indifferenza della natura, il riflesso condizionato leopardiano ci inclina a intenderla come indifferenza della natura rispetto ai nostri fini, agli scopi umani: la natura matrigna e le sue manifestazioni distruttive che fanno tabula rasa delle nostre aspirazioni.  Quest’ultima è un’immagine della nostra distanza della natura, della nostra alienazione da essa: motivo cui è intessuta profondamente la nostra cultura, e con cui dobbiamo fare i conti, ma che rischia di essere profondamente unilaterale. Non possiamo sbarazzarcene in un colpo, immediatamente, con un semplice atto del pensiero, perché nella natura, nel mondo c’è anche questo, e tuttavia abbiamo bisogno di allentarne la presa su di noi. L’indifferenza naturale è anche un esercizio di trasformazione dello sguardo – “lo sguardo è lenta costruzione / brivida e traluce dai rami” – in cui il senso di tale indifferenza è lasciato oscillare su una banda più larga, innescando una risonanza polisemica che possa liberarne l’ambivalenza produttiva.

L’espansione e contrazione siderale della cintura suburbana, i processi di periferizzazione e di rivegetalizzazione cui va incontro la città diffusa, sono frammenti di qualcosa di più vasto, altrettanti fenomeni in cui si manifesta un’approssimazione erosiva tra caso e progetto, natura e artificio. Questo paesaggio ibrido tende così a un punto d’indistinzione, dove nell’indifferenza della natura potremo al limite riconoscere un momento di indecisione, la nostra non differenza rispetto ad essa. E’ come se ci si esponesse a ciò che Robert Smithson, parlando dei suoi earth projects nel saggio A Sedimentation of the Mind (1968), chiamava “ritmo della dedifferenziazione”, un processo di erosione costante tra mente e paesaggio, in cui le costruzioni e gli strumenti della tecnologia umana, e le parole stesse, si sfaldano nella geologia dei luoghi su cui operano, e questi ultimi si sedimentano nella mente, si confondono infinitamente con essa, aprendo uno spazio di indeterminazione produttiva. Così, in Minerale,

 

 

il mattino è acqua che fermenta,

              l’anima minerale già sepolta

              sotto il telo grezzo della melma

                                           brano a brano si sfalda

 

Come pensare un materialismo poetico per cui quest’indifferenza abbia un valore e contenga possibilità vitali, non solo estetiche? Se torniamo al pensiero tradizionale della natura, ci rendiamo conto che essa coinvolge sì la possibilità della violenza e del dolore, e di un ordine del mondo indifferente rispetto ai nostri scopi, ma anche del suo contrario: ché anche la dimensione del bene, e del giusto, è un modo, per quanto fragile, della sua manifestazione, emerso a un certo punto sul palcoscenico della physis. In tal senso si può forse parlare di indifferenza nella natura rispetto all’opposizione tra indifferenza e speranza per come sono comunemente intese. Né dobbiamo dimenticare che la nozione di speranza non è intrinsecamente morale, almeno in senso antropologico: non è necessario condividere aneliti religiosi per consentire con Kant circa il fatto che la domanda “che cosa devo fare?” è perlomeno distinta dalla domanda “che cosa posso sperare?”. La speranza riguarda anzitutto la possibilità di trascendere l’ordine dato del mondo – incluso quello morale – ed è legata alla sensazione che in esso ‘manchi qualcosa’ – per riprendere un’espressione impiegata da Bloch e Adorno in un dialogo sul materialismo e utopia –, che la sua configurazione attuale non esaurisca il senso del possibile. Negli scorsi decenni l’immaginazione condivisa della nostra forma di vita si è come esaurita, e i modelli politici e morali condivisi che davano un senso all’avvenire e a ciò che potevamo sperare sono diventati quasi inintelligibili. Potremo riattivare l’immaginazione sociale solo se sapremo collocare la domanda “che cosa possiamo sperare?” in un orizzonte più vasto, alimentandone il senso a una sorgente che fuoriesca dai limiti della forma di vita che stiamo abbandonando, e che non si lasci esaurire dall’umano e dalla sua autocomprensione. Guardare alle metamorfosi dell’urbanesimo contemporaneo, esplorare le ibridazioni del paesaggio, le mutazioni cui il nostro rapporto con la natura va incontro, ci conduce ad esplorare territori inconclusi, matrici di trasformazione in cui afferrare, per riprendere un’espressione di Ponge, “l’immagine presente di ciò che tendiamo a divenire”. E’ una questione che ci riguarda tutti,  e che coinvolge anche la poesia, quando si tratti di riapprendere la grammatica della speranza, rifarla in re, decifrando le possibilità  inevase nella materia sognante, l’immaginazione sedimentata nei frammenti ibridi della nostra epoca: emancipata dalla restrizione antropologica degli orizzonti di attesa, essa si inscrive in uno strato più profondo, dove l’approssimazione entropica di parole e cose converge asintoticamente nell’indifferenza come eventualità del nuovo, di un possibile spazio comune.

 

S.M.:  aspettiamo l’alba con la falce

nel pugno, quando il buio cova

le stoppie sui campi gelati

e fiutiamo il freddo che infiamma la gola

mentre la luce s’inunghia tra i rami;

dovrà venire su dallo sterrato

come un serpente sgusciare nell’ombra,

dovrà passare prima o poi tra i filari

scivolare sotto i tralci potati;

allora con la falce nel pugno

aspettiamo, sotto il cielo di rame

ascoltiamo il fruscio che risale;

tutto è pronto, il sentiero è spianato,

il cancello divelto tra i pali,

noi aspettiamo, non resta che questo,

con la falce nel pugno in silenzio

aspettiamo che venga domani.[2]

 

A partire dal XIX secolo la città ha scandito i suoi tempi di vita sempre più in stretto rapporto con quelli del lavoro. Oggi una distinzione pare essere quasi svanita, il tempo di produzione coincide interamente con quello della vita. Inoltre l’informazione immediata e continua ci impone di vivere in un eterno presente, in cui non vi è concesso spazio per l’indefinito, il possibile e l’utopico. In conclusione, poiché questi paesaggi ibridi si configurano come spazi del possibile, forse anche dell’utopico, ma soprattutto futuribili; vorrei chiederti che ruolo ha o può avere il tempo all’interno di un luogo come la città (o quel che ne resta così come l’abbiamo conosciuta) e come e se la tua poesia s’interroga su questo conflitto tra spazio del possibile e tempo eterno del presente. In letteratura sino ad oggi, mi pare che la narrativa abbia provato maggiormente a mettere in luce questa condizione, conosci altri tentativi in poesia?

 

I.T.: L’annessione del tempo della vita a quello della produzione è uno dei fenomeni focali del nostro tempo e ha effetti sulla composizione organica degli individui, che si lasciano afferrare sempre più direttamente nella loro struttura anche biologica dalle esigenze tecnologiche del processo produttivo e di scambio. Se nella società di massa prima il loisir, il tempo libero socialmente organizzato, prefigurava l’estensione della logica del tempo produttivo del lavoro alla sfera vitale privata annessa al consumo, oggi assistiamo al fenomeno per cui proprio l’assenza del lavoro diventa la condizione per la generalizzazione della logica della produzione e circolazione dell’eterno presente della merce. Il conflitto tra spazio del possibile e tempo eterno del presente tocca così un nervo biopolitico scoperto della nostra epoca. La contrazione temporale cui siamo soggetti non vi è estranea. L’organizzazione del lavoro riguarda anche l’articolazione dell’immaginario sociale, e la sua scansione, i suoi ritmi, sono altrettanti processi di visualizzazione dell’orizzonte di attese collettivo e individuale. L’assorbimento immediato del tempo della vita nella produzione, saltando la mediazione del lavoro e del suo arco progettuale, si lega profondamente al presentismo da cui siamo affetti. Lo shock del presente, secondo la diagnosi di Rushkoff, riguarda questo schiacciamento dell’orizzonte temporale sulla dimensione di un eterno e incessante presente, che non siamo in grado di mediare con un immaginario alternativo. È come se la nostra immaginazione del futuro fosse egemonizzata da un presentismo senza scampo, dalla rappresentazione, secondo la diagnosi di Mark Fischer, per cui there is no alternative. Tale immaginario sociale ha effetti iperstiziali, tende ad autoadempiersi, a ingenerare comportamenti che si conformano al suo orizzonte d’attesa. A ciò si lega il fatto che la nostra memoria del futuro è stata per diversi decenni egemonizzata dagli effetti dell’immagine dei futuri in abbandono, dalla rappresentazione dell’obsolescenza del futuro immaginato dalle passate generazioni.

Questo è il perimetro del tempo in cui oggi la poesia viene al mondo. Eppure, la poesia si legittima se è in grado di esprimere una resistenza e una differenza dell’immaginario, una fenditura del presente, ricordandoci una diversa memoria del futuro. Oggi tendiamo ad identificare, per usare due categorie di Luhmann, il ‘futuro presente’ – il futuro per come ce lo rappresentiamo – e il ‘presente futuro’ – ciò che tendiamo a divenire, che sarà domani, il versodove per cui ci incamminiamo oscuramente. Non sappiamo verso quale mattino si muova il mondo, ma in fondo, come scriveva Paul Celan nei suoi appunti per Der Meridian, “les jeux ne sont pas encore faits” è il “pensiero centrale” che “accompagna qualunque intenzione poetica”. Noi soffriamo di determinatezza, crediamo di vivere nella gabbia d’acciaio di un presente senza confini ma iperreale nei suoi dettagli determinati, in nicchie virtuali che ci isolano dagli altri, in una bolla temporale che ci separa da un futuro possibile. Ma tra le possibilità della poesia, e di ciò che chiamavamo letteratura, c’è quella di ricordarci lo scarto lo scarto tra presente futuro e futuro presente – l’inesauribilità del primo da parte del secondo – gli aspetti di latenza, e indeterminatezza, delle nostre traiettorie, la vaghezza del presente e gli spazi possibili, divergenti, dell’immaginario e del paesaggio sociale. Le nicchie sono immaginari in inverno,  ibernati, la bolla del presente è solo una bolla, e può essere soffiata via.

 

 

[1] Autorizzare la speranza. Poesia e futuro radicale/ www.leparoleelecose.it

[2] Italo Testa, [aspettiamo l’alba con la falce], L’indifferenza naturale, Marcos y Marcos 2018

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Andrea Inglese (1967) originario di Milano, vive nei pressi di Parigi. È uno scrittore e traduttore. È stato docente di filosofia al liceo e ha insegnato per alcuni anni letteratura e lingua italiana all’Università di Paris III. Ha pubblicato uno studio di teoria del romanzo L’eroe segreto. Il personaggio nella modernità dalla confessione al solipsismo (2003) e la raccolta di saggi La confusione è ancella della menzogna per l’editore digitale Quintadicopertina (2012). Ha scritto saggi di teoria e critica letteraria, due libri di prose per La Camera Verde (Prati / Pelouses, 2007 e Quando Kubrick inventò la fantascienza, 2011) e sette libri di poesia, l’ultimo dei quali, Lettere alla Reinserzione Culturale del Disoccupato, è apparso in edizione italiana (Italic Pequod, 2013), francese (NOUS, 2013) e inglese (Patrician Press, 2017). Nel 2016, ha pubblicato per Ponte alle Grazie il suo primo romanzo, Parigi è un desiderio (Premio Bridge 2017). Nella collana “Autoriale”, curata da Biagio Cepollaro, è uscita Un’autoantologia Poesie e prose 1998-2016 (Dot.Com Press, 2017). Ha curato l’antologia del poeta francese Jean-Jacques Viton, Il commento definitivo. Poesie 1984-2008 (Metauro, 2009). È uno dei membri fondatori del blog letterario Nazione Indiana. È nel comitato di redazione di alfabeta2. È il curatore del progetto Descrizione del mondo (www.descrizionedelmondo.it), per un’installazione collettiva di testi, suoni & immagini.